Alla Fondazione Roma
Pro e contro Warhol
Arriva a Roma la mostra che racconta tutta la parabola del padre della pop-art. Un'occasione unica per analizzare il suo vezzo di trasformare la merce in arte. Un gioco del quale lui è stato la prima vittima
Oltre centocinquanta opere selezionate e rastrellate sul mercato da un unico collezionista, il mecenate Peter Brant, con l’attenzione e la caparbietà con cui si può riempire le pagine di un album di figurine, dando la caccia ad ogni pezzo mancante, cercando di colmare ogni vuoto. È questa singolare matrice a rendere l’ennesima mostra su Andy Warhol,(1928-1987), che la Fondazione Roma accoglie al museo del Corso fino al 28 settembre, dopo il gettonatissimo debutto a Milano, se non la più ricca, sicuramente la più completa mai dedicata al padre fondatore della pop art. Gli esemplari dei cicli iconografici che costellano e scandiscono la sua carriera sono tutti, o quasi, allineati in fila lungo il percorso. Dai primi schizzi, che raccontano il suo esordio di illustratore e poi la sua conversione al disegno pubblicitario alla prime coloratissime serigrafie con cui dalla metà degli Anni Sessanta comincia a immortalare in varianti infinite le facce dei grandi idoli della sua epoca. Dalle riproduzioni iperrealistiche dei prodotti e delle confezioni da supermercato ai capitoli seriali dedicati all’effigie del dollaro, alle scene dei disastri stradali, alle sedie elettriche con cui denuncia gli orrori della pena di morte.
Dalla serie di teschi, con cui tenta di esorcizzare la paura della fine, dopo il colpo di pistola che quasi lo uccide, alle gigantografie delle corolle di fiori. Dai ritratti e autoritratti in vari travestimenti su foto Polaroid, che vende a richiesta a cifre iperboliche, ai tentativi, presto abbandonati, di ridare spazio alla materia pittorica che la mostra documenta con una serie di poster di Mao ravvivati da dense pennellate. Dai grandi pannelli in cui camuffa le immagini sotto la pelle maculata di tute mimetiche militari, a quelli in cui sperimenta la tavolozza del caso urinando su una superficie color rame. Fino all’ultima opera della sua vita, stroncata da una banale operazione chirurgica: una riproduzione dell’Ultima cena di Leonardo ottenuta dal calco di una stampa da souvenir, in cui Warhol torna a cimentarsi con i grandi maestri del Rinascimento: mancano le sue Veneri di Botticelli color caramella ma c’è una Gioconda in bianco e nero a riquadri sovrapposti.
Una galleria di icone che è quasi un diario di vizi e virtù del secondo scorcio di Novecento. Un promemoria così accattivante e smagliante che verrebbe voglia di continuare l’impresa, aggiornandolo con altre reliquie da leggenda, magari di altri paesi, confezionate alla maniera e nello spirito di. Come del resto hanno fatto altri sciagurati e sopravvalutati nipotini di Warhol, vedi per tutti Jeff Koons. Se l’arte abolisce il copyright, presta inesorabilmente il fianco agli imitatori senza pudore: era già successo a Duchamp. Warhol se l’è meritato: nonostante il suo notevole talento è stato, in fondo, un cattivo maestro. Un guastatore cui, pur onorando le sue intuizioni da apripista,potremo intentare più di una causa per danni.
Togliendo all’arte ogni aura, la copia che vale quanto e più dell’originale, ha finito per toglierle anche ogni identità. Per mescolare in intrecci perversi i sentieri dell’arte e della creatività: all’autore si può sostituire come lui ha fatto, la factory; al mistero della creazione l’inganno della pubblicità.
Warhol sosteneva di semplificare il linguaggio dell’arte per renderla accessibile a tutti, ma il processo che ha innescato ha finito per renderne irrilevanti le specificità, aumentare lo scarto, anche di comprensione, tra gli artisti di oggi e il loro pubblico. E infine la colpa più pesante, perfezionata in una catena di effetti a pioggia: sulla scia che ha tracciato, l’arte sdogana la merce e il consumo di merci ma finisce per trasformarsi in merce essa stessa. E per mettersi in vendita come merce qualunque. A determinarne senso e valore non è più la qualità o l’intenzione ma il mercato, non il valore d’uso ma quello di scambio. Il traguardo dell’arte non è più la profondità cui può introdurci ma la superficialità dello svago con cui ci intrattiene e alla fine ci annulla. Invece di liberarci ci rende più rassegnati e più schiavi. Per questo Warhol, nonostante l’inflazione degli eventi espositivi che continuano a celebrarlo e la sproporzione delle sue quotazioni, che rivaleggiano con quelle di un Caravaggio, continua a divertirci, ma ha smesso di stupirci. E persino – il destino peggiore per un’icona come lui – di farci rimpiangere la sua assenza.