“L’età bianca” di Alessandro Moscè
La forza di Long John
Un ragazzino malato, un grande giocatore di calcio che tiene acceso il sogno e un amore che rievoca quello tra Orfeo ed Euridice. Tra cronaca, storia, testimonianza e autobiografia si declina la “cognizione del dolore” di Moscè
La figura dell’adolescente è diventata una sorta di archetipo della narrativa moderna. Si pensi ai Turbamenti del giovane Törless di Musil o, per rimanere in ambito italiano, all’uso ricorrente del personaggio adolescenziale in narratori come Bilenchi, Cassola e Moravia. Alessandro Moscè, nato nel 1969 a Fabriano dove vive, licenzia ora il romanzo intitolato L’età bianca (Avagliano, 240 pagine, 15 euro) che rappresenta l’ideale prosecuzione del precedente Il talento della malattia, pubblicato dallo stesso editore nel 2012. La vicenda si basa sulle dolorose vicissitudini dello stesso narratore che si è ammalato, negli anni Ottanta, del terribile sarcoma di Ewing e ne è uscito miracolosamente guarito («il miracolato» veniva definito dai medici che l’avevano in cura presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna).
L’età bianca è appunto quella dell’adolescenza («L’adolescenza è l’età più bella, senza compromessi»), l’età in cui il protagonista del romanzo si ammala, l’età in cui conosce Elena, ragazza poco più giovane di lui, con la quale si limita a fare lunghe passeggiate a Fabriano senza trovare il coraggio di dichiararsi e dichiarare il proprio amore durante i ritorni da Macerata dove studia un po’ svogliatamente giurisprudenza. Ma il romanzo ripercorre anche un preciso periodo storico del nostro paese: l’epoca in cui era ancora possibile fare scoperte con gli occhi innocenti di un adolescente, in cui globalizzazione e consumismo selvaggio non avevano ancora ottenebrato del tutto le nostre coscienze.
In ambito calcistico non c’erano né Sky né Premium. Ci si limitava ad ascoltare le partite alla radio, reinventate dalle voci di Enrico Ameri o Sandro Ciotti in Tutto il calcio minuto per minuto o, tutt’al più, si guardava Novantesimo minuto con le sintesi degli incontri di serie A. Era l’epoca in cui scompariva misteriosamente Emanuela Orlandi, in cui veniva arrestato Enzo Tortora, in cui era possibile ascoltare il poeta Mario Luzi, conosciuto da Moscè durante una cena a Senigallia, recitare i suoi versi con inimitabile cadenza fiorentina, in cui il vescovo di Milano, che si chiamava Carlo Maria Martini, si soffermava volentieri a interloquire con i ragazzi. E non è un caso che tutti questi personaggi, che tutti questi avvenimenti cadenzino le varie fasi del libro, delineandosi come una sorta di quinta che fa da sfondo a quello che si può definire un particolarissimo Bildungsroman.
Ma su tutto domina la figura di un eroe atipico, quel Giorgio Chinaglia, soprannominato Long John per i suoi trascorsi all’estero, che contribuì a regalare alla Lazio un indimenticabile scudetto e a un ragazzino ammalato di un morbo terribile la forza di immedesimarsi nella sua epopea e di sconfiggere la malattia: «Giorgio Chinaglia l’aveva accompagnato durante l’infanzia e la malattia, prima e dopo. Quel luglio del 1984 ce l’aveva davanti agli occhi. È stato il riassunto dell’infanzia di Alessandro, un’icona che non è cambiata, come per i tifosi della Lazio. È la prova del ricordo, più che del mito. Non c’è mai stata metamorfosi. Tutto rimaneva invariabilmente uguale».
Moscè non poteva che ripromettersi di testimoniare, attraverso la parola scritta, questa catabasi da cui è uscito miracolosamente illeso ma da cui, come un sopravvissuto dei campi di sterminio, psicologicamente non si riprenderà più: «Voleva fare lo scrittore perché si era ammalato, perché invece di giocare a calcio o a pallacanestro stava in un letto d’ospedale a respirare l’odore della malattia». E proprio la «cognizione del dolore», di quel dolore condiviso con i bambini che non sono riusciti a essere altrettanto fortunati, farà di Alessandro, il protagonista del romanzo, una sorta di superstite che continuerà a patire, anche dopo la guarigione, le sofferenze di quei bambini a cui hanno amputato una gamba o che, semplicemente, non ci sono più.
Con estremo garbo e delicatezza Moscè descrive il rapporto tra Alessandro ed Elena, reincontrantisi in età adulta, le loro peripezie sentimentali alla ricerca di un equilibrio ormai impossibile da raggiungere a causa del fatto che lei è sposata e ha due figli. Tutto porta, in un crescendo di rara potenza espressiva, verso il suggello finale, costituito dalla loro disarmante ricognizione nei padiglioni dell’Istituto Rizzoli di Bologna ormai in disuso dove Alessandro era stato ricoverato e dove adesso si abbandona a una sorta di rito propiziatorio dai tratti dionisiaci che diventa la maniera per esorcizzare il proprio passato e la malattia.
Si tratta di una moderna rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice, con la conseguente perdita di quest’ultima da parte di Orfeo sceso nel regno delle ombre al fine di salvarla e di salvarsi (ma con frequente inversione dei ruoli). Non è un caso che il distacco tra i due avvenga subito dopo l’avventura tra quei padiglioni abbandonati ed è come se Elena-Euridice non fosse più salita dagli inferi, rappresentati dalle incombenze familiari, dalle abitudini, da un tenore di vita in cui è possibile nascondere le proprie più riposte aspirazioni.
Il romanzo di Moscè (nella foto) commuove in virtù della sua totale adesione alla realtà e l’autobiografismo in questo caso costituisce uno dei rari esempi di empatia con la parola scritta. L’autore ricorre, per rendere più varia e articolata la narrazione, alle tecniche più disparate: dai dialoghi ai referti clinici, dalle lettere ai flash-back che proiettano il lettore in un passato sempre contestualizzato storicamente.
I grandi temi della morte e dell’adolescenza si rapportano così al calcio che diviene metafora della vita, a una schiera di personaggi (dalla madre al padre, dai nonni alle suore delle elementari, dal profilo austero del professor Campanacci a quello clownesco di Pierino) che costituiscono quella cornice umana entro la quale risalta l’idillio tra Alessandro e Elena. Eros e Thanatos, dunque, in cui paradossalmente sono le figure dei più forti a soccombere: da quella di Chinaglia, morto prematuramente dopo essere diventato presidente della Lazio, a quella del luminare del Rizzoli. Rimane Alessandro, solo ma ormai consapevole del proprio ruolo di testimone (non a caso fa il giornalista), mentre osserva i piccioni di Villa Borghese a Roma e si chiede «se il suo romanzo potrà essere letto come una lunga poesia».