«La compagnia delle anime finte»
Sbandati a Napoli
Il nuovo romanzo di Wanda Marasco continua a indagare sulle contraddizioni di una città universale. I ricchi e i poveri, gli illusi e i delusi, i primi e gli ultimi sono uniti dall'ineluttabilità del destino
«Bisognava accettarlo, questo destino, e starlo a sentire come se la terra aprisse la coscienza». È la fatalità della miseria di uno dei tanti fondaci di Napoli che scendono verso il mare, tra basoli, polvere, case bucate dai bombardamenti di pochi anni addietro. La speranza si fa tutt’una con la disperazione. La miseria pare abbia il volto dell’eternità, e si muove tra lutti, lacrime, vocìo e sussurri delle comari. L’estenuante fatica del sopravvivere inevitabilmente va a sbattere sugli artigli di un usuraio, che diventerà fascista e morirà tra persone che non chiamano l’ambulanza. Rosa, la protagonista, parla della madre Vincenzina Umbriello chiusa nella bara, in quella cassa di legno dignitosissimo, anzi elegante (anche la morte deve avere un certo sfarzo), dove nella fantasticheria si sentono due voci di defunti, legati da parentela stretta. Questa catena di drammi, questo su e giù dell’apparentemente assurda voglia di vivere o sopravvivere è il tema del nuovo romanzo di Wanda Marasco, finalista Premio Strega, (La compagnia delle anime finte, Neri Pozza, 238 pag., 16,50 euro). Una scrittura superba che s’impasta armoniosamente con squarci di poesia e idiomi accanitamente precisi. Si viaggia nel tempo, ma sempre sotto il cocente sole della miseria o nella pioggia che sgretola e imbarbarisce le mura di case con pavimento di cemento e mura schifate dalla pulizia. In questi contenuti che paiono scorrere sempre sul filo della provvisorietà, si cerca tenacemente la dignità, si esercitano sentimenti forti, molte volte prepotenti, si mischiano preghiere vere a riti pagani pur di cercare di scansare o esorzizzare la morte.
Protagoniste sono le donne, gli uomini fanno brutta figura così ridicoli nelle esitazioni e pure nei momenti brutalmente erotici («i fischi dei maschi in calore»). Dice Rosa dinanzi al corpo privo di vita della madre, nata e vissuta con il sospetto dentro: «Non lo so se questa è la tua vera storia, ma sto imparando a costruirne una che ti somiglia». Wanda Marasco, l’autrice, ci suggerisce che tutto è vero, che tutto supera la mera verosimiglianza. Rosa, già vedova e madre, ripercorre camminamenti strani di vari comportamenti: «Eravamo bambini colpiti dalla tua rabbia… ti riconoscevo dai passi e dall’odore di petrusino e di notti lanose… ho continuato a scavare nel tempo… dentro casa, stagione dopo stagione, la condizione umana era un mistero».
Rosa sa essere dura e schietta: «Le tue labbra non erano umane e la tua carne non era materna». Fruga nei cassetti e ritrova «mutande da clown, lasche e bianche. La tua vagina ci stava dentro con un odore di piscio e di talco…eri comica e randagia nel cammino, Inventavi animali fiabeschi. Sgocciolavi le mammelle bagnate nel lavatoio. Piangevi come i bicchieri sotto la fontana…qualche volta volevi ridere, più spesso tremavi». Solo uno scrittorello vanesio o inesperto descrive la miseria e lo scuorno (“vergogna”, in napoletano, pare di origine greca, ndr) con parole allusive o sbadatamente eleganti.
Rosa si concede a uno dei fratelli Maiorana, Rafele. Rimane incinta ed è tenuta fuori dalla casa di quella donna che avrebbe dovuto farle da suocera, Lisa Campanini. Rosa va da lei e riceve dalla donna usa a beneficenza malsana e teatrale (buttava spicci dal balcone, lei sposata con un medico di antico lignaggio baronale) una scatoletta piena di soldi, a risarcimento. Rosa non accetta, fugge sporca di indignazione.
Anni dopo andrà a trovarla nell’apice tetro della malattia, la lava tutto il corpo, lei che sa pulire i defunti), e sbircia nei cassetti per trovare qualcosa che allevi il suo stato di povera. Lo farà anche a morte avvenuta di Lisa, ma a lasciar vuoti gli stipetti ci hanno già pensato altri, benestanti e avidi. È la legge dello “scuorno”. Undici stanze hanno i Maiorana, tutte scure, con finestre socchiuse e stanze chiuse. Una famiglia che vive nella mediocrità della borghesia. Come in altre case ci sono spettri, segreti, sogni che sgretolano esistenze privandole dell’amore.
Tra vicoli e basoli che scendono verso il mare, sui muretti c’è la “guaglioneria”, destinata o all’arroganza e alla furfanteria o a disperata rassegnazione. Tra sguardi di animale od occhiate «pericolanti» o sbandate s’annida la verità: «Avevano smorfie da vecchi e teschi minuti sottopelle». E Rosa e Rafele pensano: diventeranno così i nostri figli? Vivranno nella “zuzimma” (monnezza)? Sarà così determinante il “sanghe” (sangue, in napoletano). Di certo è che, nelle estroverse povertà di Posillipo e Capodimonte, il più delle volte si pensa che «tutta la vita sia una minaccia da sorvegliare». Rosa dice a Vincenzina Umbriello: «Tu sei venuta dal niente e dalla paura». Sì, perché quella Napoli dove il mondo migliore «era soltanto un sodalizio tra un esercito straniero, il governo nuovo e la malavita». Sarà Rafele Maiorana, ragioniere al Comune, a predire una società dove i ricchi saranno più ricchi accanto a poveri abbarbicati alla mera sopravvivenza. Profezia di attualità estrema, non è forse così? Anche oggi sono tanti che “spaccano la lira”, come si diceva nella Napoli delle grotte, dei camminamenti sotterranei dove hai paura che tutto crolli addosso. Luoghi dove tieni «Una faccia appesa». Il monologo di Rosa è sorretto da precoci esperienze, dall’aver inseguito la madre «dentro la spirale dei vasci (o “bassi”, piccole e misere abitazioni a piano terra, ndr), sfiorando la carne bestiale degli altri».
Contorno della povertà partenopea: le comari dal corpo tondo e pelle scura. Sono telecamere sui bassi, sono pettegole ma caritatevoli, credenti in riti pagani e religiosi, fermamente nemiche della morte, sono registratori di confidenze. E le confidenze, scrive Wanda Marasco, «aprono un’altra versione della vita». E dietro a esse si snodano storie, affollate da sogni ghigliottinati, paure, spettri: lame che ti entrano nella mente e nel corpo. E tutto questo tra «gente storta e case oblique». Se si deve fare un appunto a questo romanzo corale è che nell’ultimissima parte l’insieme arruffato dei ricordi rischia d’essere una giostra che va troppo veloce. Anche se si deve ammettere che questo universo ha occhi desolatamente sbandati.