A proposito del “Selfie del mondo”
Il turismo inconsapevole
Marco D'Eramo analizza il turismo globale, la sua dipendenza dal mercato del "patrimonio Unesco" e la sua sostanziale perdita di senso. Ma senza domandarsi quali scambi esso produce
Il selfie del mondo, di Marco D’Eramo (Feltrinelli, 256 pagine, 22 euro) è stato presentato a Venezia, città urticata dal turismo di massa, che sta imponendole una rapida trasformazione in parco tematico massivo con la diffusione capillare del bread&breakfast nel centro storico, e l’inondazione delle collanine e delle piadine. La presentazione, moderata da Barbara del Mercato, ha visto scorrere alcuni dei temi del libro: la trasformazione della città per effetto del turismo e la “congiura” dell’Unesco, il ruolo della politica locale di fronte alle forze scatenate dalla globalizzazione, la omologazione delle città turistiche per effetto della standardizzazione dei servizi.
D’Eramo ha raccolto riferimenti che forniscono una lettura prospettica del fenomeno. Cita autori preveggenti, come Mark Twain che narra l’esperienza della prima crociera in Europa di diportisti americani a bordo del Quaker City, il battello a vapore a ruote della Guerra Civile che nel 1867 si diresse verso la Terra Santa con soste in Francia (per l’Esposizione Universale di Parigi) e in Italia. Nel diario di viaggio, dal magnifico titolo: Innocents Abroad. The New Pilgrim’s Progress e che fu il maggior successo in vita di Twain, l’autore si soffermava sulla visita all’obitorio di Parigi, pellegrinaggio nel ventre del male cittadino, analogo alla visite delle fogne consigliata in quegli stessi anni dalla riviste illustrate. Su questo tema D’Eramo si sofferma: l’esperienza del turista nella visita non si relaziona con l’oggetto o con le persone in quanto tali, ma piuttosto con i segni, o le riduzioni iconiche che quelle cose, quelle città, quei popoli hanno attraversato prima di presentarsi ai suoi occhi. Le riduzioni iconiche servono a semplificare la complessità, a rendere riconoscibile ciò che non lo è immediatamente, a standardizzare ciò che è intrinsecamente complesso e inafferrabile.
In questo meccanismo di perdita di senso è precipitata la gastronomia, uno dei motori della globalizzazione turistica, dove domina l’ossessione dell’autenticità, che va a braccetto – questo è vero paradosso – con la cucina assolutamente improbabile dei master chef televisivi. Così la gastronomia, osserva D’Eramo «diventa oggetto di patrimonializzazione allo stesso titolo dei monumenti e, come essi, va salvaguardata, tanto che l’Unesco ha già dichiarato Patrimonio dell’Umanità i vigneti della Borgogna e dello Champagne…» (p. 194). Il ruolo dell’Unesco e del suo programma Patrimonio dell’Umanità nel facilitare e promuovere i processi di massificazione turistica è uno dei cavalli di battaglia di D’Eramo: il Patrimonio dell’Umanità gli appare, infatti, come corresponsabile della perdita di significato – questa è forse la parola chiave di tutto il libro – dell’esperienza del viaggiare. Una perdita che ha la sua ragione nel degrado da conoscere a ri-conoscere che affligge il turista moderno: turista che non intende più conoscere l’individuo, ma si accontenta di ri-conoscerlo come indigeno, barbaro, esotico, come stereotipo.
Sul World Heritage dell’Unesco D’Eramo insiste: non senza ragioni. L’esempio della città cinese di Lijang è convincente. La città fu distrutta da un terremoto nel 1996 e ricostruita con contributi e dopo riconoscimento dell’Unesco, in modo arbitrario: fu riempita di contenuti rispondenti a un immaginario turistico della città vecchia e svuotata delle sue relazioni sociali preesistenti, con la trasformazione della minoranza Naxi di origine tibetana in elemento folcloristico, privo di vita propria. Qui D’Eramo accusa l’Unesco di legami pericolosi con la cultura cinese del “rifare” in contrasto con la cultura occidentale e particolarmente italiana del “restaurare”, una accusa verosimile quando assistiamo all’entusiasmo cinese per il bollino “World Cultural Heritage”, con cui si lanciano verso lo sviluppo turistico i siti riconosciuti, avviando progetti di rifacimenti imbarazzanti che sfociano nella generazione di parchi tematici e resort ad esclusiva destinazione turistica.
Eppure, sembra a me evidente che il colossale movimento turistico globale sia anche portatore di conoscenza e di sviluppo, in forme nuove e non ancora analizzate. Queste novità profonde si presentano incapsulate e nascoste nelle nuove tecnologie e nel nuovo vissuto che esse portano con sé. A partire dai nuovi linguaggi e dalle nuove comunicazioni, che sono il portato delle nuove app e della comunicazione mobile. In questa direzione il libro di D’Eramo non fa alcuna esplorazione. Dobbiamo cercare queste nuove domande in altre direzioni, attendere risposte da altre indagini.
Infatti il libro di Marco D’Eramo si conclude con una lunga citazione di Levi Strauss, dai Tristi Tropici del 1955: «Vorrei aver vissuto ai tempi dei veri viaggi, quando si offriva in tutto il suo splendore uno spettacolo non ancora rovinato, contaminato e maledetto». Come Levi Strauss, anche D’Eramo sente la nostalgia per quei viaggi, la nostalgia per l’autenticità e sente il peso della perdita della conoscenza della “realtà inalterata”… Ma quell’aspirazione all’autenticità è a sua volta un’immagine altrettanto costruita e altrettanto stereotipata di quella che ci propone Trip Advisor o Lonely Planet: anche i resoconti di viaggio più antichi e veri faticavano a districarsi tra le miserie dell’incomprensione umana, affrontavano agghiacciati le miserie delle condizioni di lavoro, inorridivano dell’igiene, del pregiudizio, dell’ignoranza umana.
Certamente le culture oggi si corrompono tra di loro, come paventava Levi Strauss assistendo alla perdita della loro peculiare individualità. Ma questa corruzione è il fermento del nostro mondo: ciò che ci attende, nel bene e nel male. Questo senso di una corruzione che porta ad un degrado inarrestabile è la cifra del libro di Marco D’Eramo: uno sguardo al presente con la nostalgia per un passato, che è la nostra immagine proiettata alle nostre spalle.