Alberto Fraccacreta
Da Sant'Angelo in Vado a Città di Castello

Stranieri di noi stessi

Vuoti dell’anima, diktat dell’economia, spettacolarizzazione dell'Io, dimenticata percezione della Bellezza... Riflessioni sui reali “mandanti” di morti tremende e inutili come quelle recenti di Ismaele Lulli e Lamberto Lucaccioni

Sant’Angelo in Vado è un ridente paese interrato nell’alta valle del Metauro, fiume che nel 207 a.C. sembra abbia accolto le spoglie del generale cartaginese Asdrubale Barca, fratello di Annibale, caduto in battaglia – secondo la ricostruzione storica – nei pressi del guado di Serrungarina. Sant’Angelo è nota per la contesa a “patria del tartufo bianco” con Acqualagna, altro borgo nella provincia di Pesaro-Urbino, situato però alle spalle della Gola del Furlo, lunga la via Flaminia.

L’omicidio del giovane Ismaele Lulli ha tolto definitivamente a tali luoghi il sigillo delle amenità. Non è certo questa la sede per entrare a cuore duro nelle maglie del delitto, riportando particolari scabrosi o proclami populisti; resta tuttavia immediato associare la tragedia vadese – per la famiglia, per la città, per l’Italia intera – a quella del sedicenne Lamberto Lucaccioni di Città di Castello, morto al Cocoricò il giorno prima per aver ingerito ingenti quantità di ecstasy: due analoghi casi di vuoto nella gioventù.

Il pressoché totale asservimento della società cosiddetta civile ai diktat dell’economia, la noia dell’abbandono e la ancor più deplorevole incapacità di guardare all’incanto e alla bellezza sono i mandanti reali di questo “regime infernale quotidiano” dei nostri giorni, un bollettino di guerra nello stato ordinario delle cose, il quale conta vittime innocenti a qualsiasi latitudine, dall’America all’Oceania, e non ha un centro propulsore visibile, riconoscibile, centro accaparrato di quell’ideologia del male contro cui poter scagliare sfoghi e invettive, contrattacchi e resistenze. Il dispotismo decentrato del quotidiano è una malattia incalcolabile, forse incurabile, nei confronti della quale non pare nemmeno lontanamente possibile difendersi: la percepisci, ma non la vedi; dorme e ha i radar del pipistrello. È una bolla d’aria che presto si buca e sparge sangue, una bocca digrignata a distanza. È il vuoto dell’anima, spesso celato in famiglie o consorzi umani definiti “normali” (ammesso che esista il metro di una normalità), incapace di provare qualsiasi emozione di verità, disgiunta fortemente dall’esperienza del sacro, dalla trascendenza e dalla comunione con gli altri esseri. È dentro di noi, nel nostro dilagante nichilismo ultramoderno.

Dalla ricostruzione del caso Lulli emerge non soltanto l’irrisorietà del movente, ma anche l’incoscienza, quasi l’ignoranza di ciò che si andava a perpetrare. Un omicidio consumato così, senza il minimo nesso o appiglio a un sistema di pensiero comprensibile nella sua pur spietata follia, come nei videogames. Si vive una realtà virtuale, dunque, nella quale si può agilmente passare il pomeriggio al fiume o decapitare un amico senza che sussista non dico il limite invalicabile tra azione e non azione, ma almeno il discernimento di una differenza.

La rimozione del senso di colpa, teorizzata dall’amor fati nietzschiano e da taluni aspetti della psicanalisi freudiana, ha prodotto un annientamento dell’atto a servizio della coscienza intenzionale del soggetto e non più delle emanazioni di potere che si facevano portavoce di simili conseguenze filosofiche per sfidare i tasselli morali privilegiati dalla tradizione. Si ammazza nel nome di niente, non avendo piena cognizione di cosa sia e a cosa conduca un gesto efferato.

Non esiste, a mio avviso, un significativo caso d’immigrazione, se non nell’interiorità: i giovani di oggi sono immigrati di se stessi, migranti dalla tensione al lavoro, all’amore, al Bene, alla commozione. Gli stranieri siamo noi nei confronti della nostra umanità perduta. Siamo apatici, immobili, “statue nel meriggio”: il Meursault di Camus che vegeta sprovvisto di un interesse o un intenerimento del cuore. Vagabondiamo abbagliati: la moda di incasellare sette lingue e non conoscerne a fondo nessuna, l’etica senza morale, la moria del viaggio come scopo e oroscopo radicale della vita, il cancro della spettacolarizzazione dell’Io nelle sue forme più oscene, il verme della tecnica e delle relative sventure, il mito demenziale dell’idea di progresso nell’uomo che è pure un essere le cui reazioni e aperture mentali sono spesso imprevedute, ci soggiogano. Dinanzi a ciò non si può che provare un senso di pietrificazione.

È possibile una svolta? Forse sì, riportando quegli stranieri dell’anima che siamo diventati alla patria della bellezza e della purezza. Al pensiero vivido della Bontà quale sintomo di stato originario, di praxis nell’arte trascendente dell’umiltà. Le scuole e le università hanno un ruolo preponderante nella reazione all’abbruttimento interiore di questa serva Italia. Senza contare che abbruttimento interiore è sempre sinonimo di laidezza esteriore. Il male illividisce persino i lineamenti del viso.

Ridate indietro alla gioventù odierna le Immacolate di Murillo, la Nike di Samotracia, la letteratura praghese, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Bergman, Bach, la nostalgia lirica di Čechov, le vetrate gotiche, l’Aminta di Tasso, Grimshaw, San Francesco, il canto del pettirosso, l’allegro zampettare del merlo, la ricchezza della lingua italiana, la preghiera, l’amore come agape, la poesia. Non basta darle in pasto o mercificarle, bisogna educare a esse. Dostoevskij dice a ragione nei Demoni: «L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui».

L’incanto deve insegnarci che non possiamo mai essere rigidamente noi stessi, ma abbiamo il compito di impegnare il sé a un’ipotesi di cambiamento e di perfezione interna, a più miti posizioni nel confronto con l’alterità sino a colmare gli spaventosi attimi di buio che rechiamo dentro, come fossero lo scettro di un re decaduto.

Lui non fu mai rigidamente lui

ma un ceppo brulicante

                                     di ogni vita

immaginata vissuta

futura passata… Eppure

                                   esperto

del male e delle panacee del male

                                                 sa

che a un punto irrevocabile

del suo peregrinare lo dirà:

«inchiodami alla croce

della mia identità

               così come fu fatto

               per te e per la tua

               da cui prende dolore

               e senso ogni crocifissione

ciascuno ai bracci della sua persona».

Sì, infine, lo dirà:

«se inevitabile si compia».

Lo dirà, ne è certo, lo dirà.

Mario Luzi

(Da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini)

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