Manhattan papers/1
Sotto Ground Zero
Viaggio nel cuore della Grande Mela. Cominciando dal cuore sanguinante di Ground Zero, dove il mito prevale sul luogo. Come in molti altri luoghi della città
Per un newyorkese come Bob De Niro il 9/11 è una ferita ancora aperta. «Take a day to remember the day that changed us forever» recita in video. Ricordare. I nomi delle vittime di quel catastrofico evento li puoi leggere, uno ad uno, sul bordo dei due quadrati che sono il memoriale di Ground Zero. Un grande vuoto, con i riflessi di luce dei nuovi grattaceli che rimbalzano tra vetri, pareti, il fogliame verde di alberi cedui, il sommesso vociare di mille persone. Marmo, pietra e acqua. Mille rivoli come le vite perse. Acqua appena increspata sul fondo piatto, piccole dune che scorrono lentamente verso il nulla, il vuoto, l’abisso. E poi il 9/11, il buco nero che ingoia tutto. La “semiologia” architettonica è completa, intensa, di una semplicità devastante. Ha un effetto schiacciante su ogni altro pensiero, dubbio, legittima considerazione, su di una versione ufficiale di quegli eventi che ormai mostra i segni del tempo, come l’intonaco scrostato di un muro. Ma di fronte al “luogo” prevale il “mito” e il sincero sentimento dei newyorkesi. Gente speciale che merita amicizia, sostegno, condivisione. Sono loro la Main Street a cui va dato tutto il nostro rispetto, sono loro la gente comune d’America cui Aron Copland aveva dedicato una “marcia”. Sono loro le vittime. Tutto il resto è la miserabile storia del potere e della politica, uguali ad ogni latitudine, perversi in ogni epoca, bugiardi per loro natura.
Ma New York non è solo Ground Zero. Pochi passi a est e sei sulla Brodway vicino alla Trinity church, elegantissimo nano architettonico paragonato ai giganti vetro e cemento che la circondano. Sentinella morale armata della sola fede. Poi ancora Liberty street dove al 119 il 24 ottobre 1929 si giocarono le sorti del primo grande crack della storia di Wall Street. Il toro è tornato in fondo, di fronte a Bowling Green, parcheggiato in attesa di tempi migliori, ancora accarezzato da mille mani, al centro di mille scatti, lontano dall’arena di un tempo. Ti sembra di sentirle le voci delle migliaia di persone che hanno affollato quei posti, attraverso la storia, tutti immigrati, tutti carichi di speranze, tutti armati di una incrollabile voglia di rivalsa.
A quasi tutti è stata data una possibilità. Agli Hans, Peter e Franz si sono sostituiti George, Edward e Rebecca e poi Antonio, Anna e Ciro fino a Mohamad, Nuray e Putry. A friggere cibo o come broker in Borsa, a vender magliette 10 dollari il paio o impettiti nelle divise di poliziotti o uscieri di grandi alberghi, professori ad Harvard e tassisti cui devi spiegare bene dove vorresti andare (per non perderti). Spesso basta una generazione per passare da un mestiere all’altro, da una condizione sociale all’altra. Da un pranzo a base di sushi allo Standard alle uova e pancetta del chiosco su ruote all’angolo (peraltro molto gettonato anche da chi frequenta lo Standard). Almeno così appare. Quindi impatti in sentimenti nuovi: gratitudine e lealtà. Cose dell’altro mondo. Appunto.
New York è anche una città popolata da pendolari. I commuter spendono almeno 2 ore della loro frenetica giornata seduti (i più fortunati) su di un mezzo pubblico o in piedi (a volte) ad aspettarlo. Hanno imparato a vivere questo lasso di tempo, altrimenti inutile, come fossero a casa. Mangiano, bevono, guardano i loro programmi preferiti sull’Iphone, ascoltano musica, parlano col collega o il compagno di viaggio. Oppure tentano di fare tutte queste attività insieme! Quando ti avvicini al molo South Ferry da Staten Island lo spettacolo della skyline di Lower Manhattan è mozzafiato. Nonostante il vuoto delle Torri gemelle, la città ha ormai ricostruito una sua fisionomia urbanistica e un suo carattere che lascia qualsiasi viaggiatore sorpreso, stupito, affascinato. C’è la forza volumetrica dei grattacieli, fatta non solo di vetro, acciaio e cemento, ma di potere economico, e coesistono anche piccole isole di verde, palazzi bassi di pochi piani, mattoni rossi o intonaci d’annata, piazzette, ristoranti per tutte le tasche, street food da ogni parte del pianeta, per dare un tono bohémienne, alla mano e ricco di “codici” culturali in grado di dire “qualcosa” a chiunque.
La prima lezione che impari in questa megalopoli multietnica è a conoscere le famiglie che l’hanno costruita, fatta crescere, protetta. Ne leggi i nomi nei musei, nelle gallerie d’arte, su targhe e lapidi. Comprendi immediatamente il cambio di marcia, specie se arrivi dall’Europa continentale. Qua le persone, nel bene e nel male, contano. Lo stato federale c’è e dal fatidico settembre 2001 è diventato sempre più invasivo (per gli standard americani) ma deve sempre trovare una buona “scusa”, perché il cittadino americano è costantemente infastidito dalle invasioni di campo. Privacy e libertà sono parole che qua hanno ancora un suono diverso, sempre più debole, è vero, ma che fa ancora la differenza col resto del mondo. E guardando agli Usa che capiremo se la parola “democrazia” ha ancora un futuro. E a città come la Grande Mela se la qualità della vita nelle megalopoli del futuro sarà un sogno o un incubo.
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Le foto sono di Pierre Chiartano