Analisi di uno scrittore trendy/1
Errori scritti al Volo
Fabio Volo lamenta la predisposizione negativa della critica ai suoi libri. E allora leggiamo, il suo «La strada verso casa». Esempi (e manuale di grammatica) alla mano, è solo un catalogo di errori e sciatterie
Stanco delle lagnanze e del vittimismo di Fabio Volo, che da lungo tempo denuncia l’indifferenza dei critici letterari verso i suoi romanzi, attribuendone la causa alla sua larga fama presso il pubblico televisivo e radiofonico, un critico letterario decide di leggerne e recensirne le opere. Parte (casualmente) dalla penultima, La strada verso casa, pensando poi di affrontare tutte le altre: difficilmente però, conclusa questa, riuscirà a portare a compimento il suo intento iniziale. Quella che segue è la prima parte delle sue argomentazioni: una recensione in senso stretto del romanzo; nella seconda troveranno spazio, tra analisi e considerazioni, anche delle proposte all’indirizzo dell’autore.
Prendiamo questa coppia di frasi: “Quel mangiare di bambini lo infastidiva”, e “Quel mangiare bambini lo infastidiva”. La differenza è fin troppo evidente, ma per il nostro discorso sarà comunque bene palesarla: nella prima, i bambini mangiano, e con questa loro azione provocano fastidio in qualcuno; nella seconda, i bambini subiscono l’azione del mangiare, ed è questo – il fatto che si mangino dei bambini – a provocare fastidio in qualcuno. Bene: applichiamo questa distinzione, elementare, al passo che segue di La strada verso casa di Fabio Volo (Mondadori, 2013; ma l’edizione di riferimento è quella uscita negli Oscar bestsellers nella primavera del 2015): «Al mattino c’erano due programmi televisivi che lui voleva assolutamente vedere. Anche se non seguiva ciò che dicevano, anche se non capiva, ne era ipnotizzato. La tv era il chewing-gum del suo cervello. Quel ruminare di parole lo tranquillizzava». L’ultima frase, lingua italiana alla mano, crea qualche problema con la precedente: se il cervello ha per gomma da masticare la tv (cioè i programmi che la tv trasmette), e quindi “rumina la tv”, non potranno essere le parole della tv a compiere l’azione del ruminare, come invece appare nel libro («Quel ruminare di parole»; anche perché diventerebbe arduo comprendere cosa mai tutto ciò potrebbe significare). Non dovrebbero esserci equivoci: sono le parole, uscendo dalla tv, a essere ruminate dal cervello. Ma non è quello che Volo ha scritto. Si dirà che la forma inusuale, poco maneggevole, ha indotto a una semplice svista: e sia, sono cose che capitano.
Prendiamo un altro passo: «Tre uomini non era una situazione semplice. Poteva incepparsi anche davanti a piccole difficoltà». A meno che non sia sbagliato il verbo, e «poteva» sia stato stampato al posto di «potevano» (potrebbe essere un’altra svista, niente di troppo grave), a rigor di (analisi) logica, per come è costruito il periodo, a incepparsi non può che essere la “situazione semplice”: la quale però non esiste, dato che si è appena detto che la situazione semplice non era. Insomma: si afferra il senso generale, come sopra, ma la forma è senz’altro approssimativa. Sia come sia: un’altra svista. Cose che possono capitare, in un testo lungo come questo (315 pagine).
Ora un passo di natura diversa: protagonista Andrea, uno dei due personaggi principali. «Quella mattina, mentre fissava il rubinetto, aveva smesso subito di fare quel gioco. Era preoccupato per suo padre. Aveva appena accompagnato a casa suo fratello ed era tornato in ufficio. Andrea era un ingegnere. Prima di tornare al lavoro si era concesso dieci minuti da solo nel cucinino dell’ufficio. Le gocce che cadevano lo aiutavano a concentrarsi». Lo sbandamento dal punto di vista interno del personaggio (noi lettori vediamo e sentiamo ciò che lui vede e sente, come fossimo nella sua testa) alla voce del narratore esterno («Andrea era un ingegnere») e il successivo ritorno al punto di vista interno del personaggio, produce un’alternanza che disorienta il lettore: il quale prima è fatto entrare nella mente del personaggio, poi ne viene sputato fuori dall’intervento del narratore per, infine, esservi riportato dentro. Il tutto nell’arco di sette righe e, soprattutto, senza giustificazione (narrativa, semantica, narratologica) alcuna. Sarebbe bastato indicare in pagine precedenti, in altro modo, la professione di Andrea, e si sarebbe evitata un’ennesima svista. A meno che questa non sia da intendere come una precisa volontà stilistica di Volo, dato che successivamente (si parla di Marco, fratello di Andrea) troviamo: «Non riusciva a usare lo spazzolino da denti di un’altra persona, nemmeno quella più intima. Poteva stare con una donna, infilare la sua bocca e la sua lingua in ogni angolo, ogni insenatura e cavità del suo corpo, ma lo spazzolino da denti non riusciva a condividerlo. Marco avrebbe dormito nel suo letto. Aprì la finestra e iniziò a fare un po’ di ordine». Parlando di volontà stilistica si fa per dire, naturalmente: svista una e svista l’altra. Succede.
Succede, ma non dovrebbe succedere. Non nel libro di un autore che lamenta la nulla attenzione critica nei suoi confronti, dando così a intendere che nelle sue opere risiedano delle qualità (che i critici rifiutano a priori di riconoscergli per via della sua fama), e non in un libro edito da una casa come Mondadori (di questo diremo in conclusione). Anche perché se, com’è noto, tre sviste fanno un errore, anche a volerle considerare sviste e non ciò che sono, cioè errori, il risultato non cambia: La strada verso casa è una lunga, imbarazzante sequela di obbrobri logico-grammaticali, lessicali, stilistici. Ecco, così che l’autore non abbia a invocare motivazioni extra-artistiche per questo nostro giudizio, gli argomenti.
Mancano, spesso, gli accordi più basilari, in ogni campo: «Le mani della madre disimparavano giorno dopo giorno ad afferrare gli oggetti e quando ci riusciva spesso li lasciava cadere»; «Marco invece preferiva tenere lo strofinaccio buttato su una spalla, aspettare il piatto pulito e poi farlo girare come il volante di una macchina, impilarli uno sopra l’altro e sentire il suono tintinnante di quando si toccavano»; «se pensi che qui ci sia disordine e cose inutili»; «Andrea non aveva mai pensato che due corpi potessero darsi tanto piacere, essere liberi, capaci di piegarsi, avvinghiarsi ed esplodere. Non aveva mai sentito il desiderio di mordere, sbranare e mangiare un altro corpo, strapparle la pelle di dosso».
Impressionante, poi, il numero delle ripetizioni: almeno quanto constatare che uno scrittore con sei libri già pubblicati prima di questo non sapesse che, da sempre, la ripetizione nell’italiano scritto è ritenuta un errore, e dei più gravi. Fate attenzione alla parola “insieme” in queste righe emblematiche: «Mise insieme un discorso sconclusionato e confuso. Isabella in quella timidezza, in quella emozione, in quelle parole goffe vide il volto di un ragazzo innamorato. Si commosse e accettò. “Sì, voglio essere la tua ragazza. Non ho bisogno di pensarci.” Da quel momento erano insieme. Erano diventati subito una coppia invidiata, era bello il loro modo di stare insieme. I loro amici sognavano una storia d’amore così. Non si stavano sempre addosso, sempre abbracciati, quello lo facevano quando erano soli. In mezzo agli altri parlavano con persone diverse, potevano anche stare separati tutti il pomeriggio. La cosa bella era che ogni tanto si cercavano con lo sguardo senza che l’altro se ne accorgesse. Non per gelosia, solamente perché erano insieme anche se distanti. Una meraviglia. Adesso, quasi venticinque anni dopo, stava facendo la stessa strada per andare da lei. Era contento di passare a prenderla e andare a cena insieme». Qui è la parola “mondo” a non godere di neanche un sinonimo (e sì che l’italiano ne garantirebbe a sufficienza): «Marco, preso dalla nostalgia, bevve l’ultimo sorso di caffè e iniziò a fare un giro per casa, un giro nel mondo degli oggetti, con l’intento di farli riemergere dall’anonimato, dal mondo dell’invisibile in cui spesso tutto finisce a causa dell’abitudine. In quel tour si accorse subito che gli oggetti avevano la forza straordinaria di ricostruire un passato e non solo di ammobiliare un mondo». Stessa pagina, due paragrafi dopo: «Dentro la vetrinetta il mondo era intatto, senza tempo. Quell’immutabilità lo tranquillizzava e allo stesso tempo lo agitava. Alla morte del padre si sarebbero dovuti occupare di trovare a tutto questo mondo una nuova sistemazione». Perché non si pensi a episodi isolati e sfortunati (a sviste, insomma), in poco più di mezza pagina (siamo alla 71) troviamo: «Doveva andarsene se non voleva essere altro da sé», «voleva andare fino in fondo», «Non poteva fare altro che aprire la porta di casa e andare a cercare la risposta», «Sentiva il desiderio di andare dentro le cose», «mettere via un po’ di soldi facendo il lavoro che gli piaceva mentre capiva dove voleva andare». La sciatteria della scrittura di Volo è disarmante, di per sé e nella sua costanza: «Marco si ricordava perfettamente la cantina del padre, sembrava una sala operatoria, tutto era in ordine. Si ricordava le chiavi inglesi appese al muro sopra il tavolo in ordine di grandezza» (p. 173); «Passeggiava verso casa di Isabella, un percorso che aveva fatto milioni di volte, una vita fa. Gli venne in mente quando aveva percorso quella strada la prima volta» (p. 158). Potremmo andare avanti con gli esempi di questo tipo, ma le ripetizioni, purtroppo, non si limitano al piano delle singole parole. Riguardano i nomi propri dei personaggi, utilizzati allo sfinimento anche quando non esiste possibilità alcuna di fraintendimento (quando, per capirci, di personaggio in scena in un certo episodio narrativo ce n’è uno solo), e anche intere frasi e i concetti che queste veicolano (o dovrebbero veicolare). Riportiamo solo un caso: quello, parossistico, di due frasi contigue: «Marco era facile alla noia. Si annoiava facilmente».
A proposito di concetti. Quando Volo si arrischia ad andare appena oltre la pura descrizione, incappa spesso in incidenti di senso che cavalcano la linea tra il tragico e il comico (involontario). All’inizio di pagina 205 leggiamo: «Da quando il padre era tornato a casa le giornate scorrevano più o meno nello stesso modo. Era lui a dettare i tempi, le priorità, le necessità. Viveva una vita che costringeva se stesso e gli altri ad assecondare una serie di bisogni, di impulsi, di azioni automatiche». Nella frase immediatamente successiva a queste, il ruolo attivo e preminente del padre nella quotidianità della famiglia scompare, come se niente fosse, per essere sostituito da forze misteriose e inafferrabili: «Il tempo trascorreva scandito da abitudini cadenzate, decise secondo chissà quale principio e quale modalità. Nessuno lo sapeva, nessuno lo ricordava». In precedenza (il soggetto è sempre il padre di Marco e Andrea), quando troviamo: «Si capiva che aveva un’indole e un destino migliori della vita che era stato costretto a vivere», appare chiaro che Volo non distingua tra l’avere un destino che si è già compiuto e l’essere destinato a qualcosa che non si compirà mai. E quando, nel corso di una notte, è il momento dei dubbi esistenziali per Andrea, la confusione del personaggio tracima contagiando il suo creatore: «“Chi sono? Chi sto diventando? Cosa mi sta succedendo?” Era pieno di incognite, di paure. Aveva preso sonno dopo quella considerazione»: di quale considerazione si parla, vi chiederete? Fate bene a chiedervelo: non c’è infatti alcuna considerazione.
Il Volo che sentenzia sulle grandi questioni della vita – fatto già pernicioso di per sé, per quasi qualunque scrittore di qualsiasi tempo e luogo, e sicuramente per tutti gli scriventi, com’è questo il caso – esibisce poi un’ulteriore, imperdonabile falla, che testimonia con ancora più forza la sua totale impreparazione alla materia narrativa e letteraria. Leggiamo queste tre frasi: «Perché nella vita la nozione è importante ma non è tutto, è quello che fai con quella nozione che fa la differenza»; «Se la vita fosse un gioco, in alcuni momenti sarebbe giusto sospenderlo, come quando durante una partita di calcio uno si fa male e l’arbitro fischia e ferma la partita»; «Quando una donna vuole una cosa tremano le montagne, si muovono le maree, quando una donna vuole un uomo trema l’universo intero». Accantonando il merito del contenuto, si sarà d’accordo sul fatto che la matrice è la stessa: lo stile non tradisce, chi ha scritto una ha scritto anche le altre due. Peccato che autori di queste tre “riflessioni” siano tre soggetti distinti: il narratore esterno, e Marco e Andrea ognuno con delle proprie battute di dialogo diretto. Siamo davanti, insomma, alla più completa incapacità di caratterizzare le voci, le personalità. Dovrebbe essere la grammatica di base di chiunque scriva un romanzo: e Volo ne è sprovvisto.
Si va avanti così, senza soluzione di continuità, per tutto il libro: tra implausibili figure retoriche («l’erezione di Andrea entrava dentro di lei un po’ di più»: che sarà mai, lo stato per l’oggetto?), usi perlomeno fantasiosi degli ausiliari («Per il resto tutti gli oggetti erano resistiti più a lungo della vita delle persone a cui erano stati regalati»), dialoghi irrealistici (tra due ventenni: «Marco, se dovessi cadere e farmi male, tu saresti in grado di aiutarmi a rialzarmi, di prenderti cura di me?» ― «Sarò lì prima che cada per afferrarti in tempo») e due incredibili, se non li si vedesse con i nostri occhi, errori riguardanti i modi del verbo: «Si erano chiesti se avessero dovuto portare al padre le lettere», con «avessero» al posto di «avrebbero» (non potendo riportare tutto il passo, per chi volesse controllare: p. 178), e «Mentre aspettava di vedere se fosse successe qualcosa», con «fosse» al posto di “sarebbe” (p. 309).
Ora: alcuni aspetti del Fabio Volo romanziere – temi del libro, motivi del successo –, ma anche alcune proposte al suo indirizzo, saranno oggetto di un secondo articolo di imminente scrittura (in cui si darà anche conto del titolo complessivo di entrambi). Qui, in conclusione, si affronterà solo una questione, e riguarda la casa editrice Mondadori. Con La strada verso casa, non si è davanti a letteratura di miserabile fattura: per il semplice fatto che non si è davanti a della letteratura. Quello che stupisce, rammarica e infastidisce profondamente, è che si è davanti a un prodotto di consumo, di miserabile fattura. A partire dalla copertina for dummies, la cura redazionale/editoriale è completamente assente: è come se l’editore, contando sul richiamo del nome e sul fatto che le vendite sarebbero arrivate indipendentemente dal valore dell’opera, abbia abbandonato all’origine ogni discorso sulla qualità di ciò che mandava sugli scaffali di librerie e supermercati. Che considerazione la Mondadori ha degli acquirenti, ci si trova a chiedersi, smarriti? E ancora (ma è quesito meno importante del precedente, per quanto ci concerne): possibile che nessuna delle persone che si occupa dei libri di Volo gli consigli, visto che lui pare non essere in grado di fare simili valutazioni, di evitare il vittimismo e non esporsi a un giudizio critico che, anche per responsabilità oggettive della stessa Mondadori, non potrebbe mai, in nessun caso, essere positivo?
1. Continua