Un saggio sulle Scritture
Dietro i Vangeli
Nessun libro è più carico di storie, misteri, manomissioni e fraintendimenti dei Vangeli. Pietro Citati ne ha ricostruito la storia e la filologia. Mettendo insieme fede e gusto letterario
Se l’ambizione di qualsiasi libro venga scritto è quella di arrivare a dei lettori, non c’è forse altro libro, nella storia dell’umanità, che abbia raggiunto lo scopo in maniera più trionfale di quello composto – con più di una mano, e per via di omissioni, aggregazioni, agglutinazioni di brani, anche minimi, di originaria parola, così come di essa era rimasta traccia nella mente di chi aveva ascoltato – dagli uomini che vanno sotto i nomi di Marco, Matteo, Luca e Giovanni: i Vangeli.
E per “uomini” vanno intesi, sicuramente, coloro che per primi stesero i testi, in una sostanziale uniformità, circa la vicenda di fondo, ma pure ciascuno con specifiche, e talvolta significative, differenze di dettaglio; eppure, creatori di quei testi, così come arrivano fino al nostro oggi, sono ugualmente tutti gli altri – di cui mai sapremo i nomi – che, attraverso l’oscuro, umile passaggio da una ricopiatura ad un’altra, da una rilettura all’altra, hanno, qua e là, tagliato, corretto, spiegato, integrato: in una parola – come credevano – «migliorato» il testo.
Che si sia trattato anche di una storia di trasformazione, di questi testi, e di attribuzione, perfino a singole microstrutture di essi, di un senso certamente altro, rispetto all’intenzione con cui le parole erano state primamente articolate, fino ad un valore prescrittivo dalla cui lettura dipese l’atteggiarsi di migliaia di vite umane – povertà come scelta, ferocia di esclusione dal Regno, qualunque cosa volesse ormai dire la parola, dei reprobi – e anche di migliaia di umane morti, che si sia trattato, si diceva, di un processo di deformazione del senso originario di tanta parte di queste parole, è cosa intuitiva: poco che si rifletta che erano state dette ad uomini e donne di una precisa, ben individuata e circoscritta realtà umana e culturale (la Palestina del tempo che a Roma era quello dell’imperatore Tiberio), di cui solo quarant’anni dopo, scoppiata e fallita la rivolta, deportati a centinaia i superstiti fuori da Israele, già non rimaneva quasi più nulla.
Risalire all’indietro, e per così dire controcorrente, entro questo procedimento è ormai qualcosa di culturalmente avvincente almeno tanto quanto, a renderlo più difficoltoso, sta il fatto che su quelle parole si è depositata, per secoli, una gromma di interpretazioni, e letture, ed esegesi, e deformazioni di senso. Ebbene, una gran parte del fascino intellettuale di questa difficile risalita la fornisce adesso Pietro Citati, nel suo I Vangeli (Mondadori, 153 pagine, 22 Euro), il cui principale pregio è forse quello di riuscire a rileggere quei testi non tanto con la verginità di un lettore pauperisticamente (francescanamente?) sprovveduto: piuttosto, con la sensibilità di chi abbia ben presente – e riesca quindi ad individuarne la finissima, intricata trama, sotto lo snodarsi del testo – il complesso patrimonio di modi di pensare e, ancor più, di formule espressive in cui vennero materiate le parole dei Vangeli, quelle che Gesù pronuncia, così come quelle che ne tracciano la vicenda, in ciascuna delle sue ormai proverbiali, per tutto l’Occidente, mansiones.
Pagina per pagina, locuzione per locuzione, parola quasi per parola Citati perviene a ricostruire il senso originario, e non solo delle espressioni che in maniera, verrebbe da dire, più ovvia, e fondante («Prendete, mangiate», il Padre nostro, «Beati i poveri»), ci tornano in mente, quale che sia poi stato il corso delle nostre scelte, di distanziamento o di fedeltà: a loro, o meglio al loro essersi fatte ecclesìa; tanto più preziosa, l’analisi, per le altre (le «doglie del Messia», «Guardate i corvi: non seminano…», «Tutto è compiuto») che, rimaste quasi ombrosamentre in disparte, rispetto al fragore della fede innodicamente affermata, ritroviamo adesso con la sorpresa di intenderne per la prima volta le profondità del senso: per lontano e spiazzante, a volte, che possa risuonare, rispetto alla nostra pigrizia di ascoltatori, o frequentatori (chi lo è) abitudinari del culto.