Castelporziano/8
Il terzo pomeriggio
«Vidi che durante l’intervista Erich era rilassato come sempre, rispondeva cortesemente e in modo esauriente, ma senza strafare, senza mai polemizzare con il giornalista che cercava di provocarlo»
Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente il famoso “happening” del minestrone condiviso sul palco si è intrecciato, nel ricordo del protagonista, alla sua prima storia d’amore.
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L’albergo era fatiscente, situato quasi sulla spiaggia, a poche centinaia di metri dal mare, e oggi non è da meno, dovevano riaprirlo per volere della presidente della Regione nel settembre 2012, per farle un po’ di gratuita pubblicità, poi c’è stato l’ennesimo scandalo seguito dalle dimissioni dell’intera giunta, dimissioni molto tardive, peraltro, come sempre nel nostro paese ci si dimette solo una volta sistemati i propri interessi e quelli degli amici e solo quando il gioco è andato molto al di là dei limiti già irragionevoli entro i quali pensiamo di poter circoscrivere il latrocinio e qualcuno infine ci ha scoperti, ma per tornare al nostro hotel Enalc è proprio il caso di dire che siamo ancora in alto mare, tutto è chiuso e abbandonato, a dare il benvenuto ai pellegrini di oggi sono solo tre cani all’apparenza randagi che hanno preso tranquillamente possesso dei luoghi e abitano in piena autonomia lo spazio prospiciente la scrostata struttura verde e beige, nella terra di nessuno che sta fra il bianco, immacolato cancello e le mura dell’albergo stesso, abbaiano quando mia moglie ed io arriviamo e parcheggiamo lungo il muro esterno, nella deserta via Bernardino da Monticastro, abbaiano quando ci avviciniamo in punta di piedi per scattare qualche fotografia della desolazione, abbaiano perfino quando finalmente ingrano la marcia e ce ne torniamo sul lungomare e poi sulla litoranea per cercare un posto gradevole dove mangiare, del resto la giornata è splendida anche se ventosa, e un pranzo in riva al mare increspato ce lo siamo meritati, ma a tavola, poi, davanti al mio risotto alla pescatora – nessun volo pindarico, oggi, risotto alla pescatora, frittura mista e insalatina –, anche se conversando parlo ovviamente d’altro non posso fare a meno di ripensare a quegli interni vuoti e completamente smantellati, alle tapparelle celesti tutte abbassate, solo le tre o quattro palme del giardino sono ancora curate da qualcuno, il personale o qualche studente dell’annesso istituto alberghiero dotato di pollice verde, o forse resistono contro tutto e tutti per puro spirito di contraddizione, e quel che resta è un’enorme edificio che sembra tuttora in buono stato, avrebbero potuto usarlo per ospitare gli atleti dei mondiali di nuoto, anziché gettare milioni di euro per creare altre strutture faraoniche e soprattutto nuove fonti di guadagno per palazzinari e alti papaveri del CONI, dall’esterno almeno sembra che sia tutto pronto per la resurrezione, che si aspetti solo la bacchetta magica di un dignitario qualsiasi per far tornare tutto in vita, per vedere finalmente giovani camerieri – allievi dell’alberghiero riciclati per l’occasione – aggirarsi fra i lunghi corridoi armati di vassoi, chiudo gli occhi e mi figuro la scena, l’inaugurazione in pompa magna, i discorsi delle autorità locali, calici di prosecco e canapé caldi, ma poi basta che vengano fuori le malversazioni di una giunta di travestiti (per l’occasione travestiti da antichi romani, sguaiatamente gaudenti come i pezzenti modelli che li hanno ispirati) perché tutto si blocchi di nuovo sine die, tanto per le spiagge ferrose di Ostia e il sole che tutto stempera e stinge non fa differenza, sembra che ne faccia solo per me, turista distratto e in ritardo di oltre trent’anni sul treno di una microstoria già trascorsa.
E per me, turista distratto, fa differenza forse perché m’induce a considerare quanto sia illusoria l’idea di un progresso abbinato al trascorrere del tempo, e quanti passi indietro invece facciamo giorno dopo giorno, quasi senza rendercene conto, e quanti ne avrò fatti anch’io in tutti questi anni proprio quando m’illudevo d’avanzare e lasciavo chiuse le tapparelle del mio cuore, sempre più gretto e impoverito dall’accumularsi delle cosiddette esperienze, perché se lo scopo della mia tardiva ricognizione a Ostia era quello di tranquillizzarmi, di convincermi del fatto che tutto può essere riportato all’antico splendore e perfino superarlo, o almeno, come nel nostro caso, all’antico squallore, ebbene, non ha avuto alcun successo, semmai mi sono dovuto rassegnare a comprendere che c’è sempre un grado più basso di squallore e deperimento a disposizione, se proprio lo si vuole raggiungere, questo ho capito, e che la generazione dei cinquantenni di oggi (e ventenni di ieri) ha miseramente fallito, riuscendo a rivelarsi peggiore, più avida e ingorda, più subdola e imbecille dei suoi già contaminati predecessori, tanto da rendere inutile perfino l’esame degli errori compiuti, perché ormai non ne impareremmo più niente, tanto da lasciarci unicamente un barlume di nostalgia per quel che siamo stati un tempo o che magari avremmo potuto essere, in altre circostanze, con altri insegnamenti (e profeti), con una diversa disposizione d’animo e fermezza, tanto, infine, da muoverci non alla descrizione del presente, ma all’evocazione di un tempo ormai sepolto che non possiamo più redimere.
Quando misi piede in albergo, a un’ora imprecisata del terzo pomeriggio, imprecisata perché gli orari non sono mai rientrati nel novero dei dettagli che la mia mente ama trattenere a lungo, trovai Erich in calzoncini corti seduto su uno dei divanetti all’ingresso, con Volker, Johannes e Gerald che si aggiravano impazienti nei pressi, come aspettando il loro turno, tanto che dapprima non capii nulla e rimasi piuttosto spaesato, poi mi resi lentamente conto che tutto, movimenti degli uni e stasi dell’altro, ruotava intorno a una figura seduta di fronte a Erich, anzi, non proprio di fronte, piuttosto in diagonale, un tizio calvo e magro, quasi macilento, all’apparenza del tutto trascurabile, che però teneva saldamente in mano un microfono, con tanto di cavo infilato a scomparsa dietro uno dei cuscini del divano, da cui doveva raggiungere, mi dissi, una presa ben nascosta fra i ghirigori barocchi della carta da parati, chiunque fosse era un tipo dall’età indefinibile, piuttosto sciatto e privo d’interesse dal mio punto di vista, o almeno quella fu la prima impressione, ma stranamente i miei protetti ne sembravano piuttosto attratti, o almeno facevano in modo di non allontanarsi troppo, scoprii solo in seguito che c’era una ragione ben precisa, si trattava niente meno che di un corrispondente di Der Spiegel, il più importante settimanale tedesco, che avrebbe pubblicato nel numero successivo un’intervista a Erich più un circostanziato articolo in cui gli altri tre sarebbero stati più volte menzionati quali rappresentanti della poesia tedesca imbarcati in quella strana avventura, e mentre contemplavo la scena dall’esterno mi avvidi che naturalmente neanche Gustavo aveva voluto mancarla, quell’occasione, era lì che si aggirava per la hall aspettando di poter planare come un avvoltoio, frenetico, si sarebbe detto anzi febbricitante, pronto a sfruttare il momento giusto per avvicinarsi ai due e interloquire, la scena era insomma quasi surreale, due persone impegnate all’apparenza a conversare amabilmente e altre quattro, appostate in punti diversi della sala, in trepida attesa, più un osservatore esterno, il sottoscritto, di cui nessuno aveva sentito la mancanza e men che mai notato l’arrivo e che poteva godersi tutta la scena senza tema d’esser disturbato. L’attenzione di Der Spiegel per il festival, come capii sempre in seguito, non era del tutto disinteressata né casuale, ma rispondeva a una linea politica ben definita, in altre parole il giornalista avrebbe abbondato in superlativi per descrivere il pressappochismo tipico degli italiani, mentre i commenti tutto sommato positivi dei poeti sarebbero stati utilizzati con beneficio d’inventario, come a dire che solo dei poeti, esseri singolari e impenetrabili come pochi altri e per definizione, avrebbero potuto tollerare un tale coacervo di debolezze tecniche, amministrative e in definitiva umane, e che ben altre erano state invece la sensazioni provate da un osservatore neutrale e per definizione veritiero qual è il vostro corrispondente o agente all’Avana, cari e fedeli lettori, e quindi a nulla sarebbe valso che Volker, per esempio, difendesse gli organizzatori, sostenendo che nessuno avrebbe mai potuto prevedere una simile affluenza e sottolineando come anzi il pubblico si fosse comportato in maniera insolitamente matura, avendo isolato i provocatori e consentito uno svolgimento tutto sommato tranquillo del festival, dove lo scandalo poteva essere stato suscitato tutt’al più da qualche nudità, come l’uomo barbuto che aveva danzato in costume adamitico durante la lettura dei poeti italiani, a nulla sarebbe valso perché il giornalista avrebbe poi riportato la dichiarazione di Volker correttamente fra virgolette, sì, ma inserendola in un contesto in cui l’avrebbero fatta comunque da padroni i commenti critici sulla sporcizia della spiaggia e sulle nubi di droghe leggere che s’innalzavano in cielo a onore e gloria, con la conseguente riduzione dell’intera esperienza a un effimero happening, laddove era palese l’intento dell’articolista di suggerire, in modo nemmeno troppo velato, quell’equivalenza fra poesia e droga che sempre Volker, in un altro articolo-testimonianza, avrebbe in seguito bollato come un palese tentativo di risvegliare nell’opinione pubblica tedesca il ricordo, e la condanna, dell’arte degenerata di hitleriana memoria, e per di più con le stesse tecniche diffamatorie. A nulla sarebbe valso nemmeno che nel corso dell’intervista, come riportata poi dal settimanale, Erich minimizzasse i contrattempi, definendoli “piccoli e allegri” e contrapponendo il festival, malgrado tutto vitale, alla noia che gli ispiravano ormai da anni le occasioni solenni e cerimoniose in cui viene altrimenti celebrata la poesia, neanche questa dichiarazione sarebbe stata censurata, tutt’altro, ma il giornalista le avrebbe subito contrapposto un’incauta osservazione di Gerald, secondo il quale il festival organizzato circa un mese prima a Genova da Sanguineti si era svolto in modo molto più ordinato e con maggiore soddisfazione per tutti, organizzatori, pubblico e partecipanti, per non parlare della stampa, e allora naturalmente il giornalista non avrebbe potuto esimersi dal domandare retoricamente ai propri lettori come mai quello che si era rivelato possibile fare a Genova non lo fosse anche pochi chilometri più a sud, beh, ma il sud, si sa, è quello che è, da Firenze in giù si è geneticamente incapaci di organizzare qualsiasi cosa, e certo non stava a lui precisare che i due festival erano diversi, se non proprio contrapposti, sotto il profilo ontologico, per finalità e contesti, e che dunque confrontarli era come paragonare una mela con una pera, un limone con un ananas, a questa conclusione il lettore poco avveduto non sarebbe mai arrivato, ed era appunto questo lo scopo dell’intera operazione, in un colpo solo ma ben assestato sfottere quei pasticcioni d’italiani, difendere le patrie lettere, quelle serie, s’intende, senza risparmiare qualche ironia agli stessi partecipanti tedeschi, e ribadire la superiorità della cultura accademica rispetto a quella abborracciata e approssimativa che era andata in scena su una pubblica spiaggia, ma ci rendiamo conto, su una spiaggia, senza poltroncine numerate e file riservate alle autorità, senza maschere con la torcia che ti accompagnano al tuo posto, senza nemmeno uno straccio di settore dedicato a giornalisti e reporter.
Vidi che durante l’intervista Erich era rilassato come sempre, rispondeva cortesemente e in modo esauriente, ma senza strafare, senza mai polemizzare con il giornalista che cercava di provocarlo per fargli dire qualcosa di più palesemente negativo, i due dovevano conoscersi bene, o almeno essersi già incontrati in passato, l’impressione che ne ricavai è che sapevano come affrontarsi, era una sfida in punta di fioretto, Erich preciso ma controllato nelle risposte, l’altro che cercava di metterlo alle strette, come se l’andamento del festival non fosse qualcosa di aneddotico ma rispondesse a una pretesa ideologia o utopia sociale di cui Erich sembrava essere il massimo rappresentante, mentre tutt’intorno Gerald, Volker e soprattutto Johannes seguivano interessati quel botta e risposta e al tempo stesso sembravano alle prime armi, emozionati dalla prospettiva di essere anch’essi interpellati dal giornalista, non era che un’impressione, lo ripeto, probabilmente fallace, visto che doveva essere già capitato più volte a tutti loro d’incontrare degli esponenti della carta stampata, a Gerald nei suoi circoli un po’ elitari o per aver diretto a Berlino il Literarisches Colloquium, a Volker per via della sua frenetica attività politica, l’unico a cui il dubbio onore aveva arriso più di rado essendo magari Johannes, il più estroverso e misconosciuto dei tre, o meglio conosciuto in altre cerchie, più avanguardistiche e legate agli spettacoli off e alle cantine, non so, in ogni caso il giornalista ogni tanto controllava le loro rispettive posizioni nella hall, come se non avesse tempo da perdere e volesse interrogarli uno dopo l’altro appena fosse finita l’estenuante corvée con Erich, mentre il nastro correva e accumulava materiale con cui gli sarebbe stato agevole dimostrare il fiasco senz’appello, anzi il vero e proprio naufragio della poesia nelle placide acque del Tirreno, e io intanto, dalla mia posizione privilegiata di guardone, osservando il volto rapito di Gustavo cercavo di immaginare cosa stesse pensando, quale espediente potesse mai architettare stavolta per fare in modo di essere citato nell’articolo come uno dei più insigni germanisti italiani, uno dei pochi che avesse tentato con tutte le forze di sottrarre i suoi quattro protetti a quell’indegna buffonata di festival, ma era chiaro che per il giornalista lui era e sarebbe rimasto un perfetto sconosciuto, un volto anonimo e difficilmente identificabile, ed era altrettanto evidente che lo stesso non si sarebbe addentrato nei dettagli organizzativi al punto da distinguere i buoni dai cattivi, i pasticcioni del Beat ’72 e dell’assessorato alla cultura dai bravi docenti universitari che cercavano malgrado tutto di trasmettere un briciolo di cultura ai loro studenti e dottorandi, tenendo alta la fiaccola della germanistica in Italia, eppure un modo per essere menzionato il povero Gustavo doveva assolutamente trovarlo, vedevo lo sforzo nelle rughe che gli tendevano e coprivano la fronte, nello sguardo accigliato e rapace.
Non so come sia finita, o per essere più precisi ignoro cosa Gustavo si sia potuto inventare, ma so con certezza che in ogni caso lo stratagemma non fu efficace, tanto che il suo nome nel famoso articolo non comparve e quindi la manovra d’avvicinamento al giornalista rimase del tutto effimera e priva di successo, questo sì, mi sento di dirlo, in ogni caso l’articolo di Der Spiegel non fu nemmeno il peggiore in assoluto, fra i resoconti della stampa ci furono ricostruzioni ben più fantasiose e catastrofiche, alcuni riferirono di un caotico caravanserraglio al limitare del deserto, altri di una distesa di centinaia di tende canadesi, a perdita d’occhio, e di fuochi più o meno fatui, altri ancora, più sobriamente, e non del tutto a torto, stavolta, dell’eresia di dare in pasto a un pubblico così composito un menu per palati sopraffini, la lettura e la recitazione di poesie essendo un esercizio che richiede silenzio e concentrazione, nei giorni e mesi successivi leggemmo insomma di tutto, fino a non poterne più, davvero ad nauseam, comprese difese d’ufficio, bonarie prese in giro e critiche assolutamente fondate che avrebbero forse meritato un bersaglio più alto e interessante, si aveva sempre l’impressione che sulle pubbliche gazzette si fosse voluto sparare con l’artiglieria pesante quando bastava una fionda, in ogni modo il redattore di Der Spiegel alla fine dovette basarsi sulle sue scarse impressioni personali, non riuscendo a ottenere dai suoi intervistati una critica sufficientemente feroce dell’episodio che stavano vivendo, e quest’insoddisfazione di fondo finì per trasmettersi ai suoi interlocutori, tanto che Johannes, per esempio, sembrò quasi lieto di vedermi quando finalmente si accorse del mio arrivo, come se quest’ultimo potesse liberarlo dall’obbligo di rispondere alle domande, e ancor più entusiasta quando il giornalista raccolse il magnetofono, il microfono e i vari cavetti, staccò la spina e si accinse ad andarsene. Da noi vogliono solo una conferma di quello che i loro lettori devono pensare, mi disse, tutto qui, non gli interessa affatto il nostro punto di vista, basta insistere sui preconcetti, sull’immagine che si sono già fatti, ecco che adesso, lontano dai microfoni e dal necessario esercizio di diplomazia, Johannes sembrava proprio arrabbiato con il mondo, mi dissi che un pizzico di sana indignazione poteva rappresentare un bel prologo alla lettura che avrebbe dovuto tenere quella sera, che insomma per affrontare un pubblico variopinto e indisciplinato una solenne incazzatura, sia pure con tutte le maschere e i travestimenti forniti dall’ironia, non poteva che rivelarsi proficua.
Mentre stavamo parlando ci si avvicinò Volker, e con aria mogia disse anche lui più o meno la stessa cosa, e cioè che i giornalisti non capivano niente, soprattutto non si rendevano conto del fatto che tutto intorno a loro stava cambiando, che la gente non accettava più i discorsi ex cathedra, non sopportava più che certi intellettuali potessero atteggiarsi a maestri e pretendere un’ossequiosa obbedienza, erano finiti quei tempi, belli o brutti che fossero stati, il pubblico adesso pretendeva rispetto, e d’altro canto esigeva anche di poter rispettare i propri cantori, ma allora questi dovevano dimostrarsi degni della fiducia che veniva loro accordata, né guitti né palloni gonfiati o lirici introversi impegnati a contemplarsi l’ombelico, la gente voleva identificarsi finalmente in una vita vissuta, non in esistenze immaginarie o, peggio, posticce, ecco qual era il punto secondo lui, quello che nessuna rivista avrebbe mai sviscerato e rivelato. Da Erich e Gerald, invece, non ebbi altri commenti, dopo l’intervista sparirono come spettri nei meandri dell’albergo, forse alla ricerca di un’improbabile frescura, forse presi in ostaggio da altri interlocutori in cerca di spiegazioni e postille, quindi passai quanto restava del pomeriggio con Volker e Johannes, a limare la versione italiana delle loro poesie, tanto più che tutto faceva ormai pensare che a una lettura dei loro testi almeno quell’ultima sera si sarebbe arrivati, non c’era nulla di certo in quella confusione generalizzata, ma se a Erich la sera prima era andata bene niente impediva che la medesima legge si applicasse anche agli altri, vista la relativa tolleranza del pubblico nei confronti degli autori stranieri, questo almeno speravano loro e speravo anch’io, ormai non mi faceva più paura impugnare il microfono e affrontare la folla con la mia voce ancora flebile, da adolescente, in ogni caso sarebbero stati loro due a rompere il ghiaccio, io mi sarei limitato a leggere dopo, per chiarirne il verbo, la difficoltà del tedesco lo rendeva del resto doveroso, imprescindibile, a cosa poteva mai servire leggere dei testi in quell’ostica lingua senza uno straccio di traduzione, e così almeno la mia, di partecipazione all’evento, non poteva essere letta come un atto d’arroganza, nel senso appunto di arrogarsi un diritto, il diritto di parola, d’imporsi agli altri, a quelli che rimangono sempre senza voce (o senza microfono, che in certi casi è lo stesso), io ero tutt’al più un semplice strumento di comunicazione e comprensione in quella sterminata Babele, svolgevo insomma una funzione, e al contrario di Gustavo, tanto per fare un esempio a caso, non miravo ad autoesaltarmi, incensare me stesso e vivere un surrogato di vita al posto dei veri protagonisti. A tutto questo pensavo, mentre con il beneplacito di Johannes sostituivo un avverbio con un altro e con quello di Volker sopprimevo qualche articolo per renderne le frasi ancora più lapidarie, certo non mi occupavo in quel momento dei massimi sistemi, non pensavo, che so io, e tanto per fare un esempio, alla carriera del tutto diversa che avrei fatto in seguito, approdando undici anni dopo a quella strana assemblea per la quale si erano appena svolte le prime elezioni a suffragio universale diretto, una tappa dell’integrazione politica europea su cui in quel momento nessuno, tranne gli osservatori più attenti, si era soffermato, così lontano essendo quel mondo dalle preoccupazioni quotidiane, un impatto molto maggiore nel corso di quell’anno l’aveva avuto semmai l’elezione della prima donna alla carica di presidente della Camera, per esempio, o la condanna di Freda e Ventura per la strage di Piazza Fontana, con la parallela e definitiva sconfessione della pista anarchica, o ancora gli omicidi, in gennaio, di un sindacalista a opera delle Brigate Rosse e di un giudice per mano dei fascisti di Prima Linea, non c’è niente da fare, era questo il clima, un clima di agguati, tensioni e brutali assassinii, un clima nel quale non solo era ignorata l’evoluzione del progetto europeo, ma la letteratura, e in particolare la poesia, non sembrava poter trovare un suo posto, eppure proprio in quelle tre serate il discorso poetico stava rivelando malgrado tutto una certa vitalità, non era in fondo così incongrua, la letteratura, pur in un universo che sembrava volerla sopprimere o relegare in un cantuccio, è la perenne sorpresa della creazione, il fatto che riesca a imporsi, obliquamente, surrettiziamente, anche quando il potere, quello forte, materiale e apparentemente inarrestabile, vorrebbe stroncarla sul nascere e sembra addirittura riuscirci, ma io, lo ripeto, di sicuro non meditavo affatto su tutto questo, pensavo solo alla serata e fors’anche alla nottata di folla ed ebbrezza che mi aspettava al varco.
Che il clima generale di quegli anni fosse pesante e triste lo dimostrava d’altronde la mia città, unita alla spiaggia dal cordone ombelicale della metropolitana, la capitale da cui mi ero staccato solo poche ore prima, una città piccolo-borghese e impiegatizia, un grosso, interminabile borgo, ripetitivo come pochi nella riproposizione, in fin dei conti, di un unico modello, quello del piccolo arrivista che avanza pian piano nella scala sociale, ma sognando sempre di sfondare all’improvviso, per un abbaglio della sorte, e magari in un campo o settore lontano anni luce da quello che coltiva o finge di coltivare, grazie a un puro colpo di fortuna, mentre al tempo stesso chiede istintivamente alla sua città di contrapporre alla pochezza di cui non sa nemmeno di ammantarsi lo splendore di un’antichità classica ormai artificiale, di maniera, un po’ kitsch, che il romano è peraltro il primo a ignorare, salvo poi gloriarsene alla bisogna, per spirito e gusto della contraddizione, perché Roma è tutto e il contrario di tutto, lo splendore e il fetore, la magnificenza e l’indolenza, e tutto vi è atavico, si perde nella notte dei tempi, trascende di gran lunga le nostre misere esistenze, e dunque nulla può esser cambiato né preso sul serio, perché se una cosa non la si può combattere davvero, al massimo la si potrà deridere, sicché Roma è derisa e irridente al tempo stesso, causa ed effetto del suo male. E rispetto a Roma cos’è Ostia con le sue spiagge e i suoi ristoranti sul mare se non una propaggine, come mutatis mutandis sono propaggini anche Villa Borghese o Villa Pamphilj, in verde anziché in beige od ocra, d’accordo, ma sempre semplici o grandiose appendici dove il romano va a cercare la diversità, la ricreazione, e altro non trova se non un microcosmo che gli ripropone incessantemente, spietatamente, i medesimi meccanismi della città, ri-creazione, appunto, ed ecco dunque Ostia dove dominano gli stessi afrori e fetori, quel misto di siccità e orina di cane che poi improvvisamente e come per miracolo svapora, quando si è davvero fortunati, in aromi quasi tropicali, un misto di frutti esotici e caffè, perfino Ostia con le sue spiagge libere e le sue dune e i suoi cancelli d’accesso d’altri tempi riempie il romano di un inconfessabile e sovente incomprensibile orgoglio, perché è pur vero che nessun’altra metropoli europea è in grado di darti, a poche fermate di treno leggero, tanta lussuriosa magnificenza, con Ostia antica che fa quasi da prologo culturale alla sfrenata liberazione dei sensi, alla rena su cui imprimerai (anche) la tua impronta, a rafforzare quella già lasciata da milioni di corpi nel corso di millenni. Lungi dal sentirti inutile e intercambiabile ti parrà anzi questa la massima realizzazione della tua vita, esser divenuto parte del flusso continuo che la città alimenta e che alimenta la città, il flusso che investe religione, archeologia e soprattutto storia, ahi la storia, quella stessa storia di cui, per semplice sostituzione di consonante, tu non sei che una scoria, ma non la peggiore, almeno, perché hai sempre la sensazione che tramontati gli antichi romani, la pace sia con loro, sia sempre in un qualche Altrove che la storia si fa, un Altrove lontano dalla capitale, e quasi te ne glori, ringrazi Iddio, la massima soddisfazione essendo proprio quella di esserne fuori, ai margini, è bene insomma che il bunker del dittatore si trovi a Berlino e non a Roma, che la bomba esploda nel ghetto di Parigi, non al Portico d’Ottavia, che le torri crollino a New York e non nel centro di Roma, dove peraltro non ce ne sono, finisci per sentire insomma come una benedizione il fatto di non essere più al centro, ma di ritrovarti finalmente in periferia, risparmiato quindi dalle peggiori brutture che la storia asseconda.
Perché il romano non è solo fatalista, ma sa goderne, sa trasformare cioè il fatalismo in una dote adatta alla sopravvivenza, e non a caso sono i russi, imbottiti di vodka e perennemente traballanti, e forse per questo anche così capaci di un’onesta tolleranza, quelli che riescono a capirci meglio, non è stato forse Evtušenko a scrivere che per Roma è fittizio il valore di ogni cosa?, intendendo con questo che tutti i circhi equestri e i banalissimi caravanserragli che si sono avvicendati nel corso implacabile dei secoli tra Campidoglio e dintorni ci hanno indotto ad abbassare sempre più il prezzo sui cartellini che accompagnano le nostre merci, ad applicare anzi a ogni singola mercanzia il sistema dei saldi, per cui a seconda della stagione e dei sussulti della storia/scoria tutto può perdere di colpo il proprio valore, non c’è più nulla di assoluto, non certo le vestigia dell’antica Roma, e men che mai i templi della cristianità sfregiata dalla Chiesa cattolica, questo in fondo dice Evtušenko in una poesia che all’epoca non avevo letto ma che lui aveva già scritto, molto prima di venire a farsi fischiare, applaudire tiepidamente e infine amare anche dalle masse in costume da bagno arenate sul lido di Castelporziano come un’immensa balena, questa Roma che non può uscire dalla scena della storia persino quando lo vorrebbe lui ha dimostrato di averla capita fino in fondo, in un modo solenne e sottile, da poeta elevato, scurrile, furbo e pieno di laceranti contraddizioni, che si identifica con la città e ne condivide i meccanismi, e io non posso fare altro che riconoscere stupito quanto certi estranei, pur senza giudicarci, possano individuare le nostre debolezze a volte meglio di noi stessi, che giochiamo a sentirci importanti solo perché un portaborse qualsiasi ci fa finalmente portare la sua borsa, o grazie a una comparsata rimediata a Cinecittà, o perché stiamo seduti a un tavolino d’angolo di un bar invaso dal sole, e questo ci basta, non solo, ma abbiamo la netta sensazione che sempre ci basterà, per omnia saecula saeculorum.
Ora, che a poco più di diciott’anni io facessi considerazioni di questo genere non è credibile, e infatti non pretendo che l’avveduto lettore ci creda, anzi fossi in lui e potessi minimamente consigliarlo, gli suggerirei di dubitare di ogni parola che legge, del resto mi si darà atto che non pretendo di scattare del me stesso di allora un’immagine lusinghiera, tutt’altro, spero di essermi ritratto con tutti i limiti che mi riconosco, il punto è un altro, è la difficoltà di separare nettamente il presente dal passato in questo magma continuo che un po’ approssimativamente chiamiamo vita, dove i pensieri confluiscono in un insieme indifferenziato o più spesso rifluiscono, si perdono e tornano spurii, e ricostruire le riflessioni di trent’anni prima diventa quindi un’impresa poco meno che disperata e anche leggermente futile, in ogni caso per me Roma non ha mai cambiato pelle né immagine, è l’amore e il disamore profondo della mia vita, è il desiderio e la disillusione, il trionfo e la disfatta, l’eleganza e il declino inarrestabile, l’attrazione e la ripulsa violenta, ma soprattutto, lo confesso, è la bellezza, il ricatto della bellezza, quella remota, inarrivabile, perfida, che anche e soprattutto ignorandoci, come peraltro meritiamo, riesce a umiliarci. Non credo proprio, a posteriori, che con uno dei miei quattro nuovi amici io sia riuscito a parlare di questo, del mio rapporto con Roma, la cosa non li avrebbe neanche interessati più di tanto, com’è giusto, c’erano ben altri argomenti da affrontare, di tutti loro forse il solo Johannes avrebbe potuto almeno in parte capirmi, perché pur senza far parte della schiera dei suoi abitanti aveva intuito qualcosa di simile riguardo a un’altra divinità sfatta, Venezia, e in particolare al rapporto che intrattiene con i suoi temporanei e transeunti cittadini o sudditi, gente disgraziata quanto e forse persino più di noi romani, gente che prima ancora di nascere già sa di doversi arrendere a un eccesso di magnificenza e di dismessa, putrida bellezza che va ben al di là di quanto si possa immaginare e, immaginando, padroneggiare, il problema della bellezza pura essendo appunto che non la si può controllare, non se ne possono arginare gli effetti che su di noi di volta in volta deciderà di esercitare, ma a sua discrezione, solo se e quando lo vorrà, e noi intanto ne siamo succubi, soggiogati, nella trasognata attesa di saperne di più sulla nostra sorte, questo ci fa la bellezza, e nessuno ha ancora inventato un’arma di difesa, o almeno una pasticca che possa mitigarne gli effetti, i miei amici tedeschi avrebbero avuto davvero qualche difficoltà a capire, con le loro rovine di città bombardate e ricostruite dopo la guerra, identità ridotte in frantumi e poi subito ricreate dal nulla senza un briciolo di stile e di coerenza, niente con cui mantenere in essere relazioni intime e viscerali, la stessa ipotesi di una relazione viscerale con una città essendo praticamente impensabile per un popolo in continuo movimento, in perpetuo trasloco, neanche Berlino si presta davvero, la Berlino rasa al suolo dai sovietici per arrivare al bunker del Führer e stanarlo, o la Berlino cosmopolita, universitaria, avanguardistica, al massimo ci si può stabilire un rapporto maturo, consapevole, un do ut des, non certo qualcosa di trascendente e metafisico. Finii quindi per non parlarne nemmeno con Johannes, neanche quando discutemmo della mia versione di Trattoria da Dante, dell’evocazione di Cannaregio e dei canali, io mi limitai a renderla quanto più possibile fluida, la sua poesia, come e più dell’acqua torbida che confluisce nel Canal Grande, e al tempo stesso tentai di restituire in italiano tutto il suo stupore di straniero, di perfetto alieno, tenendo per me quanto capivo senza difficoltà, fu l’unico caso, del resto, in cui dovetti davvero nascondermi, reprimere il traduttore e lasciar parlare l’autore, come se il traduttore, con la sua sensibilità, non esistesse nemmeno, e fu una bella prova di umiltà, di quelle che servono per la professione e per la vita, decidere scientemente di annullarsi per far meglio risaltare una stupefazione che non si condivide, anche in questo può manifestarsi il destino ingrato del traduttore, il pudore di chi tradisce non il testo, ma semmai (e più ancora) se stesso.
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