Piccolo apologo su un'arte sottovalutata
Lezione di danza
Se voi foste una danzatrice e il vostro barista vi chiedesse che mestiere fate, che cosa rispondereste? Ecco l'esperienza quotidiana di chi sceglie il linguaggio immateriale
«Buongiorno, Chris» dico aprendo la porta del bar. «Ciao cara, caffettino?» dice lui con lo stesso tono di sempre. «Grazie» sussurro annuendo, e intanto penso che stamattina sono davvero troppo stanca. «Fammelo un po’ più lungo che ne ho bisogno…». «Hai fatto serata, eh? Si vede dalle occhiaie!» dice Christian sorridendo mentre mi lancia un’occhiata ammiccante. «Niente di quello che immagini, ho lavorato tutta la notte» rispondo secca. Ma subito penso che l’informazione potrebbe fuorviarlo; perché sì, in effetti ho lavorato, ma non sono uscita di casa, non ho aperto il computer, non ho letto, non ho discusso con nessuno. Sono stata semplicemente seduta sulla poltrona a fissare il muro davanti a me. Decido di precisare, per pignoleria: «…Cioè, più che altro ho iniziato a pensare al mio prossimo lavoro».
Il buon Christian è un tipo discreto. Mettiamoci nei suoi panni: non può chiedere ad ogni habitué del bar quale sia la sua occupazione. Però può tentare di indovinarla. Dall’abbigliamento, innanzitutto. E poi dagli orari, e dalla regolarità con cui i suoi clienti fanno capolino al suo bancone. Ma dato che io non ho né una regolarità né un abbigliamento tipico, il buon Christian si sente in dovere di chiedermelo. «Ma tu che lavoro fai?». Maledico la mia pignoleria. Potevo restare sul generico e lasciargli credere di aver scritto nottetempo un’arringa difensiva o aver analizzato bilanci aziendali; avrei evitato il rischio di una conversazione quasi certamente imbarazzante. Ma poi mi rendo conto di quanto sia ridicolo questo pensiero, il mio lavoro è il mio lavoro e a domanda, per educazione, tocca (e pure orgogliosamente) rispondere. E allora, preparandomi psicologicamente al dialogo che seguirà, con un tono inutilmente rassicurante, rispondo.
«Sono una danzatrice».
Alt. Congeliamo la scena e facciamo un passo indietro. Bisogna ammetterlo: noi artisti viviamo una vita difficile. Non mi riferisco al solito luogo comune secondo il quale con l’arte non si sbarca il lunario, cosa piuttosto vera, peraltro. E nemmeno al fatto che l’arte viene considerata più che altro un passatempo. Perché, diciamocelo, le persone “normali” vivono così il mondo dell’arte, come un diversivo alla loro quotidianità. E sebbene siano spesso guidati da travolgente passione, per loro passatempo è e passatempo rimane. L’arte in effetti non serve, non nell’accezione pratica del termine. Serve allo spirito, serve ai sensi, serve ad osservare la meraviglia del mondo, serve a gratificare le attitudini. È per questo che ciascuno di questi “non-artisti”, dopo aver svolto il suo lavoro normale – chi con impegno, chi con preoccupazione, chi con sicurezza, chi con sfinimento, chi con tutti questi stati d’animo contemporaneamente – a fine giornata si concentra sul suo hobby, per staccare la spina e rilassarsi. E allora vai di yoga per percepire il tuo baricentro saldo come una quercia secolare!, vai di mandolino per onorare la memoria del trisavolo cilentano!, oppure acquerelli e pennelli per tappezzare di dipinti le camerette dei figli! O magari traduzione di antichi sonetti dal tedesco al portoghese per gratificare le innate inclinazioni letterarie. Insomma, c’è chi si serve del nostro mondo per rappacificarsi col proprio, esattamente come a noi capita di servirci della normalità per non affogare nei nostri sogni. Quello che invece è frustrante per noi è ciò che ci capita almeno una volta nella vita: ci chiedono «che lavoro fai?» e dopo aver ascoltato la nostra risposta, si sentono in dovere di precisare «sì, ma di lavoro-lavoro che fai?». Ogni volta che ciò accade tento di analizzare scientificamente il ragionamento che ha portato a questa domanda: posto che non sei famosa (perché non ho mai sentito parlare di te) e che la regola generale stabilisce che solo pochi riescono a vivere d’arte, ci sono buone probabilità che tu sia con un piede nella fossa, quindi, a meno che tu non sia una pazza, immagino che tu abbia pronto un piano b.
Ma anche questo tipo di incontro-scontro, con l’esperienza, si impara a non farlo diventare un problema proprio, ma solo ed esclusivamente un problema altrui. Disarmante è invece la relazione con le persone di tutti i giorni. Il salumiere, l’edicolante, la fruttivendola, il bancario, la farmacista, il medico generico. Christian, il barista. Chiunque ci chieda di spiegare il nostro immenso, impalpabile, etereo e immaginifico lavoro utilizzando il misero tempo di girare lo zucchero nel caffè, o di firmare una carta, o di cercare le monetine per pagare il giornale.
Torniamo alla conversazione con il buon Christian. «Sono una danzatrice» rispondo gentilmente, sperando che la sua prossima battuta sia pertinente. «Bello! E che danza fai?», chiede lui con tono sinceramente interessato, servendomi il caffè. Appunto, risposta sbagliata, caro Christian. Apriamo un’altra doverosa parentesi. Danzatore, danzatrice sono termini intellettuali, che presuppongono ricerca innanzitutto, ma anche consapevolezza. Un danzatore ama definirsi danzatore. È un termine molto differente da ballerino, molto più di quanto si possa pensare. Perché? Perché il ballerino riproduce una sequenza, in maniera meccanica, seppur impeccabile, mentre il danzatore fonde se stesso con un movimento e con il percorso che ha fatto per approdarvi, immenso o impercettibile che sia. È ovvio che quindi il danzatore faccia parte del mondo della danza contemporanea. Ma chi è fuori da questo settore non può saperlo. E poi la danza si studia, si esegue, si crea, non “si fa”. Non è mica una pizza o un maglione. E dunque, è generalmente a questo punto della conversazione che un danzatore inizia a guardarsi intorno cercando una via di fuga, come fosse un gatto. Povero Christian. E povero medico, salumiere, bancario. Che colpa ne hanno loro?, mica si può sapere tutto. Io per esempio non ho la minima idea di come si inserisca una cialda in una macchinetta del caffè o come si riconosca una verruca da un gelone. Lo dico senza alcuna ironia, non lo so davvero.
Torniamo a Christian. «Danza contemporanea» rispondo girando lo zucchero nella tazzina con disinvoltura. Nel frattempo spero di riuscire a fargli recepire, con la forza del pensiero, la profondità e la potenzialità analitica dell’argomento che stiamo toccando. «Figo – dice Christian – ma quindi sai fare la spaccata?». Perfetto, il mio tentativo di trasferimento di informazioni per osmosi è stato chiaramente un flop. «Sì ma non… no. Boh, vabbè…», farfuglio e intanto contemplo un inesistente corpo estraneo nel caffè tentando di prendere tempo. La so fare, la spaccata, ma questo che c’entra? Se tu sapessi, se tu potessi capire… Come faccio a spiegarti che non è prioritario saper fare la spaccata? Christian mi incalza. «No scusa, è che io non me ne intendo tanto… Ma la contemporanea… Non è quella coi tutù e le scarpette, giusto? Perché quella è la classica… Voi invece come vi vestite?». Wow, domandona. E come ci vestiamo noi? «Mah… Noi non abbiamo un abbigliamento tipico, dipende da cosa danziamo, spesso si usano vestiti da strada, a volte addirittura le scarpe…». «Ah si, ho capito, fate tutti quei movimenti strani tipo robot e poi fate le piroette sulla testa!». Tutto d’un tratto Christian si è elettrizzato. «No Chris, credo che tu stia pensando alla breakdance» lo riprendo gentilmente, puntandogli contro in cucchiaino. Se tu sapessi, se tu potessi capire che un movimento o anche un’intera coreografia apparentemente di breakdance potrebbe essere in realtà di danza contemporanea. «Ci possiamo vestire anche in tuta, anzi spesso è così».
«Ah ho capito! Tipo quelle tute con i colori fluorescenti! E poi vi mettete anche tutti i bracciali e fate le coreografie quelle tutte un po’…» e qui Christian accompagna le parole con un irraccontabile movimento circolare del bacino. «No guarda, forse tu intendi la zumba» rispondo leggermente a disagio, e ricomincio a mescolare lo zucchero nel caffè. Se tu sapessi, se tu potessi capire che una coreografia di danza contemporanea può essere eseguita da corpi naturalmente, totalmente e irrimediabilmente nudi. Ma no, questo non me la sento di dirtelo. Avrei paura di quello che potresti sottintendere. La colpa è mia che non trovo un modo per spiegarmi. Ci riprovo: «Credimi, l’abbigliamento non è d’aiuto. Cioè, non è quello il punto. È la qualità del movimento che conta, ma soprattutto il significato che quel movimento porta con sé». Silenzio. Rimango col cucchiaino a mezz’aria guardando Christian, che a sua volta mi guarda attonito. Sta per abbassare lo sguardo sul lavandino pieno di tazzine, me lo sento. Eh no, questo no, non posso permetterlo. Mannaggia a me, l’ho disorientato. Provo a semplificare. «Allora, tu prendi la danza classica, quella ce l’hai presente per forza. Tutte quelle ballerine in tutù eseguono movimenti che sono perfetti, giusto? Tutti quei passi hanno un nome, si fanno in un modo preciso e non hanno molta libertà di interpretazione. Nella danza contemporanea invece si cercano linguaggi nuovi, passi diversi, movimenti interessanti, situazioni coreografiche inusuali. Per esempio, non è detto che sia l’uomo a sollevare la donna, ma potrebbe essere un uomo che solleva un uomo…». «Ah ecco, a proposito, ma è vero che tutti gli uomini ballerini son…». No, basta, non voglio sentire altro. È il momento di tirare fuori la formula magica che mi salva sempre. «La danza contemporanea è tipo la danza moderna, ma un po’ più strana, hai capito?». Anche questa volta non ci sono riuscita. Ho perso. Ma la sconfitta non è limitata a questo preciso momento. È una disfatta in senso assoluto.
Ogni mattina il danzatore si sveglia e sa che dovrà raccontare a qualcuno che cosa fa nella vita e che non riuscirà a farlo. Eppure sa che la richiesta di spiegazioni è dietro l’angolo. Dovrebbe piantarla di farsi cogliere impreparato, dovrebbe smetterla di creare il gelo intorno a sé. Perché è questa la realtà: noi danzatori siamo incapaci di raccontarci, siamo troppo presi da noi stessi e dal nostro mondo di alici nel paese delle meraviglie, siamo talmente occupati a tutelare il nostro ruolo di anticonformisti che poniamo un invisibile ma possente muro tra noi e chi vorrebbe conoscerci, vorrebbe, ma non ci riesce, perché siamo noi a impedirglielo.
Prendo il mano la tazzina e la avvicino alla bocca. Christian, leggendo evidentemente lo sconforto nei miei occhi, mi fa: «Beh, dài, magari una volta mi inviti…». Va bene Chris, magari una volta ti invito, temo che né io né te abbiamo capito bene dove, ma vedrai che ti invito. Mando giù il caffè e mi accorgo che non solo è diventato freddo, ma è pure amaro. Ho passato dieci minuti a girare dello zucchero che non ho mai versato nella tazzina.
Tutte le immagini sono dello spettacolo «Cafè Müller» di Pina Bausch