Una mostra al Chiostro del Bramante
Escher, pittore mago
Roma rende omaggio all'olandese visionario che face della pittura e dell'incisione l'arte dell'illusione. Un modo per portare la geometria ai limiti dell'irrazionalità e della follia
A me gli occhi please. È un invito da prestigiatore che richiama e distoglie la nostra attenzione. A rivolgerlo è un autoritratto: un signore allampanato seduto in poltrona, cappelli e barba cespugliosi e spruzzati di bianco. Ci fissa dalla penombra di un interno che sembra aggomitolato su se stesso, riflesso rotante catturato da una sfera che una mano – quella dell’autore o di un suo doppio? – regge nel vuoto, pollice e indice a combaciare con le stesse dita di un’altra mano che si protendono dal quadro appiattendosi contro i bordi ricurvi. Dove guardare: dentro o fuori? Il primo piano o lo sfondo? Nel 1934, a trentasei anni, Maurits Cornelis Escher (1898-1972), olandese, uno dei grandi maestri del Novecento, si è disegnato e si è voluto presentare così, con un vezzo da illusionista, che appare e scompare alla vista, consegnandoci l’immagine di un artista che si confessa prigioniero dei suoi stessi artifici. Un’etichetta di mago della distorsione visiva, spericolato esploratore dei mille abbagli della percezione che ha consacrato la fama delle sue opere, riprodotte, imitate e clonate su ogni supporto, ma ha avvolto in una sorta di prigione il suo nome e la sua complessità d’artista votato a una sola tecnica, quella dell’incisione, malvalutata dalla critica e dal mercato.
Giusto, dunque, per la grande mostra che il Chiostro del Bramante gli dedica e tiene scena fino al 22 febbraio scegliere come copertina di catalogo, manifesto e biglietto da visita proprio questo ammiccante autoritratto da personaggio di spettacolo. Efficace e comprensibile, in questa chiave di forte impatto divulgativo, anche l’idea di mettere a nudo il suo stile, la peculiarità, le radici scientifiche delle sue ricerche visive: trattandosi di un mago perché non svelarne anche i trucchi? Ecco così la mostra arricchirsi di siparietti e giochini di simulazione da aggiornato museo della scienza: pannelli che spiegano appunto come si formano le illusioni ottiche, gli stratagemmi e gli inganni prospettici, le teorie matematiche che fanno da bussola e costellano le incisioni di Escher esposte lì a fianco. C’è un modellino in legno che documenta come sia possibile produrre l’effetto del torrente impetuoso che si incanala in salita in una delle incisioni più note del maestro olandese. E c’è persino un’intera stanza tappezzata di specchi come un labirinto di luna park nella quale penzolano marionette di uccelli stilizzati, simili a quelli di tanti disegni: la moltiplicazione di riflessi e punti di vista offerta come esperienza ai visitatori, invitati esplicitamente a fotografare se stessi là dentro con il proprio telefonino, o a mettersi in posa per un selfie da souvenir in un’altra sala di fronte allo sfondo di un vortice in bianco e nero da film dell’orrore Anni Cinquanta.
Un apparato ludico sovrabbondante che sovrasta e condanna a espediente di superfice il lodevole tentativo dei curatori di affiancare alle opere di Escher quelle di altri maestri coevi, per rimuovere o attenuare l’aura di autore isolato, nato dal nulla, che la sua leggenda da icona gli ha costruito addosso, come il piccolo campionario di quadri di Balla, Luce Marinetti, Dettori, inframezzati lungo il percorso a testimoniare quanto la scomposizione e la frammentazione geometrica operata dai futuristi per catturare emozioni, movimento e paesaggi percorresse strade analoghe Debole, una sola tela poco significativa, la citazione di un De Chirico Anni Cinquanta come anello di una parentela possibile ma a nostro avviso forzata col surrealismo.
Ma per fortuna, a riscattare passi false e cadute di tono, ci sono, tante e ben scelte, le incisioni di Escher. Illuminante il panorama delle prime sale, dedicate ai lavori e ai viaggi in Italia, dove l’artista olandese soggiornò per una quindicina d’anni, prima di essere messo in fuga dall’aria irrespirabile del regime fascista. Girandola in lungo e in largo, spesso a piedi sacco in spalla, collezionando suggestioni e scorci di un paesaggio diversissimo dal piatto e uniforme orizzonte del suo paese, mutevole e sorprendente come l’infinito repertorio di visuali e stilizzazioni geometriche cui doveva ricorrere per abbracciarlo. I paesini della Calabria, dell’Abruzzo, della costiera amalfitana; lo spettacolo della Natura, il senso d’infinito intrecciato all’evidenza sghemba della Storia e della presenza umana: terrazze, scalinate, chiesine arroccate su costoni scoscesi, viottoli, precipizi, prati e colline coltivate. E anche Roma, che Escher disegnava di notte, un lumino in testa per rischiarare i fogli su cui schizzava gli appunti che poi orientavano le sue xilografie: il disegno ridotto all’essenziale per inseguire le pennellate della luce lunare o dei lampioni, i monumenti come fantasmi che emergevano dal buio.
È qui in queste prime incisioni su legno che Escher forgia il suo talento, mette a punto il suo stile. E il suo sguardo che intercetta il vuoto come un fitto reticolo di segni, geometrie sussurrate, direzioni possibili che lo invade, lo struttura, ne rende traducibile la voce e persino il silenzio. Ossessionato da un traguardo che sempre più orienta la sua ricerca: sfondare i limiti delle due dimensioni per rappresentare gli universi di una terza dimensione, dilatando tutti gli artifici della resa prospettica, cavalcando tutte le piste, i paradossi dell’illusione ottica, della rifrazione.
L’infinito come un turbinoso vorticare di forme e segni che colmano ogni spazio. Già folgorato dagli intarsi a mosaico del pavimento del duomo di Siena, dove tiene la sua prima mostra, subirà come un’agnizione l’incanto delle decorazioni moresche dell’Ahlambra. Cogliendo il senso cifrato di quei ghirigori colorati e smaglianti: la sfida impossibile di rendere omaggio al creato, avvicinarne la prefezione, senza infrangere il divieto di rappresentare e dar forma alle Creature e al Dio che le ha generate.
Ma il suo è uno sguardo laico, la sua ambizione d’autore un delirio d’onnipotenza: i tasselli geometrici con cui ricama la superficie piatta del foglio finiscono inesorabilmente per imprigionare figure riconoscibili e poi per restituirgli la vita e la libertà. Le tessere del puzzle diventano corpi stilizzati di rettili, uccelli, omini, cavalli che si staccano dal piano, rivendicano movimento, ne sperimentano l’ebrezza, per poi magari ripiombare nella vita congelata del segmento, della piastrella, tornare pavimento. Come appunto avviene nel pannello lunghissimo di uno dei suoi capolavori: Le Metamorfosi (nella foto sopra). Un gioco di prestigio, come tutti quelli che animeranno il suo repertorio successivo. Una costruzione di mondi paralleli, di universi che si sfaldano in un vorticare di sfere, si srotolano sul modello dei nastri di Moebius, sagomando volti come sbucciando arance, rappresentando interni popolati di chimere e incastri di nicchie riprese da angolazioni sovrapposte. Il tempo rubato da un mutamento di sguardo. Viaggi psichedelici che conquisteranno negli Anni Sessanta il mondo degli hippie, cui Escher deve parte della sua popolarità. Diventerà una sorta di guru questo straordinario maestro visionario. Ma morirà da solo, in una specie di ospizio, continuando fino all’ultimo a disegnare. A fare e disfare con i suoi trucchi da mago prigioni da cui non riuscirà mai ad evadere. Un maestro potente ed inerme.