Su “L’acqua del lago non è mai dolce”
Nel lago della storia
Il nuovo romanzo di Giulia Caminito racconta con grande potenza narrativa le vicende di Gaia e sua madre: uno spaccato avvincente del mondo adolescenziale (e del suo rapporto con la storia dei nostri difficili anni)
Storia di laghi di leggende di asprezze e audacie – storia di fanciullezze adolescenze progetti e delusioni. Tanto dolore e insieme vitalità, e la corrente sotterranea e poi esplicita della rabbia – la più negata delle emozioni. Perché non sta bene perché è meglio di no, perché fa male a te e agli altri ma chi te lo fa fare e che figura ci fai?
Annunciando su FB l’uscita del suo bellissimo terzo romanzo, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 304 pagine, 18 Euro), Giulia Caminito aveva avvertito che non aveva “fatto sconti a nessuno” e in effetti non ha fatto sconti neanche a se stessa, la più che giovane scrittrice che aveva già alle spalle quei due libri precisi e appassionanti, ricchi di storia nati da un fecondo intreccio fra racconti familiari e una puntigliosa e soddisfacente ricerca di archivio (La grande A e Un giorno verrà). Perché dunque non sdraiarsi comodamente sul successo che hanno avuto, sullo stupore che hanno suscitato, specialmente il primo – vista la giovane età e la padronanza della scrittura?
Lo spiega tanto bene lei che non posso toglierle parola:
D’improvviso non mi è sembrato più giusto scrivere con la mia solita sicumera, ma provare a tirare fuori invece le storture e le divisioni che mi porto dentro.
Ho pensato di scrivere una storia contemporanea e al presente, una storia in prima persona, quando per anni quella prima persona, che dovevo essere e non essere io, l’avevo guardata con disgusto, perché a chi sarebbe mai importato di me, di una vita di 33 anni in cui non è successo assolutamente nulla di così rilevante.
Mi sono fermata e ho pensato a quel vuoto, il vuoto di una adolescenza ordinaria, di una non militanza, di una non Storia. Da lì ho iniziato a costruire il personaggio di Gaia e così, unendo quel racconto e questa assenza, è nato il romanzo.
(…)Mi sono resa conto che lei poteva dire tutto, attraversare la mia vita, mangiarsela e digerirla, poteva fare ogni cosa che io non avevo fatto, poteva commentare il mondo, se stessa, gli altri e non dare tregua a nessuno. (…)Non so fin dove sono riuscita nel mio intento, nel mio tentativo di rivoluzione personale, ma sono grata a me stessa per aver tentato.
Ho capito che ho bisogno di variare con la scrittura, di non essere certa di me stessa, di misurarmi con quello che non capisco, che mi addolora, che mi sfugge e non so gestire.
Ora mi sento pronta a propormi ogni volta nel modo che sentirò più vicino e giusto per me, dopo questo libro, se avrò occasione, nei prossimi anni rimescolerò ancora le mie carte, giocherò, mi distruggerò e continuerò a crescere.
Ho imparato che i luoghi più insicuri, quelli che nascondono i mostri, sono anche quelli più fertili, dove scorrono le acque dei fiumi carsici, il cibo che non ti aspetti, le correnti che dalla superficie non avresti mai notato. (https://letteratitudinenews.wordpress.com/2021/01/23/giulia-caminito-racconta-lacqua-del-lago-non-e-mai-dolce/).
E da quel salto coraggioso, dalla capacità di Caminito di lasciare una sponda sicura e avventurarsi nel lago delle emozioni e dei pensieri che fanno male dei ricordi che bruciano – come andare al centro del lago di Bracciano, di Martignano e di ogni altro lago, e incontrare i mulinelli che ti tirano giù – è nata anche una nuova scrittura, una sintassi interiore che trova forma nel flusso acquatico di un rotolare di parole e frasi una sull’altra, interpunzione preferita la virgola. Tanto necessario il fluire – che alle parole chiave, alle chiuse ritmiche e musicali delle frasi tocca togliere anche l’articolo.
Affannoso a volte e sempre teso monologo interiore di Gaia, appunto, la protagonista numero uno almeno nella voce che narra, perché sempre accanto a lei e sopra e di lato e come un’ombra da cui non ti puoi distaccare neanche quando ci sono le nuvole c’è la madre Antonia, monumentale donna popolana tutt’altro che ignorante. Maestra di ogni e qualsiasi strategia di sopravvivenza. Progetti incarnati in un corpo in continuo movimento, creativo e conoscitore di ogni espediente, di ogni tattica vitale e instancabilmente tenace. Peso schiacciante – imperativo d’emulazione sempre disatteso.
È Antonia che apre il romanzo, che lo battezza con la sua personalità forte e indomita – ma è lo sguardo della figlia, inetta quanto la madre è abile e capace, a dare senso alla storia. Gaia che, sin da bambina, risulta tanto più lungimirante di lei nel togliere alle loro vite la scorza dell’apparenza –a dissezionarne i ventri molli, i luoghi dove si annida la possibilità di marcire per ogni e qualsiasi programma alternativo al luogo/stato dove il caso/il destino/la sorte/il karma ti ha ammesso all’esistenza.
Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia, una donna con i capelli rossi che entra in una stanza e ha addosso un completo di lino, l’ha tirato fuori dall’armadio per l’occasione, se l’è comprato al banco di Porta Portese, il banco buono dei vestiti di marca ribassati, non quelli da poche lire, ma quelli con sopra il cartello: PREZZI VARI.
La donna è mia madre e ha una valigetta di pelle nera stretta nella mano sinistra, si è fatta da sola la piega ai capelli, ha usato bigodini e lacca, ha gonfiato la frangetta con la spazzola, ha occhi verdi e gialli e tacchetti da cresima, lei entra e la stanza si fa piccola.
Alle scrivanie siedono impiegati, mia madre ha passato tre ore all’angolo del palazzo, la valigetta contro il petto, e quando lo racconta dice che le sue gambe erano burro e la saliva acida.
Si avvicina muovendo fianchi e prima di lei arriva il profumo con cui ha coperto l’odore di lenticchie cucinate per il pranzo, dice: Sono venuta per vedere la dottoressa Ragni, ho un appuntamento.
Si è ripetuta quella frase allo specchio e in tram e in ascensore e all’angolo: Ho un appuntamento.
Antonia che con l’inganno entra da chi dovrebbe assegnarle una casa e non l’ha fatto – Antonia che non si arrende mai. Antonia che punisce per sottrazione (di beni, di servizi, di usi e costumi) la figlia Gaia e il figlio Mariano. L’autorità di Antonia è indiscutibile (anche con il marito invalido e persino con le ricche signore da cui va a servizio, che le fanno comandare la casa). Ma necessaria. Sicché neanche per un momento possiamo cedere all’odiosità di certi suoi comportamenti.
Ci identifichiamo con la sua sete/fame infinite – di cose materiali, di giustizia di cultura di dignità umana – anche mentre soffriamo insieme a Gaia, che per quella sete/fame si sentirà impotente vergognosa schiacciata.
L’enormità del potere della madre – e quel suo agire per sottrazione – spalancano in Gaia abissi di una mancanza che mai sarà colmata, e che esploderà in un’adolescenza ruvida, incurabile nei suoi accessi di rabbia e nella negazione del dolore, nella trasformazione in furore distruttivo di ogni e qualsiasi sofferenza (l’amica che la tradisce, il ragazzo che la delude, l’ambiente che non l’accoglie).
Sorprendente, per me, è stato subire la potenza di quell’adolescenza di Gaia che Giulia Caminito racconta (anagraficamente, anche la sua, tanto più che il luogo è il lago di Bracciano e il paese Anguillara, i suoi): come faccio – mi chiedo – io che ho avuto quattordici anni nel 1960, a identificarmi così tanto con Gaia, che quegli anni li compie nel 2001, quando a Genova si realizza il macello di tante speranze e, due mesi dopo, cadono le Torri Gemelle?
Questa è l’arte della scrittura, codesto è l’estremo grado di raffinatezza che raggiunge Giulia Caminito ne L’acqua del lago non è mai dolce: potente e puntigliosa, riesce ad estrarre dall’adolescenza di Gaia (e della sua generazione) il succo essenziale e universale. Le rabbie, ancora; lo sconcerto; la timidezza la sfida; la relazione dell’adolescente col proprio corpo e con il corpo della madre che l’ha generata. Il rapporto misterioso e attrattivo e pauroso con il sesso. Ma poiché Giulia Caminito conosce l’arte anche per i suoi tanti studi della letteratura scritta dalle donne nell’Ottocento e nel Novecento – e quasi sempre dimenticata – L’acqua del lago non è mai dolce non è solo mirabile periscopio nell’animo umano dei protagonisti e delle protagoniste del romanzo, per l’accuratezza dei quali ci vorrebbe un’altra recensione. Scava senza pietà negli anni Ottanta/Novanta e dopo, nel passaggio del Millennio. I decenni in cui s’è cominciata a disperdere la com-passione, la capacità umana di condividere le emozioni.