La seconda parte di “Pat e il pirata"
L’elicottero di Pat
«Quello di Pat era l’unico elicottero a volare in Papua New Guinea, una novità assoluta. Le compagnie minerarie australiane che iniziarono a operare nel Paese videro in quel mezzo una soluzione impensata, quasi miracolosa, a molti dei loro problemi...»
Riassunto della prima puntata: Nell’isola della Nuova Guinea, dove la scoperta e lo sfruttamento di importanti giacimenti di gas sta rapidamente trasformando il Paese, sottoponendolo ad un accelerato e dirompente sviluppo economico, un avventuriero australiano, Malcom Kelly, cerca di combinare un lucroso affare, convincendo una Compagnia italiana a costruire nel cuore della jungla una grande diga. Questo lo porta ad andare in conflitto con le popolazioni indigene della zona più selvaggia dalla Papua, e con un loro carismatico capotribù, l’aborigeno Iroka. Per condurre in porto la sua impresa, Malcom cerca l’aiuto di un vecchio colono irlandese, Patrick O’Connell, uomo ricco e potente, padrone di una specie di resort-bordello, l’hotel Grand Papua di Goroka, una sorta di crogiuolo in cui vecchi e nuovi coloni si mischiano alla fascia più intraprendente e avida della popolazione indigena, in cerca di divertimento, di piaceri a buon mercato, di affari più o meno loschi e di arricchimento rapido e privo di scrupoli. Malcom organizza una spedizione nell’interno, nell’area dove vorrebbe costruire la diga, lungo il fiume Purari, nella selvaggia regione di Mount Hagen, e lì si scontra con Iroka…
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Patrick O’Connell arrivò in Papua nel ‘59, quand’era pilota della Raf. Durante la Seconda Guerra Mondiale nei mari attorno alla Nuova Guinea si combatterono importanti battaglie tra gli Anglo-Americani e i Giapponesi, e nel dopoguerra l’isola mantenne questo ruolo di base militare strategica nel Pacifico meridionale.
Alla fine degli anni Cinquanta Pat era sottotenente d’aviazione in servizio di prima nomina, e fu mandato laggiù. Da allora non ha più lasciato l’isola. E non ha mai smesso di volare. “Il volo è stato il mio unico grande amore,” dice ridendo, e ad esso è rimasto fedele per tutta la vita.
Non nella Raf, però. Servì sotto le armi solo per due anni, e quando si congedò – approfittando di un corridoio di uscita offerto a molti ufficiali di Sua Maestà, nel ridimensionamento che l’esercito britannico subì circa un decennio dopo la fine della guerra, allorché gli Inglesi capirono che il loro ruolo di potenza planetaria era finito, che non potevano tenere il passo delle due potenze del momento, e in pochi anni smantellarono il loro impero coloniale e ridussero di conseguenza l’apparato militare che lo sosteneva – quando questo avvenne, Pat si prese la buonuscita della Raf, ma non tornò in Europa, decise di restare in PNG.
Un po’ di tempo dopo si seppe che la buonuscita della Raf, più tutti i suoi risparmi, più tutto quello che riuscì a farsi prestare dalle rudimentali banche che operavano nelle colonie, erano serviti all’acquisto di un velivolo allora ancora poco diffuso: un elicottero; che Pat si comprò – dice lui – per la buona ragione che aveva bisogno di un mezzo per continuare a volare.
Una scelta sconclusionata, parve a tutti. Per uno che aveva deciso di restare a fare il colono in PNG, c’erano campi molto più vantaggiosi in cui investire il proprio denaro allo scopo di arricchirsi alla svelta. Legname. Corallo e perle. Pesca. Oro. A che poteva servire, in un posto primitivo come la PNG, un elicottero?
A poco, in effetti. Pat svolgeva sporadici servizi di trasporto per le piccole ditte che lavoravano laggiù. Rifornimenti urgenti per avamposti isolati, qualche soccorso d’emergenza. Robetta. Era l’unico impiegato della piccola azienda cui intestò la proprietà del velivolo. Faceva da pilota, da meccanico, da contabile, da commerciale. Campicchiò così per qualche anno, da povero imprenditorello vagabondo, tirandosi addosso la fama del matto innamorato del volo. Ma era giovane, amava i posti selvaggi e l’avventura e aveva energie da spendere, poteva resistere per un po’ di tempo; e forse aveva anche in mente un piano.
Lo aveva, sì. Guardando indietro, Pat sembra un raro esemplare di quella fortunata e ristretta cerchia d’uomini che seguendo una loro passione – che li porta a fare scelte apparentemente illogiche, che nessun altro condivide e nemmeno capisce – finiscono invece con l’essere lungimiranti e fondano la loro fortuna.
All’inizio degli anni ’60 l’utilizzo di elicotteri a scopo commerciale era ancora piuttosto limitato. A quell’epoca la Papua New Guinea era protettorato australiano. Le compagnie minerarie del Queensland scoprirono che il sottosuolo dell’isola era ricco di metalli preziosi, oro e rame soprattutto, i cui maggiori giacimenti furono individuati proprio in quegli anni. Per aprire e sfruttare le miniere, situate a centinaia di chilometri di distanza dalla costa, lontane l’una dall’altra, in luoghi remoti e pressoché inaccessibili, dispersi in un territorio selvaggio e montagnoso quasi del tutto privo di strade, i collegamenti, il trasporto erano uno dei problemi principali da risolvere.
Quello di Pat era l’unico elicottero a volare in PNG, una novità assoluta. Le compagnie minerarie australiane che iniziarono a operare nel Paese videro in quel mezzo una soluzione impensata, quasi miracolosa, a molti dei loro problemi; e il risultato fu che se ne disputarono i servizi a prezzi via via crescenti. Prezzi talmente alti che Pat poté comprarsi presto un secondo elicottero, poi un terzo…
Oggi la compagnia di Pat possiede una trentina di velivoli, ha un suo eliporto con officina e centro servizi poco fuori Goroka e vola in tutta la PNG. Ma non solo. Ha aperto filiali a Brisbane, Melbourne e Sydney e i suoi elicotteri – in contesti umani, geografici e di business completamente diversi – volano nei cieli di quelle città.
Pat è milionario. Ha ottantadue anni, ma non gliene daresti più di settanta. Potrebbe vivere in cima a un grattacielo o in una villa da sogno affacciata sulle baie di Sydney o di Melbourne, e giustificare questo con lo sviluppo dei suoi affari in quelle città, se avesse ancora bisogno di giustificare qualcosa a qualcuno. Oppure potrebbe vivere a Londra, o nella sua nativa Irlanda, o in qualunque altro angolo del pianeta dove gli andasse di trascorrere l’ultimo scorcio della sua esistenza, e consumare almeno una parte della montagna di soldi che non farà mai in tempo a spendere.
Ma se ne sta qui a Goroka, cittadina di ventimila abitanti nella Papua centrale, non lontana dal mare. Posto selvaggio, isolato e spartano, evidentemente adatto alla sua natura. Dove lui possiede l’Hotel Grand Papua – in realtà, possiede diversi altri hotel e resort a Port Moresby e lungo le coste della PNG, nei posti migliori per la pesca avventurosa e la navigazione oceanica di cabotaggio; ma, tra tanti resort anonimi, è il Grand Papua quello che ha il suo stesso carattere, simbiotico col territorio, il luogo che Pat ha in qualche modo plasmato su se stesso – e l’eliporto, coi suoi hangar e le sue officine, e una ventina di velivoli che da trent’anni ormai volano in tutta la PNG. Se ne sta qui, in parte perché è da qui che è partita la sua fortuna, forse anche perché sarebbe incapace di vivere altrove.
Anche se è milionario, Pat conduce una vita selvatica e primitiva, da quel colono che è sempre stato. Vive in un’abitazione modesta e spoglia, nel villaggio che ha costruito a poco a poco, negli anni, su una collina appena fuori Goroka. È lì che alloggiano tutti i suoi dipendenti, bianchi e aborigeni, l’intera comunità che lavora per lui. Il compound occupa un’altura di palmizi cinta da un muro sormontato di filo spinato, sulle cui pendici sono disseminati bungalows a due piani, tutti uguali, con le finestre a riquadri bianchi, il balcone, gli spioventi dei tetti molto inclinati, le ampie verande soffocate dalla fitta vegetazione.
Nel compound, oltre a Pat, vivono quelli dell’eliporto – piloti, meccanici, tecnici di volo – e quelli del Grand Papua e dei resort vicini – cuochi, cameriere, addetti alle pulizie – e anche quelli dell’amministrazione che mandano avanti la sua florida azienda. Suppergiù trecento famiglie, cui Pat fornisce alloggi funzionali, ben superiori allo standard abitativo dell’isola, e servizi centrali di mensa, lavanderia, casermaggio. Il compound è dotato di spazi sociali che bianchi e aborigeni frequentano insieme. Ha una scuola, la migliore di Goroka, dove i figli dei suoi dipendenti possono studiare, e una clinica che offre assistenza sanitaria alle famiglie del compound e a poche altre, a discrezione di Pat. Tutto finanziato e organizzato da lui.
Una specie di patriarca, un capotribù coloniale bianco. Regnante su una vasta e multietnica famiglia che lo riconosce come capo. A lui legata da vincoli che vanno molto al di là dei semplici rapporti di lavoro. Pat conosce i suoi a menadito, uno per uno, è al corrente delle loro vicende personali, esercita su tutti una sorta d’autorità arcaica e magnetica. Li guida, li controlla. Se occorre li minaccia.
Da molti anni, Pat O’Connell è una delle personalità più eminenti dell’isola. È stato governatore della provincia, tra gli anni Ottanta e i Novanta, nei primissimi anni d’indipendenza della Papua New Guinea, subito dopo la fine del protettorato australiano. Accettò di rivestire la carica pubblica più importante di Goroka, e pare anche che l’abbia esercitata senza approfittarsene troppo, provando davvero a sviluppare quei fragilissimi embrioni di amministrazione della giustizia, della sicurezza, della sanità, dell’istruzione, che i piani di sviluppo post-coloniali prevedevano.
Questo ha rafforzato la reputazione di cui gode in tutta l’isola. È considerato un uomo illustre, un benefattore, ed è tuttora molto ascoltato ai piani alti del governo. Al rango dell’uomo d’affari di successo e poi del politico efficace, s’è aggiunto con gli anni il rispetto verso le persone anziane, valore che le società arcaiche coltivano con più attenzione di quelle progredite: l’onore dell’età. Quando si reca a Port Moresby pilotando personalmente il suo elicottero, il Primo Ministro in persona non può esimersi dal riceverlo, e deve ascoltare con rispetto i suoi consigli.
Il bungalow in cui vive, nel compound, è identico a quello di tutti gli altri, solo collocato un po’ più in alto, in posizione dominante e isolata, sulla cima della collina. Una stradina sale fin lassù perforanto la macchia, stretta tra due muraglie d’alberi di un verde cupo, quasi nero.
Dentro, al pianterreno c’è una sorta di ufficio domestico, un disordinato ammasso di carte e scaffali, ingombro di documenti vecchissimi che le librerie a parete non bastano a contenere. La storia amministrativa e documentale della fortuna di Pat, che trabocca in dozzine di scatoloni disseminati sul pavimento. In fondo a questa caotica stanza da lavoro, c’è una scala che porta al primo piano. I gradini sono rivestiti di logora stuoia e sboccano in un unico ambiente sopraelevato, una grande camera luminosissima, con un’enorme finestra scorrevole affacciata sulla macchia. Non si vede altro, dalla finestra; né si può essere visti. Nessun’altra casa nelle vicinanze, solo foresta e cielo. Poco lontano dalla finestra c’è il suo letto.
Il letto di Pat è una specie di giaciglio basso, duro, dove lui stesso dice che, quando ne ha voglia, ancora s’apparta con qualcuna delle sue giovani dipendenti, ragazzine che vengono a trovarlo la sera e si trattengono al massimo un paio d’ore; e si disputerebbero fieramente e apertamente questo privilegio, se Pat non umiliasse in pubblico quelle di loro che osano vantarsi con le altre, o nella comunità, d’essere state a letto con lui. Frugalità, riservatezza, questo Pat vuole in tutte le cose, questo pretende anche dalle sue giovanissime concubine.
Quest’ascetico milionario ottantenne dice candidamente che in vita sua ha incontrato parecchie donne, ma volevano tutte il suo denaro, quindi non ne ha sposata nessuna. E questa constatazione, così disarmantemente ingenua, gli ha certo impedito per tutta la vita di ottenere l’amore femminile.
Si contenta delle ragazzine aborigene che entrano ed escono dal suo giaciglio quasi come una nidiata di pulcini dalla cova di una vecchia chioccia. Che ha assorbito con gli anni – per mancanza di contatto con essa – qualche tratto della femminilità che Pat non ha mai veramente frequentato. Forse per questo, a compensazione, ha preso lui stesso una sfumatura femminea. Se ne ravvedono tracce nell’istinto protettivo, dispotico e vagamente isterico, da vecchia matrona inacidita, che – fuori tempo ormai – esercita verso tutta la popolazione aborigena che lo circonda, e in particolare verso quella che dipende da lui. E ancor più verso le giovanissime, le bambine che frequentano il suo letto.
E ultimamente se ne raccolgono prove ancor più esplicite nel sesso delle piccole prede che la sera, nella tenebra, percorrono il cunicolo vegetale che attraverso la folta macchia di palme e banani porta al suo alloggio; transitano per le sue stanze da lavoro, il suo studio, il suo caotico archivio, secondo un percorso rituale che conoscono a memoria salgono nella sua camera, s’infilano nel suo letto. E che da qualche tempo hanno preso ad essere indifferentemente femminucce o maschietti. È un’ironia del destino di alcuni di questi austeri coloni, duri ex-soldati, virili conquistatori maschi (e corrotti eremiti) il fatto che, per lunga privazione delle donne, si trasformino, in tarda età, in vecchie zie.
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“Non è uno da poco, Malcom.”
“Quel selvaggio?”
“Ho preso informazioni su di lui,” dice Pat. “È deputato al parlamento di Port Moresby. Landowners leader delle tribù di Mount Hagen. Rappresenta decine di clan. E controlla migliaia di voti. Hanno un giornale, a Port Moresby, scritto in tok pisin, l’idioma creolo più diffuso dell’isola, e presiede varie associazioni. È un selvaggio astuto. Sa muoversi in città e sa parlare, sia quando si rivolge ai suoi, nei villaggi, che coi governanti della capitale. Una schiera di giovani che hanno studiato lavora per lui. Un osso duro.”
Tarda mattinata al Grand Papua. Malcom ha dormito lì, consuma a uno dei tavoli un’abbondante colazione: papaya, ananas, mango, yogurt, caffè nero, toast imburrati con la marmellata. È in vestaglia. L’aria fresca del primo mattino è svanita, alle dieci è già calata la cappa d’afa pesante, spessa, che graverà sul resort per tutto il giorno e si dissolverà solo a tarda sera. Una leggera caligine nell’atmosfera vela il sole e diffonde una luce abbagliante.
Malcom scaccia con un gesto annoiato le mosche che ronzano sulla sua colazione, sembra poco interessato alle spiegazioni di Pat.
“Dovremo tornare a Purari nei prossimi giorni,” dice. “Servono rilievi topografici più accurati. Porteremo un drone con noi, Francis se ne sta occupando. La Compagnia ha stanziato dei fondi, possiamo permetterci una missione meglio organizzata, stavolta. Con l’appoggio dei tuoi elicotteri. Non me la faccio un’altra volta tutta quella schifosa strada fino a Purari a bordo di un pick-up.”
Pat lo fissa come da lontano. Occhi di un azzurro così chiaro, quasi trasparente.
“Hai sentito che cosa ho detto?” Fa.
Malcom controlla un gesto d’impazienza.
“Certo. Tu hai sentito me? C’è poco tempo. Dobbiamo tornare a Purari. Domani stesso.”
Pat si lascia andare all’indietro, contro la spalliera della poltroncina di vimini imbottita di cuscini: “Non se ne parla nemmeno,” dice tranquillamente, “se prima non risolviamo la questione con quel tizio.”
Silenzio. Malcom si accende un Montecristo. Gli occhi gli si stringono in due fessure, dietro il fumo. S’eccita sempre, quando sente aria di rissa. “Non adesso, Pat,” dice, scandendo le sillabe. “La Compagnia ha fretta. Non c’è tempo da perdere con queste stronzate. Lo sistemeremo dopo, quel tizio…”
“Dobbiamo occuparcene, invece. Finché non lo facciamo, non si combina nulla. Lo sai benissimo. Non si va molto lontano, qui, senza i landowners,” ribatte tranquillo Pat.
Malcom freme sulla sedia.
“No Pat. Non ti seguo, stavolta. Non c’è tempo. Raddoppiamo la scorta di militari, la triplichiamo. Ma torniamo subito laggiù. Bisogna battere il ferro finché è caldo.” Gli lancia un’occhiata in tralice: “Non credere che non ti capisca, però… non me ne frega un cazzo dei tuoi landowners…” aggiunge, duro.
Silenzio. I due uomini si misurano. Si fissano come da lontano, attraverso il velo di fumo del sigaro. Dopo una lunga pausa, è Pat che riprende:
“Raddoppiare la scorta non serve a niente, e lo sai. Se vuoi arrivare in fretta, bisogna fare le cose come si deve. Festina lente…”
“E piantala coi tuoi motti latini!” Sbotta Malcom. Cerca di trattenersi. Si vede lo sforzo che fa, ma non ci riesce… Uno come lui, non ama le spiegazioni. Vorrebbe darsi da fare, agire d’impeto. “Occuparsi adesso di quei selvaggi rallenta tutto. Bisogna tornare subito laggiù, avviare il progetto. Per tutto il resto c’è tempo. Facciamo partire la cosa, Pat. Poi, camminando, s’aggiusta il carro.”
Ma neanche a Pat piacciono le discussioni. Taglia corto, rispondendo secco:
“No, so quel che dico. Discorso chiuso. Non parte nessun carro, se non parliamo prima con i landowners. Almeno, non con me a bordo…”
Ecco, era quello che Malcom voleva, misurarsi. E ora che l’ha ottenuto, sa che con Pat non la spunta.
“Se la metti così…,” dice
Ha il problema di fare retromarcia. Lascia passare qualche minuto.
“Pensi che serva?” Dice alla fine.
Anche Pat lascia passare un po’ di tempo. Non ha fretta.
“Ne sono sicuro. Tutti quei tangheri, alla fine vogliono una cosa sola. Lascia fare a me. Combino io l’incontro.”
“E come pensi di fare? L’hai visto anche tu, che bestia è… E questo è niente. Dovresti vederlo a Purari. Non è gente con cui parlare. Tanto varrebbe parlare a un rinoceronte.”
“Ci penso io, ti dico. Li conosco da più tempo di te. So come prenderli. Ho degli amici tra i landowners, mi aiuteranno ad arrivare al tuo uomo. Quelli di Mount Hagen saranno forse un po’ più ostici, ma alla fin fine è sempre la stessa storia. Tutti affamati. Bisogna solo saperglieli offrire.
Malcom se ne va dal Grand Papua rabbuiato. Le prudenze di Pat lo esasperano. Per temperamento, avrebbe agito in modo più irruento e diretto. Sente di avere per le mani l’occasione che ha sempre aspettato, e teme di vederla svanire. C’è la Compagnia da far pazientare, da convincere; spiegare cose per cui quei signori in giacca e cravatta non possono nutrire alcun interesse…
Tuttavia, non può fare a meno di Pat. E anche questo lo disturba. Sa che Pat ha ragione. La relazione coi nativi è un tema cruciale in PNG. È la ragione per cui, al solo sentir pronunciare quella parola, landowners, Malcom stesso è battuto in ritirata, a Purari. Non si può tirare dritto e ignorarlo, è un problema da risolvere…
Ma questo non diminuisce la sua irritazione.
Il termine landowners ha acquisito, nell’assetto politico e nel linguaggio giuridico della PNG, un significato in fondo non diverso dalla sua accezione letterale; solo molto più incisivo, perché carico di connotazioni normative e legali.
Infatti, in PNG non esiste una proprietà terriera. Perlomeno, non come noi europei siamo abituati a intenderla. La terra non è un bene alienabile, non può essere comprata né venduta. Questo non significa che non appartenga a nessuno. La terra, per diritto tradizionale – per ‘customary title’, sancito dalla moderna legge dello Stato – appartiene alla comunità che vi risiede.
Concetto un po’ difficile da gestire sul piano giuridico – e anche su quello commerciale – perché il proprietario è un soggetto collettivo non ben definito, cangiante, mutevole in estensione e nel tempo, identificato e regolato da sue leggi interne, dal suo retaggio tribale e di clan; e perché i confini delle diverse proprietà sono, anch’essi, non ben definiti, non si basano su linee di demarcazione mappabili, che definiscano senza equivoci limiti tra una ‘proprietà’ e l’altra.
Prevale piuttosto un concetto di ‘centro di dominio’, che è il villaggio o l’insediamento umano che risiede in quell’area, e della sua zona d’influenza, la sua land, la cui estensione cambia col numero e la forza delle comunità residenti, e modifica di conseguenza i labili confini tra il territorio di un landowner e quello del suo vicino. Solo il 3% del territorio della PNG ha un proprietario identificabile con un nome e un cognome, sia esso un’entità pubblica o privata; il restante 97% è soggetto a questo tipo di ‘customary land tenure’, appartiene a landowners così imprecisamente definiti.
Questo crea qualche problema pratico nell’amministrazione del territorio e in qualunque iniziativa commerciale o di sviluppo uno intenda intraprendervi. D’altra parte, dà ai landowners una grande forza. In loro favore lo stato fissa ampie autonomie.
Un amalgama di clan che parlano più di ottocento lingue diverse, la regione al mondo a maggior diversità linguistica. Un’assemblaggio estrememente articolato di comunità spesso di dimensioni microscopiche, sparse nel territorio, ciascuna delle quali elegge i suoi deputati al parlamento di Port Moresby. E naturalmente il compito e l’interesse di costoro è far valere i diritti e l’autonomia dei landowners che rappresentano.
***
L’incontro avviene quattro giorni dopo. Ha fatto da tramite un landowners’ leader della Gulf Province, buon amico di Pat. Si vedono di sera, al Kazuki, un ristorante giapponese, uno dei due di livello vagamente internazionale esistenti a Port Moresby.
Pat ha affittato una saletta privata. Saletta forse è dire troppo, è una specie di primitiva veranda, un’appendice su palafitte isolata dal resto del locale da una parete di bamboo, alta sul bagnasciuga della spiaggia che fiancheggia la litoranea. Pareti foderate di stuoia di palma, una finestrella di canna arrotolata aperta sulla quiete notturna della baia. Mare calmo – perennemente calmo nel porto naturale di Port Moresby, protetto dalla barriera corallina, che ne ha fatto il primo approdo dei coloni bianchi sull’isola – aria calda, notte stellata.
Si mangia attorno a una grande piastra di ferro nero, sulla quale una cuoca giapponese si esibisce nella cottura al momento, dal vivo, di pescato fresco e verdure miste, uova, riso, tiger prawns, fette d’ananas, mescolati e cotti tutti assieme con gesti scattanti, ritmici, quasi marziali. Compone e scompone combinazioni di cibi, con due lunghe bacchette e una specie di spatola, li rivolta sul ferro rovente, li spartisce in porzioni che serve lei stessa dentro ciotole di terracotta disposte lungo l’ampia cornice in legno che circonda la piastra, e che fa da tavola attorno alla quale siedono i quattro commensali.
Pat, Malcom, Iroka e il Landowner leader della Gulf Province, il mediatore.
Iroka, infagottato in abiti civili, è meno impressionante di quando compare nel suo habitat, seminudo o coperto di stracci. Ora porta persino la cravatta, una specie di lacero straccio attorcigliato attorno al collo troppo robusto, il colletto della camicia trasandatamente sbottonato, una giacca informe rigonfia sulle spalle. Anche il suo inglese suona più comprensibile. Sputa persino meno a mitraglia, la salivazione, se è tranquillo, pare quasi civilmente sotto controllo. Probabilmente è quando s’incazza che le ghiandole salivali vanno su di giri, sono una spia dell’ira che monta. Ma le sue maniere sono meno irascibili, ora, l’uomo della Gulf Province ha fatto un buon lavoro.
Bevono vino neozelandese, sauvignon, Cloudy Bay della zona di Marlborough. Malcom spiega il progetto, sa cosa dire, illustra la parte tecnica, qualche cenno sulle opere, la diga, i tunnel, la centrale idroelettrica, il programma. Esposto in modo semplice, che anche Iroka possa capire. Di quando in quando interviene Pat, parlano del coinvolgimento della popolazione locale, dei benefici che ne verranno ai villaggi, delle prospettive di sviluppo: abitazioni migliori, acqua corrente, elettricità, buone strade. Malcom si offre di andare a trovare Iroka nel suo ufficio l’indomani, in Parlamento, portando mappe e disegni, per illustrare meglio il tutto, situarlo nel territorio, discutere con lui del coinvolgimento delle comunità residenti, identificarle, dare a Iroka il compito di trattare con loro, un ruolo attivo nell’economia del progetto.
Sia Iroka che il mediatore bevono forte, vanno via quattro bottiglie di Cloudy Bay. È alla fine della cena, quando Iroka chiede di far portare del whisky e Malcom accende il suo sigaro, che si arriva al punto.
Il punto, è ciò che Pat ha anticipato in mattinata. Hanno fatto il viaggio in elicottero. Atterrano, poi il trasferimento in macchina all’hotel. È lì, prima della cena, che Pat ragguaglia Malcom su quella faccenda.
“Ho parlato con membri del Governo,” dice. “Una legge appena approvata fa al caso nostro. Bisogna che i landowners di Purari costituiscano una società, e che la Compagnia ci formi una joint venture. La partecipazione dei landowners deve essere non inferiore al 3%. In base a questa legge, ciò garantisce alla JV la possibilità di agire liberamente sul territorio.”
Malcom grugnisce. “Sei sicuro che occorra coinvolgerli fin d’ora? Non è meglio definire il progetto, prima. Trovare l’accordo col Governo. E solo dopo affrontare la questione landowners?”
Ma Pat è deciso, sa di che parla: “No. Non funziona così,” dice. “È proprio dal Governo che ricevo queste indicazioni. Non approveranno nessun progetto se non vengono prima coivolti i landowners. Le due cose devono andare di pari passo.”
“E chi sarebbero, questi membri del Governo con cui parli?” Fa Malcom.
“Amici miei. Avrebbero problemi di consenso altrimenti,” spiega Pat, “se arrivasse sul territorio un progetto già approvato a Port Moresby prima di aver coinvolto i nativi. Dobbiamo proporlo al governo centrale con i landowners, non portare ai landowners qualcosa di già deciso.”
“Che vuoi dire?” Interloquisce Malcom. “Che coi landowners dobbiamo vedercela noi?”
“Più o meno. Il Governo ci darà appoggio, ma dietro le quinte. Bisogna che il progetto nasca con i landwoners, che la Compagnia abbia già il loro consenso. Il Governo ci indicherà la strada, ma l’accordo coi landowners dobbiamo farlo noi. Prima di avanzare la proposta. I politici non si esporranno più di così.”
“Questo devi spiegare alla Compagnia,” aggiunge Pat.
“E che fanno, col loro 3%, i landwoners?” Chiede Malcom.
“Niente. Non fanno assolutamente niente. La Compagnia è il socio di maggioranza, sostiene tutti i costi ma versa al partner di minoranza una quota dei ricavi. Per legge una JV così composta può avere commesse pubbliche a trattativa diretta, senza passare attraverso una gara.”
“E se i landowners vogliono più del 3%?”
Silenzio. Pat guarda Malcom con stupore.
“Ovviamente vorranno di più. È proprio questo il punto.” Tace per qualche istante. “Adesso sai su cosa verterà la discussione di stasera. Iroka conosce questa legge, è uno di quelli che l’hanno promulgata.”
La cena con Iroka e il mediatore della Gulf Province si conclude tutto sommato bene. Non raggiungono nessun accordo, ma il ghiaccio è rotto. Discutono a lungo, di tutto, e a mano a mano che la discussione procede, Pat e il landowners’ leader della Gulf Province si ritraggono, interloquiscono sempre meno. Da buoni mediatori, avviato il dialogo restano in ombra, lasciano che siano Malcom e Iroka a vedersela direttamente.
E i due, malgrado qualche momento di tensione, stavolta parlano, sembrano intendersi. Discutono di molti aspetti: scuole che la Compagnia costruirà nei villaggi, accesso della popolazione alla clinica del cantiere, quote e fasce di assunzione della gente del posto, formazione professionale per i giovani che lavoreranno alla costruzione della diga… Sono in in sintonia su molte cose: metodi, finalità, tempi, prossimi passi. Resta solo quel nodo da sciogliere, quel dettaglio.
È una strana discussione, quella che si svolge tra i due. Il mezzo comune è la lingua inglese. Ma è solo un vago campo condiviso, fissa la cornice del dialogo, non ne è il vero veicolo; è solo l’aspetto esteriore del codice che consente di comunicare. In realtà, la cornice si riempie di molte altre cose che il codice non contempla: gesti, espressioni, toni di voce, sguardi. Il body language, che in questi incontri, tra due uomini di culture così diverse, ha un peso maggiore del significato delle parole.
È una trattativa d’affari. Se si svolgesse, poniamo, tra Malcom e un altro imprenditore anglosassone, avrebbero entrambi a fianco un avvocato, e forse un team; sarebbero seduti in qualche sala riunioni di qualche ufficio o nella hall di un albergo; e peserebbero e pondererebbero le parole, e vi sarebbe poi una minuta a fissarle, e alla fine solo le parole, quasi solo le parole scritte, conterebbero.
Qui invece siamo in una surriscaldata stanza di bamboo su palafitte, affacciati sulla baia di Port Moresby. Su quel piccolo lembo di terreno condiviso, l’inglese (o quella sorta di pidgin English che riescono a mettere a fattor comune) un bianco e un aborigeno provano a intendersi. A superare, per ragioni d’interesse, le barriere culturali che li dividono. Perché conviene a tutt’e due, perché ciascuno dei due spera di guadagnarci qualcosa. E il codice linguistico in cui avviene lo scambio è più rozzo, più articolato e complesso, meno definito, meno univoco, di una lingua matura. È meno strutturato, quindi molto più ambiguo e rischioso.
Ma i due sembrano intendersi. Quando la cena finisce, non sono ancora al punto, ma hanno fatto molta strada rispetto all’ultimo incontro, a Purari. Malcom promette a Iroka di andare a trovarlo la mattina dopo nel suo ufficio, in Parlamento, con le carte del progetto. E mantiene la promessa.
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Fine della seconda puntata (continua)