Al confine con la body art/1
Quei corpi disegnati
Si chiamano Riae, Lilith, Stella di Plastica, sono modelle. Ma non nel senso tradizionale: costruiscono e tatuano il loro corpo per renderlo opera d'arte nelle mani dei fotografi
I giorni in cui, nell’imbattersi in una persona che esibiva dei tatuaggi, il primo pensiero era quello di attraversare la strada per evitar guai, sono ormai ben lontani. A colpi d’inchiostro, infatti, disegni, simboli, date e nomi abbelliscono (o abbruttiscono, a seconda dei casi, peraltro non rari) il corpo di un numero sempre maggiore di persone: la moda ha preso piede e s’è sostituita alla volontà comunicativa in senso stretto, e l’idea di appartenenza a una comunità ristretta che il tatuaggio veicolava un tempo s’è persa forse per sempre. Ma tant’è. Se si procede a ritmi così sostenuti, non è difficile immaginare che tra mezzo secolo nel mondo occidentale saranno di più i tatuati degli, chiamiamoli così, “implumi” (lo si dice, beninteso, nel modo più avalutativo possibile): intanto però, in questi anni di boom e di crescente accettazione sociale, c’è un ambito professionale nel quale i tatuaggi sono particolarmente richiesti, ed è quello delle fotomodelle. Dopo che il fenomeno si è consolidato all’estero, anche in Italia è arrivato il momento di quante, in termini generali, possiamo definire “alternative”: numero e stile di tatuaggi variabili, spesso accompagnati da piercing e dilatatori ai lobi delle orecchie e da una chioma variamente colorata, età (approssimativamente) tra i 20 e i 30.
«Ho iniziato a posare nel 2007 per il sito “Suicidegirls”, per me era un semplice gioco, anche perché fu la mia prima volta davanti ad una macchina fotografica. Non so perché lo feci, forse per mettermi in gioco, ma in ogni caso non immaginavo che sarebbe accaduto tutto questo qualche anno dopo»: il «tutto questo» di cui parla Ria E. Mc Carthy, in arte Riae (nella foto qui accanto), lo si può riassumere nel fatto che da oltre un lustro è la modella alternativa italiana più famosa e ammirata, e lo è anche (se non maggiormente) ben al di fuori dei confini nazionali. Diciamo pure le cose come stanno: nel suo genere, Riae è un punto di riferimento per le modelle di ogni angolo del globo. Per metà sarda e per metà irlandese, ha trascorso gran parte della sua vita in Sardegna, dove ha studiato al liceo artistico, «per poi fare i più svariati lavori, dalla produzione di pane carasau alla barista». Finché, appunto, non si è trovata davanti all’obiettivo di un fotografo, e da lì è iniziata per lei una nuova vita. Set in interni ed esterni, luci artificiali e naturali, viaggi su e giù per la Penisola e per l’Europa e parole come “workshop” e “modelsharing” sono il pane quotidiano anche di due sue colleghe molto apprezzate.
Una è la torinese (e torinista) Sara Sonnessa (qui e accanto al titolo), conosciuta anche come Lilith, 26 anni, che concluso il liceo linguistico sognava di aprire un locale ma che, dopo il suo primo shooting, non è tornata più indietro. «Quel giorno non sapevo nemmeno come truccarmi, non conoscevo la differenza tra la terra e la cipria, per intenderci. Sono stata fotografata molto da bambina, ma non era assolutamente qualcosa che mi divertiva. Mi sentivo inadatta, sono sempre stata un po’ un maschiaccio. Ricordo però quanto mi piacque quella prima esperienza da adulta, quanto la trovai rilassante e quanto stavo a mio agio». L’altra è la pugliese Francesca Pellegrini, in arte Stella di Plastica (ma anche, all’occorrenza, Nikita Nervitesi, nella foto sotto), forse la più irrequieta delle tre («Non credo abbastanza in ciò che faccio e dico»). La sua è una storia ancora diversa, a testimonianza dell’eterogeneità delle esperienze di quante approdano all’alternative modeling: «Mi sono formata come ballerina e tutt’ora svolgo l’attività di danzatrice. A posare ho cominciato a 15 anni, quando mi iscrissi in una di quelle agenzie un po’ farlocche, che mi fece fare un corso di una settimana a Milano in cui mi impartirono nozioni di trucco, portamento, posa fotografica, dizione e così via. Lì feci il primo book.»
Qualcuno dirà: si punta tutto su di un look un po’ diverso dal solito, poi si sta davanti a un fotografo che dice cosa fare, si viene truccate e pettinate, e magari quello che non va viene corretto al computer. Insomma, la domanda potrebbe essere: che ci vuole a fare la fotomodella alternativa? «Ogni modella è diversa e dona una parte di sé nella riuscita di una foto. Parlo per me – dice Ria – ma sono dell’idea che uno scatto sia fatto al 50% dal fotografo e 50% dalla modella, e so che potrebbe sembrare un lavoro semplice, ma non lo è. Molte di noi lo fanno con una passione e una determinazione che non ci si immagina, proprio perché non siamo modelle “classiche” e dobbiamo impegnarci e dimostrare che siamo capaci. Inoltre spesso pensiamo noi i nostri set e io, nel mio caso, contribuisco anche con vestiti creati appositamente da me per quelle particolari foto. Poi ognuna di noi ha caratteristiche diverse, sia fisicamente che nel modo di posare, c’è chi ha come punto di forza il viso e lo sguardo, e chi è capace di fare pose degne di statue greche. E a differenza di quello che può succedere per gli scatti di moda, dove è già tutto molto impostato e si deve solo eseguire, noi abbiamo molta più possibilità di mettere del nostro durante il lavoro.» Sara racconta che molti fotografi con cui ha lavorato le hanno rivelato di averla scelta per interpretare la loro fotografia non solo per il suo aspetto esteriore: «Quello funziona per farsi notare, ma credo che l’importante sia cosa c’è dentro “la scatola”, a prescindere dall’epoca e dal luogo in cui ci si trova. Che una modella valga l’altra, poi, è realmente un luogo comune. Ci sono delle attitudini in ognuna di noi, delle qualità, dei pregi e ovviamente quei meravigliosi difetti che ci differenziano una dall’altra, tatuaggi a parte. Credo di essermi davvero innamorata della fotografia da quando ho iniziato a stare anche dall’altro lato della macchina. A me non basta essere nella fotografia, io voglio essere la fotografia. Voglio creare un’immagine che parla, che esprime. Non mi interessa la vana estetica se è priva di contenuto. Non è un segreto che non riesca a plasmarmi su qualsiasi tipo di progetto, per quanto mi sia stata riconosciuta più volte una poliedricità non indifferente. Ma non riuscirei mai a essere “qualcuno” che in qualche maniera non mi appartenga. Personalmente credo che i miei valori aggiunti siano questi, conoscere il mezzo fotografico e soprattutto cercar me stessa in ogni ruolo di cui vesto (o svesto) i panni.» A proposito di attitudini e qualità individuali, Francesca ritiene che il motivo per cui i fotografi la scelgono per i loro progetti «è per le doti di ballerina. Sono l’unica del settore, e finché non arriverà qualcun’altra più bella, più brava, più giovane… Se non avessi tatuaggi sarebbe lo stesso, o forse sarebbe meglio.»
L’Italia, dicevamo in precedenza, sta conoscendo relativamente da poco un fenomeno che all’estero era già ben consolidato (Ria: «Il fenomeno delle alt-model si è affermato con internet low-cost. Ormai non ci sono più differenze tra i diversi continenti. Se una cosa ha successo in America, dopo qualche giorno diventa di successo o alla moda anche in Italia. Prima non era così, quindi anche le modelle tatuate erano una cosa di nicchia, che potevi trovare al massimo sulle poche riviste di tatuaggi. Credo che come per ogni moda, anche tutta questa attenzione mediatica passerà: se ora è il momento delle alt-model tra qualche anno non lo sarà più. Per questo si deve pensare di costruire un futuro che non dipenda dal farsi fotografare per via dei tatuaggi, e sopratutto non riempirsi di tatuaggi per tentare di diventare qualcuno perché, passata la moda, la pelle è solo una»). Com’è la situazione nostrana, se confrontata con quella degli altri Paesi? Francesca: «Per quello che vedo sui portali di fotografia internazionale e confrontando il livello professionale che conosco e vivo personalmente, direi che fuori dall’Italia la fotografia sia un po’ più costruita, magari tecnicamente più forte ma poco emotiva.» Sara viaggia moltissimo, ed anche per questo ama così tanto il suo lavoro. «Molti lamentano un’Italia ancora troppo chiusa, ma a me viene un po’ da ridere. Fuori dal Paese non ho mai trovato l’oro, economicamente si è trattate in base a quelli che sono i redditi delle persone che ci chiamano, ricordiamoci sempre che noi siamo modelle non commerciali, che quasi mai sono sotto contratto con le agenzie e che spesso posano con chi la fotografia la fa per apprendere e per passione. Io mi sono trovata bene ovunque sia stata, mai ricevute mancanze di rispetto o di educazione. Quando si va fuori si ha comunque a che fare solo o quasi con persone del nostro stesso ambiente, ed è ovvio che sembri tutto più facile.» Ria, da poco rientrata da una trasferta in Sudamerica, non vede grandi differenza tra lo Stivale e l’estero. In fondo, tutto il mondo è paese: «le persone professionali e gentili e quelle che invece non hanno ben chiaro il fatto che devono tenere la mani sulla macchina fotografica e non sulla modella» si trovano a ogni latitudine.
mpossibile non fare un cenno al modo in cui la tecnologia sta cambiando l’arte della fotografia, la sua ricezione, la sua diffusione. Se Francesca è netta – «Io sono un amante delle istantanee e pellicola, non mi piace la fotografia digitale, e sono spaventata da Photoshop e tutto ciò che potrà diventare la fotografia digitale». –, Sara ha una posizione almeno parzialmente più morbida: «La fotografia oggi è sbattuta in faccia alla gente nel quotidiano, come del resto la musica, o l’informazione. Tutto sta cambiando, il mondo non resta fermo. Cosa vedo io? Un progresso incredibile a livello grafico, che oggi permette di fare qualsiasi cosa, ma anche una perdita del valore della fotografia intesa come ricordo (il valore che prediligo, preferendolo nettamente al genere moda). Che ormai anche il cellulare faccia delle foto, è un po’, come dire… spaventoso. È anche vero però che una come me, con la pellicola ed i suoi calcoli, probabilmente avrebbe impiegato almeno il doppio del tempo per imparare a scattare. Magari pure di più. Io credo il trucco sia sapersi adeguare e restar comunque se stessi. D’altronde, la potenza non sta nei mezzi, o negli involucri, ma nel contenuto, come dicevo prima, della “scatola”.»
Se un aspetto negativo questo lavoro ce l’ha è, come si può facilmente immaginare, la sua durata limitata. Ria, a trent’anni, sente che il suo «tempo da modella è quasi finito», ma non pensa affatto di allontanarsi dal mondo della fotografia: «Mi piacerebbe lavorare nell’organizzazione dei set, partendo dalle location alla ricerca dei vestiti giusti.» E non solo: «Oltre a questo, spero di riuscire a lanciare la mia linea di abbigliamento.» Anche Sara pensa di continuare a stare nell’ambiente, pur se in altri panni: «Sto imparando la fotografia, mi sto documentando, sto studiando la comunicazione visiva in varie forme. E sì, sto già lavoricchiando come fotografa.» Francesca, invece, non nasconde la sua curiosa aspirazione: a essere assunta all’Ikea (con la speranza, principalmente, di diventare l’addetta alla prova-materassi).
1. Continua