«Addii, fischi nel buio, cenni»
Un altro Novecento
Silvio Perrella ha costruito una personale galleria di "Antenati": da La Capria a Parise, da Calvino a Levi, da Ortese a Natalia Ginzburg. Insomma scrittori che si sono presi la responsabilità di costruire quello che oggi andiamo distruggendo
«La generazione dei nostri antenati fu per ragioni insieme storiche e anagrafiche l’ultima generazione dei padri e delle madri. Quelle che vennero dopo, distanziate anche di pochissimi anni, furono invece le generazioni dei figli. Figli e figli dei figli». Silvio Perrella lo dichiara nella prima pagina del suo denso catalogo di “maggior sui”: la sua generazione (1959) appartiene a quella dei figli. Rimasti tali, senza riuscire (ancora?) ad acquisire lo spessore della paternità. Una generazione in mezzo a un guado privo dell’altra riva. Restando a Dante: siamo tutti traghettatori e sull’Acheronte si consumerà la nostra vicenda pubblica e privata. Fino ad affogare. Perché, è bene dirlo subito, chi scrive non è solo da lunghi anni sodale di Silvio Perrella, ma è nato nel suo stesso anno. Benché il mio apprendistato sia così diverso da quello del grande scrittore napoletano.
Ebbene, si parla di Addii, fischi nel buio, cenni: raccolta di saggi che attraversano un trentennio di attività incessante (Neri Pozza, 383 pagine, 18 Euro). Il titolo, si sa, viene dai Mottetti di Montale, una prosodia ritmica che Silvio Perrella qui trasforma in una dichiarazione d’intenti: divagare, con metodo, nella letteratura italiana del Novecento di autori nati prima della fine degli anni Venti. Ossia una genìa che non ha vissuto direttamente il fascismo in modo adulto, ma che invece è maturata nelle incertezze insite nel passaggio tra fascismo e antifascismo. Per dirla meglio: l’ultima generazione italiana cui sia stato consentito il privilegio di costruire condividendo un rigore etico poi scomparso. Quanti sono venuti dopo, non hanno potuto fare altro chi cercare di conservare chi distruggere. Ecco: Perrella è nel novero, ormai sparuto, di quanti si sono spesi per conservare. E per farlo bisogna conoscere; capire. Ossia leggere i padri e, al caso, aggiornarli con rispetto. Questo, in effetti, è un libro di un lettore che ha svicolato le mode: il neorealismo, l’impegno a ogni costo, la militanza o, viceversa, il tradimento ideologico (sia pure liberatorio). Diciamo così: Silvio Perrella ha saputo scegliere gli antenati giusti, quelli che hanno resistito allo stupido furore iconoclasta degli anni Sessanta e Settanta; quelli che sono rimasti appartati quando tutti gli altri facevano la passerella della rivoluzione Sessantottina ma che per questo hanno conservato la loro dottrina del dubbio. Trasmettendola ai figli; a quei figli che non li avevano abbandonati, almeno.
I nomi, bisogna fare qualche nome per capirsi. Il libro è composto da una lunga serie di saggi variamente provenienti da giornali, riviste letterarie, periodici o introduzioni di libri altrui. Ogni testo è centrato su un aspetto di ciascuno scrittore, tanto che alcuni nomi tornano più volte: ma è il ritratto di un trentennio, più che una somma di fotografie di autori singoli. Va bene, i nomi! Raffaele La Capria e Goffredo Parise sono sempre stati i numi tutelari di Perrella, come Italo Calvino ne è la divinità di casa, il più amato tra i suoi lari. Anna Maria Ortese e Natalia Ginzburg sono lette e raccontate con passione e due napoletani atipici (Ermanno Rea e Luigi Compagnone, figura ormai ingiustamente dimenticata ma che qui gode di un emozionato ritratto) fanno da cornice. A Primo Levi e al suo I sommersi e i salvati, poi, sono dedicate pagine di inquietante attualità. Eppure è su una atipica figura di intellettuale di fine millennio che vorrei concentrarmi, perché è tramite lui che Silvio Perrella fa il salto dagli antenati alla contemporaneità. «Il suo più grande desiderio è quello di trovare una qualunque realtà in un mondo che gli appare sempre più immaginario»: così si presentò Cesare Garboli nel 1995 in margine a una delle sue solite meravigliose invenzioni editoriali (un Filottete di Gide!). Eccoci: lo scrittore chiede alla sorte di trovare realtà in un mondo che ormai gli pare solo immaginario. Quale affermazione più drammaticamente legata al presente può essere fatta oggi a fronte dello sconquasso e del rivolgimento sociale e culturale (ha senso parlare ancora di cultura?) che stiamo vivendo? Se Garboli troneggia in cima alla piramide dei pochi che hanno denunciato l’incompiutezza italiana, Silvio Perrella, in numerosi dei suoi saggi qui contenuti, lo indica come il primo maestro del dubbio. Ma, attenzione: di un dubbio molto particolare si parla. Ossia di quello che allena la conoscenza, che stimola all’approfondimento, che chiede di capire, non di negare a priori; non quello che fa da anticamera all’ignoranza e al disimpegno. Garboli interpretò da gigante il dibattito sul “relativismo” che ha affogato i saperi della fine del Novecento e dell’inizio del Duemila: un falso dibattito che è arrivato colpevolmente a confondere, appunto, il dubbio con l’assenza di principi. Ci hanno fatto credere di essere persone senza principi, e invece volevamo solo ragionare sui nostri dubbi.
Silvio Perrella, a differenza di molti suoi coevi, ha continuato a fidare nelle incertezze che i suoi grati maestri gli hanno trasmesso, non cadendo nel tranello nel quale molti di noi sono caduti perdendo alla fine la propria identità, chi abiurando, chi pentendosi di colpe commesse da altri. No, Silvio Perrella ha costruito questa galleria di antenati per mettere in fila la solidità di una scuola di pensiero, di estetica e di vita che era lì, facile da avvicinare, toccare e capire ma che molti hanno aggirato per una pruderie ideologica che oggi appare nefasta. Al punto che nei suoi Addii, fischi nel buio, cenni più che le presenze spesso hanno peso le assenze. Non c’è da fare nomi, stavolta: leggete il libro e trovate voi i vuoti che più vi colpiscono. Dopo di che, valutatene il senso: da qualunque parte li si guardi, chi manca dà forza a chi resta. Perché era importante, per Perrella, parlare di padri; e, per essere padri, bisogna volerlo essere. I suoi antenati non hanno abdicato questa funzione di straordinaria importanza: non hanno deciso di restare figli come quelli che sono venuti dopo. Che significa (l’essere padri) accettare pesi e responsabilità che i figli possono scantonare con una risata, con un salto all’indietro, con una smorfia, con una bugia. Scambiando la vita con un gioco, insomma. Anche i padri commettono errori (ci mancherebbe!) ma il loro essere consapevoli del proprio ruolo di guida, di educatori, rende quegli errori a propria volta un esempio da volgere in positivo. Cosa che oggi non accade più: attenti come siamo, in letteratura e non solo, ai giocare a palla prigioniera, più che a inseguire la realtà in un mondo immaginario.
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Le foto (Italia anni Sessanta e Settanta) sono di Uliano Lucas