Dopo i fatti di Parigi
Noi, un bersaglio semplice
Da un lato interessi e guerre, dall'altro luoghi comuni e commenti banali: la sfida della modernità è tutta qui. E noi occidentali abbiamo abdicato ai principi della nostra complessità
Venerdì sera, mentre un manipolo di individui malediceva il proprio Dio uccidendo a Parigi decine e decine di ragazzi inermi io, ignaro, ero in un vecchio teatro di Roma ad assistere alla rappresentazione di uno strano, nero copione di Carlo Goldoni, italiano di oltre due secoli fa, sapido e sapiente nel cogliere le contraddizioni dei suoi simili. Lo spettacolo cui ho assistito venerdì scorso era profondo e convenzionale allo stesso tempo (per i curiosi, sto parlando della Bottega del caffè di Goldoni messa in scena da Maurizio Scaparro con Pino Micol e Vittorio Viviani, ma nel merito conta poco): un pezzo della mia storia, per la saggia articolazione della trama, per la sapiente creatività degli interpreti principali, per la seduttiva capacità del regista di confezionare immagini sceniche. Sono uscito dal teatro chiedendomi quale suggestione, quale insegnamento avrebbero tratto dallo spettacolo tutti quei ragazzi vocianti (tanti) che stavano seduti dietro di me e che sicuramente erano a teatro se non la prima volta, una delle prime… Mi chiedevo se quanto avevano appena visto li avrebbe appassionati per il futuro. Se quella storia «antica» recitata in modo dignitosamente «convenzionale» li avrebbe indotti a tornare a teatro, non considerandolo solo un rito «vecchio» e superato. Chissà?
Una volta tornato a casa, ho letto sul tablet le cose di Parigi. I morti. La bestemmia di chi uccide nel nome di non so quale Dio (detesto chi si pone come mediatore tra il senso del divino e gli uomini). La coltellata alla gioia di quei ragazzi che assistevano a un concerto. La codardia di chi spara a gente disarmata: mi hanno insegnato che le guerre si combattono di fronte al nemico, non alle loro spalle. La prima reazione che ho avuto è stata quella di misurare le mie debolezze: quale mia debolezza mi ha reso un così facile bersaglio di fronte alle mistificazioni dei bestemmiatori? Quale errata concezione della libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza ha permesso a questi bestemmiatori di considerarmi un “debole”? Possibile che solo sparando si possa ottenere rispetto? Possibile, mi sono risposto. La militarizzazione di Parigi e l’intensificazione dei bombardamenti su Raqqa mi paiono una ragionevole reazione, perfettamente in linea con la millenaria (millenaria) storia dell’Occidente. Ma poi ho ripensato proprio ai miei dubbi a proposito dello spettacolo cui avevo assistito. Questo mi fa diverso: la mia capacità di elaborare criticamente la mia identità, di dire “questa è convenzione”, di argomentare “tutto ciò non si è adeguato alle mutazioni dei tempi” (come insegnava Marx). Questo mi fa bersaglio di quanti vedono la vita solo in bianco e nero, senza chiaroscuri, senza complessità, senza profondità. Senza senso critico: questo mi fa bersaglio di gente banale, capace di cadere in qualunque scorciatoia ideologica, che essa sia un colpo di kalashnikov contro un ragazzo che ascolta rock o una notte di sesso con un magnate dell’industria per ottenere soldi e privilegi.
Questo ho pensato piangendo le vittime ignare di Parigi, sapendo amaramente che sarebbero state vittime inutili. Come i morti delle Torri gemelle; come i morti di Madrid, Londra, Sharm-el-sheik, Aleppo, Mossul, e tutti i morti inutili che sono stati cancellati dal mondo in questi anni nel nome di un conflitto che non capisco, che non condivido, cui non so partecipare. Un pensiero inutile, il mio, come quei morti.
Perché poi, a partire dal giorno dopo, mi sono trovato sommerso dai commenti, dalla banalità della paura e della autoaffermazione di sé. Con quel rosario di idiozie che io (come chiunque) sono stato costretto ad ascoltare. Noi che abbiamo dichiarato guerra all’Islam. Noi che abbiamo attaccato l’Iraq per il petrolio. E le ragioni degli arabi. E il terrorismo israeliano. E il disagio delle banlieue. E le lobby militari occidentali. E l’11 settembre non esiste. E aveva ragione Oriana Fallaci. Noi che abbiamo portato la guerra nel mondo. Serve più intelligence. E l’Islam moderato. Noi che vendiamo le mine antiuomo all’Isis. E gli Usa che finanziano il califfato. Sì. Viviamo un drammatico tempo di slogan: la complessità del mondo occupa più di centoquaranta caratteri. Cominciamo con il dire questo. E con il dire che io non ho venduto alcuna mina a nessuno. I miei amici americani non hanno finanziato alcun califfato. Che Oriana Fallaci ha dato sostegno ideologico a chi ha travisato la storia (certo George W. Bush, che Dio lo giudichi per le sue responsabilità) dando corso al più drammatico dei bluff di partito. Che il disagio delle banlieue è almeno pari a quello di un’intera società – l’Occidente – messo in mora dalla naturale immoralità del Capitalismo che la democrazia non riesce più a correggere sufficientemente. Che le mie ragioni hanno almeno lo stesso peso delle ragioni degli arabi. Che se la questione è quella del reciproco rispetto esso, come dire?, deve essere reciproco. E smettiamo con il vecchio vizio fascista (questo sì, purtroppo, sommamente occidentale) di confondere la parte per il tutto: è solo un modo per scaricare le responsabilità anche su chi non ne ha.
Tutto questo mi ha offeso, a partire da sabato scorso mattina. Le chiacchiere. Le tifoserie: Oriente Occidente come Roma Lazio, Inter Milan. Il mondo è drammaticamente più complesso: chi spara sugli innocenti riuniti in un teatro a sentire musica proprio questa complessità nega e cerca di uccidere. Esattamente al pari di noi altri idioti che abbiamo compresso i nostri principi in centoquaranta caratteri di cazzate. La nostra forza è nella tradizione di Goldoni e nella nostra capacità di contestarla, di criticarla: ma perché a un certo punto abbiamo cominciato a preferire la semplicità? Da quel giorno, siamo diventati un bersaglio semplice.