Viaggiatori interessati/2
Deserto di preghiera
Prosegue il percorso turistico/interiore nel cuore della Tunisia. Dalla moschea di Kairuan alle oasi di montagna: due estremi di un unico controsenso
Domenica lasciamo la costa e l’autostrada e ci addentriamo verso l’interno, destinazione Kairuan, quarta città santa dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme. Gli scarsi 60 chilometri di route national sono una passerella di olivi e fichi d’india, di distese di saliconia (la pianta dei cammelli), di abitazioni isolate e di raggruppamenti di basse lapidi bianche, piccoli cimiteri che sorgono quasi a bordo strada, senza una recinzione né un’insegna.
La prima tappa è ai bacini Aglabiti, quel che resta di enormi bacini idrici costruiti prima dell’anno mille, testimonianza della storia antica di questa città, la cui Medina è patrimonio dell’Unesco. Poi c’è il Mausoleo, con le sue pareti ricoperte fino al soffitto di ceramica decorata a colori vivaci, dove incrociamo un piccolo corteo familiare che accompagna un bimbo alla cerimonia della circoncisione. E infine l’emozione della grande Moschea, anticipata da una grande piazza addobbata come per una festa con fili con bandierine rosse, dove stazionano sparuti venditori ambulanti. Il minareto è possente, il cortile enorme, la geometria degli archi e degli spazi amplificata da una luce bellissima. Alle donne chiedono di coprire il capo e nella sala della preghiera, stratificata di tappeti, arrotolati anche intorno alle colonne, non possiamo entrare. Ma è incredibile come un posto così ampio e imponente mi trasmetta una sensazione di raccoglimento, mi induca a formulare una preghiera a modo mio, un augurio per gli uomini e per il mondo.
La visita prosegue per certe stradine vicine, abbacinanti per il bianco dei muri interrotto solo dall’azzurro degli infissi, dove incrociamo operai che scavano per sistemare tubature e interrompono il lavoro per lasciarci passare, un pasticciere che con cura certosina riempie un’ampia teglia di certi piccoli, tondi dolcetti al miele, un giovane barbiere vestito all’occidentale posizionato come una statua greca di fronte al suo minuscolo negozio, una donna incurvata dall’età e ricoperta di veli chiari che ciabatta lenta in un vicolo stretto. Quando arriva a un portone, s’appoggia al batacchio e attende senza bussare che qualcuno le apra restando immobile, diventa uguale all’icona di Madre Teresa.
Tutto quello che viene dopo è piacevole ma meno emozionante: la visita a un negozio di tappeti bellissimi, la sosta per il pranzo in un hotel che profuma d’antico, il proseguimento del viaggio sulla route national, una sosta tecnica in un bar inaspettatamente dotato di una sala per ricevimenti con un baldacchino degno di Paolina Bonaparte, il panorama di fichi d’India, di olivi, di steppa arida, di venditori di peperoncino (e anche di water) a bordo strada fino a Gafsa e poi fino a Tozeur.
Ora abbiamo superato l’immaginaria linea che divide in due il paese, è come se avessimo passato il Garigliano, siamo a Tozeur, la porta del deserto, città sviluppata e turistica, e stasera -per entrare in tema- abbiamo una cena tipica con spettacolo: danza del ventre, suonatori, equilibristi e serpenti, non manca niente al repertorio. Ma il couscous è buonissimo e per la prima volta dopo tre giorni pasteggiamo col vino, apprezzatissimo anche se è un rosè annacquato.
Il primo impatto col deserto, all’alba del quarto giorno di viaggio, è dato dalle oasi di montagna, per raggiungere le quali abbandoniamo il pullman e il nostro fidato autista (silenzioso e discreto, obbligato da non so quali regole aziendali a stare sempre in giacca e cravatta) e ci dividiamo su jeep 4×4. Il cielo stamattina è bassissimo, si fatica a percepire la profondità del paesaggio, e i colori non esistono, è tutto un amalgama di ocra, di marrone, di verde spento. Penso forse è così che ti ghermisce il deserto, che qui non è quello delle dune appreso dai film, ma è una terra brulla, spazzata dal vento, interrotta da catene montuose, da piccoli palmeti, da cespugli, da un albero triste e solitario. Altri elementi, ogni tanto, spezzano questa visione piatta: due cammelli, una carcassa di animale con le zampe stecchite rivolte al cielo, una casa senza infissi, cumuli di pietre a bordo strada, uomini al lavoro, lo scheletro di un’automobile, i tralicci dell’elettricità, recinti fatti con le foglie di palma che recingono il nulla.
Lungo la strada sembrava di essere soli e invece all’oasi di Chabica incontriamo l’universo mondo. Carovane di turisti che s’inerpicano per il percorso di visita risalendo la gola, il ruscello e le pozze d’acqua tiepida, lungo i quali stazionano i venditori di collane di denti di cammello, di rose del deserto, di foulard da mettere sul capo all’uso berbero, di pietre che spaccate in due mostrano l’anima viola.
All’oasi di Tamerza, e siamo a mille metri, per fortuna c’è meno gente e anche un po’ di sole, che crea ombre nel canyon lungo e profondo e sui resti del villaggio, abbandonato dopo un’inusuale alluvione, alcuni decenni fa.
Ma nel viaggio di ritorno a Tozeur di nuovo la luce s’incupisce e osservando dalla jeep le distese piatte a perdita d’occhio mi spunta potente la voglia di calpestare questa terra rocciosa, di incamminarmi alla ricerca di un dove, di un punto di riferimento e, non trovandolo, di rassegnarmi a sedere nel mezzo di niente, accendere una sigaretta, guardarmi intorno, realizzare che non c’è il sole per capire l’orario, e neppure un volo a rompere l’immobilità del cielo.
Ci vuole una fantasia pazzesca, qui, a immaginarsi i treni cantati da Battiato.
In compenso il pomeriggio ci riporta nel mondo della realtà: visitiamo il famoso palmeto di Tozeur attraversandolo a bordo di graziosi calessini, assistiamo alla raccolta dei datteri senza privarci di degustazione e acquisto, vediamo Chakwak, un terribile inutile museo della storia dell’uomo che si ferma all’avvento di Maometto e facciamo una capatina nella casbah, dove per comprare un foulard e un paio di braccialetti, diamo faticosamente fondo a tutte le nostre abilità di contrattazione. Dal centro della piazza si diparte una bella e semplice luminaria composta di centinaia di fili illuminati che danno la sensazione di essere sotto una tenda dove negozi e bancarelle vendono datteri esposti a montagne e a grappoli, tappeti che però sfigurano al confronto di quelli visti a Kairuan, borse di paglia con la scritta Tozeur. Il negozio più bello lo scopriamo alla fine, si chiama Alef, vende articoli per la casa, biancheria, foulard, borse ed è gestito da due bei ragazzi, gentili e ben vestiti, che non insistono, non hanno l’aria furba, quasi ci intimidiscono con il loro comportamento professionale e ci sembrano gay con discrezione.
Il secondo impatto col deserto, l’indomani, è il lago salato, ovvero l’enorme distesa di Chott el Jerid, una depressione dioltre 5000 chilometri quadrati che a ovest arriva fino al confine con l’Algeria e che incontriamo appena dopo aver lasciato Tozeur diretti verso est. Questa volta c’è il sole e il paesaggio non è indistinto. Il mare di sabbia che attraversiamo è immenso e vuoto, ma si vede un punto, lontano sull’orizzonte, in cui termina e lascia spazio al cielo. La sabbia è compatta, durissima, in alcuni posti scintillante per i cristalli di sale, in altri scivolosa, e qua e la c’è qualche pozzanghera d’acqua sulla quale ci chiniamo a rifletterci, quasi che il nostro riflesso, qui, possa essere diverso. Questo deserto, con questa luce, induce a un’agitazione allegra, eccitata, e a correre e saltare, a chiamarsi per sentire come suona la voce, dentro questa luce. Questo deserto qui mi esalta i sensi, è un contatto con una natura diversa e però assimilabile a quella cui sono abituata. Questo deserto è mare, e come il mare lo temo, ma ne ricavo gioia.
L’hotel di Douz, detta anche la capitale del Sahara, dove arriviamo per il pranzo, è meno moderno e standardizzato di quelli incontrati finora, ha un’architettura arabeggiante e corridoi intonacati di giallo vivo che aprono su piccole corti rigogliose di buganvillee e palme. E si trova a un passo dal deserto di dune che rappresenta la nostra terza e ultima esperienza di deserto, dopo quello di roccia e quello di sale.
Col pullman raggiungiamo una sorta di stazionamento molto affollato da dove partono la maggior parte delle spedizioni turistiche per visitare le dune sabbiose dell’Erg Sahariano. E qui, in una situazione di folklorismo puro, montiamo queste bestie pazienti, questi cammelli altissimi e però stabili, e ci inoltriamo nel paesaggio di curve e dune che in pochi minuti ci circonda totalmente. Sembra lontanissimo l’hotel e pure il campo da dove siamo partiti, sembra lontanissimo tutto a volgere lo sguardo intorno, frastornati da queste curve perfette, dalla forma sinuosa della sabbia, dalle ombre che si fanno sempre più lunghe, dalla luce del sole che si abbassa e acceca. È un’esperienza assolutamente turistica, compresa di foto che trovi già pronta al ritorno a soli quattro dinari, ma è un’esperienza che riesce a toccare qualche punto sensibile, qualche vita già vissuta, che fa desiderare di essere in pochi, una piccola carovana silenziosa che si sposti di oasi in oasi, in un viaggio senza tempo e senza meta.
Allo stesso modo, la cena tipica sotto la tenda berbera, con annesso spettacolo di cavalli e cavallerizzi acrobati, pur essendo un’altra confezione turistica coinvolge tutti e tutti ci ritroviamo a ballare, tra una portata e l’altra, appresso a questo gruppo di musicisti, vestiti di bianco e rosso, non tanto giovani, ma agili e instancabili. Ho ancora nelle orecchie il suono acuto che fanno con la lingua e il ritmo dei loro tamburi, a cui non si resiste, si balla.
2. Continua
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