Castelporziano/7
L’happening poetico
«Nel frattempo sul palco e tutt’intorno erano successe altre cose, non dico che nella mia eccitazione non le registrassi, ma dopo l’happening del minestrone passarono forse in secondo piano, o almeno lo sono oggi nella mia memoria»
Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente abbiamo seguito la seconda serata del Festival, nel corso della quale i poeti stranieri erano stati invitati a “esibirsi” sul pericolante palco costruito sulla spiaggia di Ostia.
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In ogni caso, la generazione più rappresentata su quella spiaggia era quella dei fratelli maggiori, gente che avrà avuto all’epoca tra i venticinque e i trentacinque anni, di fronte alla quale mi sentivo, malgrado la mia spavalderia, ugualmente in soggezione, dico “malgrado”, ma in realtà la spavalderia era il prodotto della soggezione, ne derivava, rappresentava la reazione del mio corpo quasi imberbe e contratto a tutta la libertà sessuale e di costumi che mi circondava in quel momento e di cui nella vita di tutti i giorni potevo percepire sì e no qualche allusione, vedere qualche spiraglio, mentre lì tutto era esibito, sfrontatamente, con impassibile ostentazione, culi tette cosce aperte membri ballonzolanti, non mancava niente al repertorio, amanti che si sfregavano l’un contro l’altra (o l’altro) incuranti di chi li circondava, coppie che si separavano temporaneamente alla ricerca di altri organi sessuali da blandire e apprezzare per una breve vacanza, non tutti, certo, avevano già fumato abbastanza per sentirsi così liberi, o liberati, ma bastava guardarsi intorno per notarne numerosi esempi, avvertivano il bisogno di avvalersi di occasioni come quel festival per dimostrare al mondo quanto ormai anche la nostra civiltà fosse avanzata, per rovesciare e capovolgere la cultura cattolica sessuofobica e puritana in un’indiscriminata celebrazione del desiderio, anche di quello finto e simulato, se necessario, il sesso non essendo in definitiva che un’arma, il grimaldello usato per scardinare i valori e le ipocrisie della generazione precedente, quella dei genitori repressi che nell’Italia di quegli anni non riuscivano nemmeno a divorziare in santa pace, rampognati da monsignori e politici baciapile, come non ne mancano neanche adesso, del resto, con la differenza che al giorno d’oggi questi stessi baciapile il più delle volte hanno almeno un divorzio alle spalle, perché delle conquiste civili altrui sanno fare tesoro senza alcuna esitazione così come approfittano di tutto ciò che si dimostri ai loro occhi utile e conveniente, ma tornando a quelle serate il sesso era davvero dappertutto, in ogni occhiata, in ogni gesto, in ogni nube di fumo dolciastro che s’alzava dalla distesa di sabbia, e io ne ero eccitato e sconvolto, anzi maledettamente spaventato, già sicuro di non essere all’altezza della prova che mi stava aspettando, e che non era certo quella di leggere al microfono, davanti a una folla, un testo che mi ero preparato in precedenza, ma qualcosa di totalmente aleatorio e sconosciuto, imprevedibile, l’evento inserito nell’evento, perché da quando ero arrivato in spiaggia avevo capito che quella notte non l’avrei passata dormendo, che la ricerca avrebbe dato frutti, non sapevo quali ma ero certo che ve ne sarebbero stati, tutto il mio corpo intendeva uscire da se stesso, lasciarsi vivere nella confusione e nello strepito, ubriaco di suoni e dissonanze, sotto i riflettori e al tempo stesso nascosto nell’oscurità della sera incipiente.
Nel frattempo sul palco e tutt’intorno erano successe altre cose, non dico che nella mia eccitazione non le registrassi, ma dopo l’happening del minestrone passarono forse in secondo piano, o almeno lo sono oggi nella mia memoria, ho un vago ricordo di un paio di fantasmi o manichini bianchi che si aggiravano e gesticolavano sul palco, di un poeta con pizzetto ma senza baffi, forse Viviani, della cui poesia capii ben poco (e se era proprio lui, continuo a capirne poco anche oggi), ma almeno in quell’occasione non fui il solo, qualcuno nel pubblico commentò che gli sembrava di aver ascoltato qualcosa non in italiano, ma in un’altra lingua, pare poi che Burroughs avesse sollevato un piccolo vespaio rifiutandosi di leggere a causa della confusione e che infine Ginsberg e Orlowski, di banjo armati, fossero riusciti a riportare la calma mugolando un lugubre “om” assolutamente di rigore per la cultura alternativa, o forse queste due cose avvennero nell’ordine opposto, o in momenti diversi, disgiunte, senza alcuna relazione fra di loro, e men che mai una relazione di causa/effetto, così rara nella vita, del resto, checché se ne dica comunemente, ma ha poca importanza, di sicuro a un certo momento nessuno ci avrà capito più niente, la confusione fra addetti ai lavori e pubblico, fra palco e spiaggia, fra dentro e fuori, dev’essere diventata talmente grande da inghiottire tutto e tutti, stendendosi come un velo pietoso sulle proteste, proprio come l’oscurità che parallelamente veniva a invadere tutto il litorale, invitando le parti in causa a cedere, ad arrendersi alla notte. I miei quattro poeti li persi di vista quasi subito, bastò che ci separassimo per qualche minuto e la folla sembrò inghiottirli, tornarono presto in albergo, penso, non so quali programmi avessero, non ne avevamo parlato, ma com’è legittimo i loro programmi non dovevano necessariamente includermi, né io ero interessato a lasciare la spiaggia, non in quella notte di assoluta libertà che mi ero conquistato con tanta fatica, una notte che volevo fosse unicamente mia, nel corso della quale m’illudevo di riuscire a scatenarmi, uscendo da me stesso, dalle restrizioni che il mio stesso carattere m’imponeva, fatto sta che mi ritrovai del tutto solo, senza più alcun punto di riferimento, a spostarmi e vagare fra le dune, con l’ausilio della luna crescente, cercando anzitutto di non calpestare nessuno, di non disturbare le coppie avvinghiate e di non mettere incauto i piedi là dove qualcuno aveva rovesciato non meglio identificati liquami, ma per il resto mi sentivo allegro, quasi avessi bevuto qualcosa di forte, e provavo un sentimento di potenza, come se finalmente tutto fosse possibile, anche l’inimmaginabile.
Vidi ancora qualche faccia conosciuta, mi pare che scambiai perfino quattro parole con Dario Bellezza, al quale avevo fatto leggere qualche mia poesia mesi addietro e che era stato prodigo d’incoraggiamenti, se era rimasto infastidito dalle reazioni del pubblico e dalla performance degli statunitensi non lo diede a vedere, del resto il momento per lui più difficile era stato quello della prima serata, quando era stato fischiato e trattato da povero scemo, nel frattempo doveva essersi ripreso e anche un po’ consolato, vedendo che a un analogo destino erano stati condannati quasi tutti i poeti italiani in circolazione, e per di più quella stessa sera Renzo Paris, in giacca e occhialetti anche lui, gli aveva dato esplicitamente ragione, accusando gli spettatori tutti di non essere altro che fascisti, insomma mi sembrò abbastanza sollevato e mi salutò con la solita, affettuosa timidezza, l’occhio arrossato dietro le grandi lenti, poi non so, incrociai anche qualcun altro, forse Pecora, forse la Spaziani, ma erano incontri casuali e di breve impatto, i pochi secondi necessari a un saluto frettoloso, e poi via, ognuno per la sua strada, o meglio per la sua duna. Trovai un punto dove potevo ripararmi da un venticello che si era appena alzato e mi accesi un’altra delle mie Gitanes, se non altro mi avrebbe dato un minimo di tono, sarei sembrato, pensavo, più adulto, più padrone delle cose, inutile dire che a differenza della maggior parte dei maschi presenti non ero munito di alcuna bottiglia, e nemmeno di una misera lattina di birra, se è per questo bere non rientrava davvero fra le mie abitudini, e nemmeno fingere di essere un consumatore regolare di alcool, avrei dovuto accontentarmi del fascino conferito dalla sigaretta, almeno non fumavo una banale Marlboro o peggio ancora una Muratti o una MS, le mie sigarette mi davano anzi una parvenza d’uomo duro, tutto d’un pezzo, che non fa sconti e concessioni e mira all’emozione forte, è proprio così, non c’è niente da fare, l’infantilismo ci accompagna per tutta la vita, accompagna tutte le nostre scelte, certi capi di vestiario, certi accessori li scegliamo non perché ci piacciano davvero (e cosa significa poi “davvero” devo ancora capirlo), ma perché corrispondono a un’immagine che ce ne siamo fatti, o che vorremmo farci di noi stessi e poi trasmettere agli altri, immagini che una pubblicità onnipervasiva e contundente è riuscita a imporre al nostro inconscio, dunque non c’è nulla di strano che ragionassi per categorie, e categorie così ridicole, per di più, ero certo che in ogni caso, e se non altro, il fatto di fumare mi avrebbe attirato l’occhiata di qualche ragazza in più, magari di quelle sempre a corto di sigarette e pronte a sfilarle a chiunque, anche a un ragazzino macilento e brufoloso, salvo poi fare una smorfia quasi impercettibile una volta scoperta la marca, roba irrespirabile, ma forse poi sarebbe andata bene lo stesso, non si guarda tanto per il sottile quando si scrocca e una sigaretta in fondo non è che una sigaretta, non impegna.
Avvolto nella mia personale nube di fumo, in concorrenza quindi con quelle ben più spesse che si levavano dai gruppi di giovani stravaccati sulla spiaggia e intenti a passarsi spinelli e bottiglie nel frastuono e nella confusione che regnavano sovrani, mi misi in un punto da dove potevo avere una visuale abbastanza completa, esitando ancora un attimo prima di gettarmi nella mischia e avvicinarmi con fare casuale a una di queste comitive, credo volessi starmene ancora un po’ per conto mio a riflettere in pace su tutte le emozioni e le esperienze di quei giorni, le suggestioni ricevute, gli stimoli assorbiti, il mondo sconosciuto che mi si era aperto davanti. Riflettevo su quella strana euforia che sembrava accomunare tutti, mi domandavo se fosse davvero legata alla poesia, alla sensazione di fare per una volta poesia tutti quanti insieme, semplicemente trovandoci alla presenza di autori che allora molti di noi veneravano, o se invece non fosse un effetto dell’allucinogeno miscuglio fra emozione erotica, fumo e derivati, eccitazione musicale – non aspettavano forse tutti Patti Smith? – e autocoscienza politica, che in realtà secondo me toccava frange molto ridotte, la maggior parte dei giovani lì riuniti essendo accorsi non per una variante spettacolare di un qualsiasi comizio, ma per vivere un’esperienza globale ed edonistica, tanto che chi in quelle prime due serate aveva cercato di buttarla in politica (o in propaganda) era stato tollerato ma anche fischiato, proprio come quegli esteti dei poeti, né più né meno, anzi magari persino di più, dopo un primo applauso liberatorio che si tributa sempre, per conformismo, a chi afferma di difendere le classi calpestate e vilipese, ma poi, è ovvio, resta tutto da vedere, e questi non erano che dei cialtroni, ai quali il pubblico, per stonato e confuso che fosse, aveva dimostrato di non voler dare alcun credito. Adesso, a luci spente, una folla apolitica e dedita unicamente al divertimento sembrava aver ripreso pienamente possesso della spiaggia, e anche del mare, non essendo pochi i giovani che anche così tardi si erano tuffati in acqua per rinfrescarsi, ma soprattutto direi della spiaggia e delle dune, che offrivano una protezione naturale, sebbene limitata, alla curiosità altrui ed erano quindi invase da coppiette, alcune di lunga data, altre formatesi in loco e da pochi minuti, mentre i gruppi ruotavano maggiormente intorno ai piccoli fuochi accesi più avanti, verso il mare. Solo dopo più di trent’anni mi rendo conto davvero di quanto quel momento possa aver agito su di me con le sue suggestioni nascoste, quel momento in cui solo, dall’alto del mio punto d’osservazione, potevo sentirmi fratello e al contempo estraneo alla massa di gente venuta a cercar refrigerio in spiaggia, collega e al contempo diverso da coloro che avevano letto le loro poesie fino a pochi minuti prima, attratto e al contempo spaventato dalle ragazze seminude che continuavano a passarmi davanti, ignorandomi, forse perché è solo adesso, superati i cinquanta, che si avverte davvero la necessità di riordinare il passato, di individuarvi una (qualunque) direzione, un (qualunque) senso, non foss’altro che per giustificare quello che nostro malgrado siamo diventati, è solo superati i cinquanta che ci si interroga, forse senza troppo costrutto, su tutti i punti d’intersezione che abbiamo attraversato, là dove la nostra vita avrebbe potuto prendere altre strade, a partire naturalmente da tutte le circostanze legate alla nostra origine e alla nostra nascita, che in qualche modo rappresentano una prima base per capire tutte le scelte successive, e non dico che questa riflessione serva a qualcosa, affermo semplicemente che è inevitabile, ci consente di visualizzare tutte le scelte fatte e gli errori commessi senza che sia comunque più possibile renderli retroattivi e falsificare la storia, quel che è avvenuto non possiamo più cambiarlo, è evidente, e comprendere perché sia avvenuto e proprio in quel modo, non ci aiuterà, ma ecco che ci lasciamo andare ugualmente a questo esercizio, un esercizio di stile, se si vuole, vacuo, inutile, perché la conclusione è sempre la stessa, ne concludiamo che siamo quello che siamo in quanto siamo colui (o colei) che in quella data circostanza s’è sbagliato di misura, che in un’altra ha preso invece una cantonata, che in un’altra ancora ha fatto registrare un parziale successo, tutto si chiude insomma con una tautologia, “sono quello che sono, né posso essere altro da me”, eppure c’è una certa vaga consolazione in quella che a quanto pare Nietzsche chiamava redenzione, nel riaffermare chi siamo e fare pace con noi stessi, senza odiare quel che siamo diventati. E se il mio testo, il testo presente, rientra in quest’esercizio tautologico, per salvare le apparenze non basterà denunciare l’inadeguatezza della ricerca biografica o autobiografica, le insidie della memoria e il desiderio di abbellire la storia o persino la cronaca spicciola che si è vissuti, non basterà perché è proprio su queste categorie che si basa qualunque lavoro biografico dei nostri tempi sofferenti, di liquidazione del moderno, del postmoderno e di quant’altro gli si sia fatto seguire, proprio sulla messa in evidenza dell’assoluta inaffidabilità di un tale racconto, ma si continua ugualmente a raccontare e almanaccare, si continua perché si vuole ripristinare da tanti frammenti una sorta d’interezza, con una quota maggiore o minore di falsità, fallacia e infingimento, ma un’interezza, appunto, in grado di darci un qualche spessore nella nostra pura e semplice qualità d’individui. Me ne rendo conto, sto filosofeggiando, e peggio ancora mi sto allontanando dal cuore della narrazione, la ricostruzione di una serata di solitudine in mezzo alla folla, in cui come mai prima di allora mi ero dedicato a cercare di capire qualcosa del mondo che mi circondava, senza troppo successo, tutto essendo sempre soggetto a inganno e adulterazione, d’accordo, ma con la fiducia tutta adolescenziale di poterci riuscire, di poter rinvenire il bandolo della matassa, senza aver ancora capito da cosa la matassa stessa fosse formata, d’altro canto, ma spesso capita d’intuire la soluzione al problema prima ancora che quest’ultimo ci sia chiaro in tutte le sue sfumature e articolazioni, fatto sta che arrivato a questo punto della vita (alla mezz’età attuale, voglio dire) la ricostruzione puntigliosa di quel che è stato lascia il posto alle suggestioni legate a quanto avrebbe potuto essere, le infinite varianti possibili rivelandosi sempre più interessanti di quanto bene o male abbiamo vissuto o creduto di vivere, e davvero non concede requie la consapevolezza che in tutto quello che si svela, si snoda o semplicemente si racconta, sbagliandosi, falsificando, manipolando a dismisura, non può non celarsi, per minimo che sia, l’abbellimento, l’orpello, in fin dei conti l’equivoco.
C’è da tenere presente tutto questo e da applicarlo a quanto sono andato narrando finora, ma soprattutto a quanto seguirà, perché la scena che ora mi si affaccia alla mente e che in qualche modo ho vissuto, sebbene forse con modalità e dettagli leggermente diversi, è una scena vietata ai minori, in cui le pulsioni erotiche la fanno evidentemente da padrone, ma è anche una scena che vorrei aver esperito allora con maggiore consapevolezza, e non per godere a posteriori di più di quel poco che fui allora in grado di godere (d’accordo, l’uomo è una macchina fatta per il godimento, eppure come avviene per tutte le macchine il suo funzionamento non è così semplice), ma perché forse anche la memoria ne sarebbe stata alimentata meglio se solo fossi stato più presente a me stesso, essendo questa del cortocircuito fra esperienza e memoria una delle contraddizioni a cui appunto il genere autobiografico non riesce a sottrarsi, per farla breve la mia dorata solitudine quella sera non durò troppo a lungo, non ricordo più se fui io ad avvicinarmi a una delle innumerevoli comitive di ragazzi per dare qualche tiro a uno spinello, o se rimasi piuttosto prigioniero di una sorta di dinamica di gruppo che finì per coinvolgermi, o ancora se fui semplicemente e deliberatamente adescato (quante possibilità, quante varianti per una sola narrazione), in ogni caso mi ritrovai presto seduto con una lattina di birra in mano, a comunicare e forse persino ridere e scherzare con gente che mi era più o meno coetanea, o di poco più grande, a raccontare loro senza inibizioni le mie scarse esperienze di vita e ascoltare al tempo stesso stupito e confuso le loro, fino a quando da tutte quelle ombre che mi circondavano se ne evidenziò una, la sagoma di una ragazza piuttosto piccola di statura ed estremamente esile, quasi efebica, ricordo che l’associai subito alla figura di una ballerina classica, anche per la levità con cui si era staccata dalla spiaggia che ci ospitava tutti, proprio come se si sollevasse sulle punte, e ricordo anche che constatai un po’ sorpreso come con lei fino a quel momento non avessi praticamente scambiato parola, era lei che era rimasta silenziosa, oppure, se ne avevo sentito la voce, non ci avevo fatto troppo caso, perché comunque non era a me che si era rivolta, tutto era avvenuto all’insegna del silenzio e dell’isolamento, almeno fino a quell’istante, l’istante in cui inaspettatamente mi prese per mano e con una forza inimmaginabile, considerata la sua gracilità, mi trascinò via con sé allontanandomi dagli altri. Ovviamente non sapevo quali intenzioni avesse, né dove mi avrebbe condotto, anche se qualcosa nel suo sguardo smarrito ma innocente e nella leggera pressione della sua mano mi tranquillizzava, mi suggeriva di non preoccuparmi, di seguirla come un cagnolino, con la consapevolezza che in ogni caso, benché fosse così giovane, disponeva di una maggiore padronanza della vita e delle cose rispetto al sottoscritto, la seguii, dunque, in preda a un’esaltazione tutta particolare, mai provata prima, non so se frutto della birra e dello spinello, o della situazione, o dell’emozione che tutti accomunava, quella sera, la seguii per un confuso itinerario sulla sabbia che mi sembrò abbastanza lungo, ma forse non lo era, magari mi sarà sembrato tale solo per la relativa difficoltà di avanzare fra le dune, adesso camminavamo in parallelo rispetto al mare, discostandoci sempre di più dalle luci e dai bivacchi spontanei, e procedevamo a zig zag lungo un percorso che lei sembrava conoscere bene, o almeno abbastanza per non esitare neanche un attimo e soprattutto per non perdersi.
In quel momento non ne conoscevo neanche il nome, solo molto più tardi, subito prima di scomparire, mi avrebbe confessato di chiamarsi Stella, ma che preferiva farsi chiamare da tutti Estela, appassionata com’era di tutto ciò che riguardava o almeno evocava l’America latina, e rimettendo insieme i frammenti di quella notte mi dissi tempo dopo che ero stato uno stupido e che ci sarei dovuto arrivare da solo, a quel nome, vista la facilità con cui, complice la tunica bianca che svolazzava al vento, era stata capace di illuminare la notte e condurmi al luogo che doveva aver individuato in precedenza, all’inizio non ne conoscevo il nome, dicevo, e allora questo non mi faceva né caldo né freddo, mi sembrava anzi che la cosa non avesse alcuna importanza, che in quel preciso istante della mia vita non potessi fare altro che fidarmi di lei e della sua mano che mi tirava leggermente in avanti, verso anfratti sempre più oscuri e silenziosi, finché a un tratto, superata una duna che mi parve leggermente più alta delle altre e che quindi permetteva una maggiore riservatezza, si lasciò cadere sulla sabbia, in un punto qualsiasi, trascinandomi giù con sé, e improvvisamente tenermi per mano parve non bastarle più, mi afferrò una spalla per farmi compiere una rotazione quasi completa mentre scivolavo sulla spiaggia accanto a lei, una rotazione che mi portò ad affiancarla e a sfiorarle la gamba sinistra, mentre come per incanto la tunica si ritraeva. Non ne vedevo più il volto, adesso, mentre prima, seduto con gli altri intorno al fuoco, avevo avuto modo di contemplarne i lineamenti regolari e un po’ banali, senza un contrassegno particolare che permettesse di immaginarne il carattere e le preferenze, un volto di quelli che non rimangono impressi, che si perdono nel movimento frenetico della folla, e nemmeno i capelli corti da ragazzo, accorciati forse con un colpo deciso di forbici da lei stessa, perché non sembravano seguire una linea o una pettinatura specifica, ma essere stati dettati dal caso, tanto che non avrei detto che le incorniciavano il viso, piuttosto gli erano giustapposti, come qualcosa che non poteva non esserci ma che non ne potenziava l’avvenenza, in ogni caso in quell’oscurità io non vedevo più nulla, mi fidavo della memoria, memoria del suo viso e delle sue fattezze, mentre la vista lasciava il posto all’olfatto che ne registrava l’odore un po’ forte, un afrore discreto ma avvolgente, e soprattutto al tatto. Le mie mani, infatti, avevano preso a percorrerle il corpo quasi indipendentemente dalla mia volontà, come se fosse quello che da sempre erano state istruite a fare, leste leste percorrere la superficie di quel corpo di giovane donna, indugiando appena su ciascun avvallamento o sporgenza, mentre lei, improvvisamente spinta da una strana fretta, sollevava e si sfilava la tunica, o forse no, forse se la tenne addosso, almeno all’inizio dei giochi, ma di sicuro scoperse impudica le gambe e i seni piatti, ancora una volta da ragazzo, per poi avventarsi sui miei jeans, la cui chiusura lampo cercò inutilmente di opporre una strenua resistenza, ma a lei bastarono pochi secondi per farla capitolare, mentre quasi contemporaneamente riusciva a liberarmi con un solo gesto anche della camicia, e quindi nell’arco di pochi, intricati secondi risultammo entrambi praticamente nudi, protetti solo dall’oscurità della notte.
Non mi vergogno di riconoscere che quella sera la mia erezione non durò a lungo, sarà stato a causa della birra, o per il fumo, l’eccitazione generale, l’unicità dell’esperienza, credo che non abbia nemmeno troppo senso domandarselo oramai, poco male, del resto, mi sarei rifatto in seguito, nel corso dei trent’anni intercorsi da allora, ma quella sera, quella maledetta o benedetta sera, la mia venerata appendice non collaborò come avrebbe dovuto e la penetrazione fu relativamente breve e poco soddisfacente, soprattutto per lei, temo, il che non m’impedisce di rammentare ancora la precisa sensazione provata al momento di introdurmi in lei dopo qualche maldestro esercizio di sfregamento, una sensazione calda, umida, gentile, ecco direi soprattutto gentile, come se con leggerezza e cortesia ciascuno di noi porgesse qualcosa all’altro, e questo qualcosa era un fluido che attraversava senza fretta i nostri genitali e si propagava poi ai corpi abbracciati, abbracciati come i tanti altri corpi che quella sera, su quella stessa spiaggia, avevo visto o intuito fare le medesime cose, e cioè mischiarsi, fondersi, perdersi, come io mi stavo mischiando, fondendo e perdendo con una sconosciuta di nome Stella, o se si preferisce Estela, una ragazza inequivocabilmente del Nord, lombarda credo, non so perché ma quando ci penso mi viene in mente Mantova, una città in cui non sono ancora mai stato, forse fu lei a nominarla quella sera, o forse tutto nasce dallo spagnolismo di Estela e dall’accento sdrucciolo e dalla “v” di Mantova, che a me evocano qualcosa d’ispaneggiante, chissà mai di quali singolari risorse dispone il nostro cervello e perché decida di volta in volta di dispiegarle al momento opportuno, o invece si rifiuti, Mantova o non Mantova, comunque, l’accento la tradiva, e benché fisicamente potesse assomigliarle un po’ era agli antipodi della “ragazza cioè”, quella che la prima sera, stando a quanto mi era stato raccontato, aveva occupato militarmente il palco per parlare con tanti “cioè”, appunto, e in modo sconnesso dei suoi problemi, e che alla fine di quella sera, la seconda, avevo visto ripresentarsi imperterrita sul palco e arringare i declamanti chiedendo loro come potessero mai sentire le cose di cui scrivevano, perché a lei pareva proprio che nessuna persona potesse mai sentire così, e non disse “persona normale”, disse proprio “persona”, negando ai poveri poeti perfino lo status di esseri umani se davvero erano capaci di provare le emozioni che poi riuscivano a esprimere in quei componimenti incomprensibili, ecco, quanto la “ragazza cioè” era a suo modo eloquente e anzi torrenziale, tanto Estela aveva scelto invece la strategia opposta, quella del silenzio, perché mi unissi a lei e la penetrassi, anche solo per pochi minuti, le sarebbe bastato, ma bastato a cosa?, a farla sentire meno sola, o più vicina agli altri e ai loro vizi e quindi più “normale”, o semplicemente a concederle qualche secondo di godimento preso in prestito da un corpo di cui si era invaghita pochi minuti prima e che pochi minuti dopo avrebbe dimenticato e rimosso, non solo dal suo corpo giovane ma dalla sua memoria, oh Estela, perché ci siamo isolati e l’abbiamo fatto ancora adesso non lo so con certezza, ma è stato bello e futile e rischioso, bello nella brevità, futile per l’incoscienza, rischioso nell’assenza di preservativi e in generale di prudenza, il mio membro aveva dimostrato malgrado tutto di essere giovane e pronto alla battaglia, a ben altre battaglie, quanto a questo, e la tua fessura di potersi aprire ed accogliere l’elemento estraneo come natura dètta, il resto probabilmente non contava, niente sovrastrutture ideologiche e moraleggianti, non c’eravamo che noi, la sabbia calda e il mare che frusciava in lontananza, anche se poi forse così soli non eravamo, ricordo che subito dopo essere venuto (un orgasmo timido e quasi inavvertito) sentii un urto contro la gamba e un tizio che mi chiedeva scusa, nella relativa oscurità non doveva averci visti e aveva quindi rischiato di calpestarci, comunque ce ne stemmo ancora un po’ lì fermi, Estela che mi stringeva la testa contro uno dei suoi piccoli seni, un seno come appena abbozzato, la caricatura, la sineddoche o meglio ancora l’essenza del seno femminile, chissà se è da quel momento che data la mia attrazione per i seni efebici e il relativo disagio di fronte a quelli ipertrofici, felliniani, che non mi ispirano disgusto ma nemmeno una particolare attrazione, più che altro mi spaventano, mi chiedo quanto, nei pochi minuti che siamo stati insieme, Estela, la sua figura, il portamento, la leggerezza, e soprattutto il suo anonimato, abbia potuto influenzare le mie scelte future, sul piano sessuale e relazionale, intendo, fino a che punto io la stia ancora cercando nelle compagne di una o più notti che si avvicendano al mio fianco, cosa ci fosse in lei di così speciale se non forse il contesto, la cornice, il lucore della luna che la irraggiava, difficile a dirsi, tremendamente difficile ormai, e forse non ha neanche tutta quest’importanza, non per me né per chi mi sta accanto né tantomeno per chi legge, per non parlare di lei che aveva la mia età e oggi deve aver quindi superato i cinquanta, chissà dove sarà, ed è duro ma salutare poter ammettere quanto poco le vicissitudini personali contino, in definitiva, dove lei sia oggi e cosa faccia essendo inessenziale per la mia vita e il mio racconto. Uscito dal suo corpo morbido e riabbottonati i jeans, mi stesi sulla schiena aspettando che la respirazione si normalizzasse, mentre lei si ricopriva sommariamente con la tunica senza accennare ad alzarsi, sembrando anzi godere di quel momento di rilassatezza che ci invadeva entrambi, ed è strano, non so neanche se dopotutto stessimo continuando a sfiorarci, con le mano o la mente, o se ci fossimo già estraniati, eravamo solo uniti da un meritato riposo, un riposo senza parole, commenti o men che mai discussioni, due sconosciuti le cui traiettorie erano entrate per puro caso in collisione e che come due atomi impazziti sarebbero schizzati via in direzioni opposte appena qualche attimo dopo, ma prima di questo scioglimento finale si ricaricavano di energia in un luogo neutrale di stasi, proprio così, in quell’attimo Estela non fu altro che la mia stasi, la stella polare che m’indicava la via, o almeno è così che oggi me la raffiguro.
Lo riconosco, fino a quel momento le mie esperienze con le ragazze erano state piuttosto frammentarie e inconcludenti, il che spiega forse l’impatto delle suggestioni di quella strana notte di scoperte, le cui chimere mi avrebbero accompagnato ancora a lungo, di certo e quanto meno spiega la relativa incapacità di amministrarmi sessualmente, di darmi dosando le forze e le energie anziché spegnermi dopo una sola, rapida fiammata, crollando proprio come la sera dopo si sarebbe schiantato il palco dei poeti, con un desolante e banale “plouf”, le ragazze e peggio ancora le donne rimanendo un’incognita assoluta da risolvere senza strumenti matematici, o se si vuole una serratura inaccessibile di cui nessuno mi aveva dato la chiave, ed è in questo contesto che pur non capendo nulla di Estela, delle sue motivazioni, perfino delle sue movenze, io m’ero lasciato trascinare, affascinare e in qualche modo sedurre, e ora, a cose fatte, sapevo con assoluta certezza che l’avrei persa subito, che sarebbe stata risucchiata dalla notte, dal bagliore dei fuochi, dal rollio delle onde, che non ci saremmo più incontrati, lo sapevo e non ne soffrivo, trovandomi chissà per quale malia in uno stato di olimpica serenità che mai più avrei raggiunto, mai più con una donna, voglio dire, perché invece con le donne avvicinamenti e separazioni, scontri e riappacificazioni sarebbero stati sempre contrassegnati da un forte dispendio di emotività e parole, mentre da Estela potei separarmi quasi senza accorgermene, così profondo e scarso al tempo stesso essendo stato il coinvolgimento, capii tutto questo senza che ne parlassimo, per puro intuito, poi lei s’allontanò leggiadra come mi si era avvicinata, lasciandomi in bocca il sapore dolceamaro della missione compiuta e virtualmente esaurita, si confuse con le stelle sue sodali riprendendo decisa un percorso di cui solo lei conosceva le tappe e mi lasciò lì, disteso sulla rena, inerte, incapace ormai persino di ansimare, con i rumori della spiaggia che riprendevano a fluire gradualmente verso di me, verso la postazione periferica che avevo occupato. Mentre mi ritiravo su, mi resi conto di quanto il percorso seguito da Estela, con il suo andamento inflessibile e sicuro, mi avesse distanziato dal palco che per me rappresentava il centro dell’universo, in un modo o nell’altro mi ero allontanato di parecchio, tutt’al più scorgevo delle luci in lontananza, e anche il brusio delle chiacchierate mi arrivava quasi spento, o almeno frantumato, come se a un certo punto si infrangesse, non riuscisse a superare una linea ideale, parallela al mare e distante forse qualche decina di metri dalla battigia, mentre io non solo ero molto al di là ma anche più in alto, la duna fungendo da schermo e al tempo stesso da collinetta, se mi sporgevo dal mio punto d’osservazione potevo dominare un panorama di cui solo il giorno prima o la mattina stessa non avrei neanche sognato, una distesa di buio e bagliori improvvisi, fuochi fatui, miraggi, intanto sentivo l’umidità avanzare e impossessarsi delle mie ossa, piano piano, quasi con delicatezza, ma implacabile, sapevo che molto presto mi sarei dovuto alzare, ma non ne avevo ancora la forza o il coraggio, ero anzi intenzionato a perpetuare quanto più fosse possibile quel momento d’estenuata pace.
Naturalmente Estela non la vidi più, né in quel poco o molto che rimaneva della notte, già trascorsa o ancora da trascorrere e delibare, né il giorno successivo, né mai, mai e poi mai (anche se per ragioni di economia narrativa non dovrei svelarlo adesso), fatto sta che svanì come un’apparizione, una chimera, lasciandomi il ricordo sempre più pallido e impalpabile di un profumo che si mescolava a quello del mare e agli altri diecimila odori che il vento d’estate porta con sé, un odore fra i tanti, appunto, subito dimenticato come i suoi lineamenti, le fattezze del corpo, i movimenti che fece, le parole che (forse) mi sussurrò almeno quando, stesi l’uno sull’altra, ci prendemmo rapidamente, troppo rapidamente, a vicenda, svanì, e basta, e io infine fui risucchiato dal resto della spiaggia, dai capannelli intorno ai fuochi, dalla perpetua offerta o contrattazione di uno spinello, da tre o quattro ragazzi armati di chitarra che cantavano le canzoni di Patti Smith surrogandola, because the night belongs to lovers come avevo per l’appunto dimostrato, in breve fui risucchiato, in quella transizione tra il 29 e il 30 giugno, da tutte le emozioni che avevo provato, dall’immagine dell’uomo barbuto e nudo che danzava per conto proprio, autistico, durante le letture dei poeti, da quella del mangiatore di fuoco, dall’apparizione di due fantasmi-manichini spuntati dal nulla o dai fotogrammi in movimento, vera lanterna magica, di Ginsberg e Orlovsky che pizzicavano il banjo e muggivano nel microfono per ripristinare la calma, because the night, non dimentichiamolo, belongs to lovers, così dev’essere e così sia, così è del resto dalla notte dei tempi, nell’incessante movimento di tutti gli elementi, e allora spariscano tutti, poeti veri e presunti, retori e agitatori, critici e giornalisti, assessori alla cultura e rivoluzionari presunti o immaginari, spariscano inghiottiti dalla notte, spariscano spariscano spariscano.
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