“Campi d’ostinato amore”
Se l’ora è perfetta
“Il desiderio di compimento che è all’origine stessa dell’idea di poesia” pervade la nuova raccolta di Umberto Piersanti. Dove il suo mondo mitico - da abitare in pienezza, immerso nella natura generatrice, sfuggendo al dolore, confortato dai ricordi - si ripresenta “ad alta concentrazione”
La poesia di Umberto Piersanti è contraddistinta da un mondo mitico ad alta concentrazione che nell’ultimo lavoro, Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, pp. 176, 19 euro), si fa sempre più stilizzato e conchiuso, quasi a rimarcare il bisogno dell’uomo di dissociarsi da una realtà di brutture e riacquistare conforto nel ricordo, nella ripetizione di kierkegaardiana memoria. I personaggi tratteggiati dal poeta possiedono infatti una fisionomia ben precisa, inconfondibile, non lontana dalla fissità psicologica delle favole pastorali: l’Antico, la madre e il padre – con i nomi evangelici di Maria e Giuseppe –, il nonno Madìo, le sorelle (che preparano «i tagliolini in brodo/ per la Liberazione»), lo sprovinglo, terribile folletto dei campi, e persino quell’entità trascendente e atemporale che è rappresentata dal Remoto. Nel drappello di tali presenze spicca il figlio Jacopo, unico attore in grado di smuovere seriamente la fine geometria del pantheonpersonale – nel quale comunque anch’egli è annoverato –e restituire la difficoltà agapica, oblativa dell’«amore ostinato» («Jacopo non ancora nato/ che ogni corso mutavi/ ed un’intera stagione/ mi rapinavi,/ e dopo venne il male/ che il tuo viso perfetto/ appena, appena piega/ ma non incrina,/ Jacopo delle corse/ e dei dolori,/ Jacopo del riso/ e dello sconforto,/ sei nella vita/ quella svolta improvvisa/ che non t’aspetti,/ la tragica bellezza/ che i tuoi giorni inchioda/ al suo percorso»).
Il discorso lirico di Piersanti è dunque ordinato secondo un sistema di forze e di gerarchie che tende all’iterazione incessante, confermando così il dualismo irredimibile tra tempo cupo e tempo gentile (il «tempo differente» à la Goethe): da un lato gli orrori della storia con l’aquila di Wehrmacht, il crollo delle ideologie e le sofferenze individuali sembrano avere la meglio sull’evidenza quotidiana; dall’altro la natura naturans crea un ambiente immaginarioespresso nel rigoglio dei suoi nomi (sontuosi sono i riferimenti botanici, tra i quali vanno rammentati il «pungitopo», la «vegelia», il «sorbo», la «bersigana» – che nel dialetto urbinate è un’uva dagli «acini rossi» –, il «falasco», il «tarassaco», la «violacciocca», lo «scotano»).
Benché sia chiaramente percepibile la tentazione dell’utopia, Piersanti è bravo ad apportare punti di discontinuità nel suo stesso spazio poetico, aprendolo alla possibilità dell’«ora breve», dell’insidia (la serpe «sta sepolta/ lì tra i fiori,/ sempre pronta/ a morderti la mano») e trovando nell’infanzia – non tanto intesa come stagione biologica, ma in qualità esistenziale – l’età dell’oro, l’«eterna epifania,/ Eden che il tempo/ non intacca/ ma innalza». In questo canzoniere parnassiano la condizione d’integrità del soggetto, che si aggira nel circondario incantato di Urbino, tra «greppi» e «favagelli», al «Fontanino» e allo «Spineto» e infine, nel posto piersantiano par excellence, le «Cesane», è data proprio dalla sua tensione a una pienezza alveolare, originaria: l’aurora di un «limbo caldo», di una leopardiana nascita primigenia.
Si potrebbe allora parlare di allotopia, ovvero della ricerca di un luogo alternativo, non sostitutivo. In fin dei conti, l’evenienza di una vicenda altra, segnalata dalla magia dei boschi e dall’ampiezza di spirito (come per Giuseppe da Copertino, «quel santo che vola/ sopra i campi/ e le case») sino a una maturazione escatologica, comporta il desiderio di compimento che è all’origine stessa dell’idea di poesia. Sorretto da Baudelaire, Rilke, Pasternak e Brecht, Campi d’ostinato amore non fa eccezione. Sì, nel puro «canto dei frati bianchi» o quando l’«ora» è «perfetta».