Presentata la rassegna veneziana
Biennale della continuità
Memoria e interdisciplinarità: sono i due vincoli imposti da Vincenzo Trione al suo Padiglione Italia. Alla Biennale Arte quest'anno il futuro dovrà guardarsi indietro e dichiarare le proprie radici
Ecco il padiglione Italia della Biennale. Condensato in una rosa di quindici autori e nel progetto della mostra di bandiera. Ambientata come nelle ultime puntate nel gigantesco capannone in fondo all’Arsenale. E firmata dal curatore Vincenzo Trione (nella foto qui accanto), che a un mese e mezzo dal taglio del nastro, ha presentato nei giorni scorsi il suo cartellone alla stampa. Una tappa importante per valutare che aria tirerà quest’anno a Venezia. Perché di tutte le ribalte nazionali quella del made in Italy è la più corposa e importante, nonostante il peso relativo che il mercato e il sistema dell’arte ci assegna. E perché capire che cosa sta succedendo da noi, il panorama dell’arte che bene o male abbiamo sotto gli occhi rende più facile il confronto con quanto sta accadendo in altre parti del mondo o meglio con la rappresentazione che ce ne offrirà la manifestazione centrale di questa cinquantaquattresima edizione affidata ad un curatore di origine africana che si è fatto le ossa in Occidente, il nigeriano Okwui Enzwezor. E riassunta da un titolo, All the world’s futures («Tutti i futuri del Mondo»), a così ampio spettro che dice tutto e niente.
All’opposto del titolo voluto da Trione, che almeno offre una bussola chiara. «Codice Italia», manifesta e sottopone al giudizio del pubblico un’intenzione più decifrabile. E alimenta sulla carta qualche speranza, perché sono in tanti ad avvertire la necessità di aggiornate definizioni estetiche e d’appartenenza. Insomma il bisogno di un ritorno alle regole su un tavolo da gioco che vale miliardi dove tutti e da troppo tempo stanno barando: artisti improvvisati che sfornano idee come suggerimenti pubblicitari senza preoccuparsi della confezione, altri autori che per ignoranza spacciano per inedito il già visto; critici omertosi che per conservare il proprio lavoro hanno smesso di farlo; collezionisti più attenti all’investimento in borsa che alla qualità; musei pubblici che si adattano a comportarsi come case d’aste e così via.
Due criteri, invece, Trione in questa sua mostra li rende espliciti. Il primo è quello della memoria: nessun autore si muove nel vuoto assoluto, ogni opera d’arte paga dazio alla storia che la precede, che può reinterpretare, maltrattare, deformare se vuole, ma che non può rinnegare e deve conoscere. Vale per ogni artista, ma soprattutto per quelli italiani, cresciuti in un paese di cultura millenaria stratificata, un patrimonio genetico che non può non lasciare impronte indelebili nello sguardo e nel gusto. Come appunto l’arte made in Italy ha continuato a fare anche nel tragitto trasgressivo verso la modernità dal dopoguerra in poi. È un tratto distintivo che Trione aveva già avuto modo di rimarcare due anni fa nella veste di ideatore di una splendida mostra che incorniciava le opere di una dozzina di autori di varie generazioni tra le quinte del Foro romano, a sottolineare la linea di continuità che lega la creatività contemporanea al mondo classico. Che spettacolo e che quadratura di teorema quegli scudi rugginosi di Mimmo Paladino sollevati a sfidare il Colosseo, la Venere degli stracci di Pistoletto rimodellata in scala più grande e incastonata nell’abside del tempio a lei dedicato, il cerchio magico di capitelli, pietre, rocchi di colonna rimontato da Kounellis davanti ai palazzi imperiali del Palatina.
Tra le arcate di mattoni dell’Arsenale sarà meno agevole sfruttare queste suggestioni evocative. Ma forse risulterà più necessario tarare, dettagliare e articolare il messaggio di questo ancoraggio alla tradizione, alla memoria, al vissuto come ponti verso il futuro, passaggi obbligati qualunque siano i linguaggi messi in campo, le aspirazioni d’avanguardia da noi ancora molto forti, le contaminazioni tra generi che oggi chiunque deve mettere in conto. Far toccare con mano che a sprigionare vitalità non sono solo le macerie dell’antico, i palcoscenici dell’archeologia o dei musei. Come appunto Trione spiega di voler fare, chiedendo ad ognuno degli autori selezionati di esporre davanti alla loro opera, che ha invitato a realizzare per l’occasione, una sorta di archivio personale delle fonti e delle basi d’ispirazione che li hanno guidati nel loro tragitto: icone, oggetti, copie di altri artisti, citazioni, reminiscenze letterarie, divagazioni, souvenir di viaggi, insomma tutto quanto ha contribuito a definire il loro particolare modo di rileggere se stessi e il mondo.
Non è idea nuova neanche questa. Ma posso assicurarvi che funziona, apre spiragli anche ai non addetti ai lavori. La chiave migliore per penetrare nell’universo di forme e luci euclidee di un pittore esoterico come Marco Tirelli, mi è stata offerta da una mostra a palazzo Poli in cui il curatore Ludovico Pratesi aveva allestito a fianco a un campionario delle sue opere più recenti un’intera stanza di disegni preparatori, oggetti, icone prese in prestito e rielaborate, stralci di diario. E non è forse un’esperienza analoga a rendere illuminante la visita allo studio di qualunque artista?
Per ultimi i nomi dei quindici italiani prescelti: il duo Alis/Filliol, Andrea Aquilanti, Francesco Barocco, Vanessa Beecroft, Antonio Biasucci, Giuseppe Caccavale, Paolo Gioli, Jannis Kounellis, Nino Longobardi, Marzia Migliora, Luca Monterastelli, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Nicola Samorì, Aldo Tambellini. Una miscela di star incoronate, talenti in attesa di consacrazione, firme da riscoprire come quella di Tambellini, italiano enigrato in America dove è considerato tra i fondatori della videoarte. Omaggi molto partecipati all’arte povera e al primitivismo della Transavanguardia, scarsa attenzione – vizio ricorrente – alla pittura e, sorpresa, a Internet, forte sovrappeso in bilancia per la fotografia e il cinema. Come ogni rosa, farà discutere. E offre appigli alle critiche per qualche inspiegabile esclusione, come quella della scuola di San Lorenzo. Per una distribuzione territoriale mal tarata, che può nascondere una scarsa conoscenza di quello che avviene davvero in tutta Italia: il Sud si ferma ad Eboli, il Nord è troppo incentrato su Torino. E per il rinvio di giudizi sulla generazione degli aspiranti under trenta, cui Trione riserva solo una passerella di contorno a Mestre, dove convocherà i giovani segnalati dalle Accademie. Giusto sottolineare l’intenzione di rivalutare e ancorare alle proprie responsabilità il ruolo della critica, apparsa molto ondivaga e opportunista in questo ultimo decennio. Il pericolo è però quello di precipitare nell’errore opposto: il critico che forzando la mano si trasforma in mattatore , e da protagonista in commedia assegna agli artisti parti stonate, un gradino più in basso.