Giuseppe Grattacaso
Ancora su "Pascoli maledetto"

Famiglia Pascoli

Come può la mitizzazione di un poeta stravolgere il senso stesso della sua opera? Basta rileggere i versi più ostici e nascosti di Giovanni Pascoli per capirlo. Talvolta l'ambiente esteriore porta uno scrittore a nascondere se stesso nelle proprie opere

Appena trentenne e già letterato di riconosciuta notorietà, Giovanni Pascoli cominciò a fare i conti con una vita che stentava a tenere fede alle premesse. Il futuro che scorgeva davanti a sé non aveva più le caratteristiche dei progetti e dei sogni degli anni bolognesi, il tempo degli studi universitari e della bohème, delle goliardate e degli ideali rivoluzionari, delle passioni amorose e delle difficoltà economiche. La vita gli apparve allora segnata dalla sua stessa incapacità di uscire dalla prigione che, complici le sorelle, e forse più che complici artefici, aveva edificato intorno a sé e alla sua poesia.

Non è tanto l’assassinio del padre e la lunga lugubre sequela di lutti familiari a determinare le condizioni dell’infelicità di Giovanni Pascoli, di quella sorta di inadeguatezza a essere in pace con se stesso che sembra caratterizzare la sua vita matura, un tanto condanna per il resto autofustigazione, quanto proprio il legame con le sorelle, in particolare con Maria (insieme al poeta, nella foto accanto al titolo), all’apparenza remissiva, in effetti fortemente determinata. In questo vincolo fatto di affetto e di mai sopite recriminazioni, il poeta ben presto naufragò, sentendosi investito del ruolo di padre, di nume protettore della religione del nido di cui non era mai stato un fedele, e che diventò per lui castigo più che scelta determinata da bisogno o desiderio.

Francesca Sensini, nel fortunato e appassionante Pascoli maledetto, edito da Il Melangolo, un po’ biografia un po’ riflessione di carattere letterario, un po’ opera divulgativa e per il resto saggio critico (clicca qui per la recensione di Luca Zipoli), ribalta con decisione la vulgata di un Pascoli intimista e svenevole, sdolcinato cantore delle piccole cose, contagiato da idillica affettazione, per restituire la sua figura, e con essa l’opera, alla più vera identità di voce poetica di spessore europeo, di intellettuale impegnato, in piena consapevolezza, a costruire il linguaggio della poesia del nuovo secolo.

La maledizione dunque a cui la Sensini fa riferimento è innanzitutto quella che ci conduce tra la schiera dei poétes maudits, di quei letterati cioè che, a partire da Baudelaire, scardinarono le certezze linguistiche e culturali che avevano resistito fino alla loro epoca, per edificare le basi di un linguaggio nuovo, capace di avvicinarsi al mistero del mondo e di ribaltare i valori ritenuti come fondanti dalla società borghese. È evidente come Pascoli, al di là dell’impressione determinata da una lettura superficiale dei suoi testi, soprattutto quelli, sempre gli stessi, ad uso delle antologie scolastiche, o orientata dai condizionamenti critici che lo vogliono autore di “bozzetti” campestri, esponente di un tormentato autobiografismo a carattere patologico, sia innanzitutto un poeta in cerca di strade insolite od ignote, non per il gusto di farlo, per una sorta di astuto ed in fondo rassicurante esibizionismo della trasgressione, allora largamente rappresentato dal più mondano D’Annunzio, ma per trovare le parole che sappiano di nuovo e ex novo nominare il mondo. Per riuscire, per inventare una nuova lingua e scoprire attraverso uno sguardo inconsueto il misterioso rappresentarsi della realtà, per tentare l’assoluto, ostenta però l’utilizzazione di strumenti antichi quando non addirittura vetusti e anacronistici.

Lo fa con piena e lucida consapevolezza, sperimentando e cercando una nuova lingua su un impianto metrico e formale di natura classica. Però, a differenza di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, e di Poe, che manifestano chiaramente ribellione e marginalità, che sono maledetti anche nella irregolarità delle esistenze, Pascoli, come sottolinea giustamente Francesca Sensini, tende a dissimulare, a costruire una grande e meditata messinscena, che investe e “maschera” vita e poesia, in un gioco di cui è insieme il manovratore e la vittima. “Nei testi pascoliani – scrive la Sensini – l’io che desidera – la vita, l’amore, la gioia – si separa dall’io che rinuncia in due metà dialoganti alla ricerca, come l’androgino platonico, di un modo per ritrovare l’interezza”.

Doppiezza della realtà e scissione personale sono dunque legati. La maledizione è perciò anche di tipo esistenziale. Ed è una maledizione, come si diceva, che non nasce, o almeno non viene avvertita, negli anni dell’infanzia e della giovinezza, pure segnati dai profondi turbamenti dei lutti e dalle ristrettezze di carattere economico, ma quando il poeta decide, sulla scorta di un complesso di colpa più che di un proprio convincimento, e pressato come si diceva dalle sorelle, di portare a vivere con sé Ida e Maria. Non è il tentativo di ricostruire il nido familiare a determinare questa soluzione, bensì un nocivo senso di responsabilità. È all’epoca del suo trasferimento a Massa, avvenuto negli ultimi mesi del 1884, che Pascoli si fa allettare dall’idea di di assumere “la maschera del padre morto”. Nella primavera dell’anno successivo Ida e Maria lo raggiungono nella cittadina toscana. Giovanni ha trenta anni. Severino Ferrari, l’amico di sempre, scrive che l’altro “si intristisce e sfiorisce”. Carducci sentenzia che “Severino è sempre più matto. Il Pascoli più minchione”. Francesca Sensini traduce che “Giovanni è spossessato di sé” e che le sorelle sono “due protesi”, che “lo costringono a movimenti innaturali”.

Comincia così il lento suicidio alcolico, il ricorso al laudano, la trasfigurazione del poeta, la manipolazione ad opera di Maria, che diventa progressivamente, e ancora di più negli anni di Castelvecchio, “la detentrice del futuro del fratello, in vita e in morte”. Pascoli, scrive la Sensini con partecipazione quasi affettuosa al destino del poeta, “muore poco a poco, per non farsene accorgere”. È la recita, “il consolidamento della menzogna”, è l’esibizione di una vita fatta di piccole cose e di buoni e patetici sentimenti, a cui lo stesso poeta del resto non crede.

Francesca Sensini ha il grande merito di riportare Pascoli a se stesso e di permettere così, attraverso un’attenta e in gran parte inedita ricostruzione biografica, la comprensione più vera e profonda della sua poesia, arrivando a penetrare le ragioni che la determinarono, molto lontane da quel mito, e dalla retorica, del nido, che fu piuttosto creazione ed autocelebrazione di Maria, frutto della sua ideologia e non di quella del poeta.

Le poesie di Pascoli, anche quelle meno conosciute, che si sviluppano a partire da una forte tensione epica e si alimentano sempre di un profondo afflato lirico, sono testi “di uno sperimentalismo e di una consapevolezza vertiginosi”. È proprio così, sono spesso vertigine e turbamento che ci colgono a contatto con il mondo e con la lingua di Pascoli, di fronte alla sua “poesia squilibrata, fortemente anticlassica su classicissime fondamenta, straniante, forse anche per alcuni irritante”.    

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