Memorie di un fan
Vita con Lou Reed
La prima parte dell'esistenza vissuta nel paradiso tossico l'ha divorata in un attimo. Poi la catarsi intorno ai 50 anni, l'incontro con Laurie Anderson e la scoperta del Tai Chi: capacità di godere, serenità e pacifico abbandono risuonano da lì in poi anche nelle sue note. E poi quella stretta di mano alla fine di un'intervista...
Oggi, caro Lou, per quanto mi riguarda non è un Perfect Day. Il prossimo 2 marzo avresti dovuto compiere 72 anni. Senza nasconderli, come sempre. Una ruga sull’altra, una dopo l’altra, come fossero 72 vite. Invece, la vita ti ha lasciato all’improvviso dopo che la scorsa primavera avevi dribblato la fine di tutto con un fegato nuovo. «È stato molto male, stava per morire», aveva dichiarato la tua compagna Laurie Anderson aggiungendo: «Non credo si riprenderà completamente, ma tornerà a suonare nel giro di pochi mesi». E tu, Lou, avevi cominciato a raccontarla, la tua seconda vita: «Sono un trionfo della medicina moderna. Soprattutto per merito del Tai Chi che pratico da anni, mi sento più grande e più forte che mai. Non vedo l’ora di tornare a esibirmi dal vivo e di comporre nuove canzoni. Per connettermi, in un immediato futuro, coi vostri cuori». E invece.
La prima vita, caro Lou, te la sei divorata in un attimo quando avevi 25 anni e intonavi I’m Waiting For The Man ed Heroin nel paradiso tossico dei Velvet Underground. La seconda, te l’ha restituita David Bowie: avevi 30 anni, pensavi di essere arrivato troppo presto al capolinea e Ziggy ti ha sussurrato hey honey, take a walk on the wild side. Ne avevi 31, quando con Berlin ti sei viziosamente lasciato smarrire, nei sensi e nell’anima. 33, quando con Metal Machine Music hai annichilito tutto ciò che fino a quel momento era rock trasformando la tua vita in un ossessivo, claustrofobico feedback. A 34 anni, all’improvviso, ti sei tramutato in un atipico crooner palpeggiando con Coney Island Baby melodie purissime; e hai di nuovo azzerato tutto nella sublime stupid music di Rock & Rool Heart. E com’eri cinico e “punk”, trentaseienne, al Bottom Line di New York, quando come un Lenny Bruce dei bassifondi hai sadicamente torturato il tuo repertorio infilandolo dentro Take No Prisoners. I tuoi 37 anni, invece, li hai festeggiati al rintocco di The Bells mentre il trombettista Don Cherry tinteggiava di jazz il tuo umore nerofumo.
Gli anni Ottanta, Lou, non hai fatto altro che calpestarli e dimenticarli come una muzak qualsiasi. Eppure, due fiori maledetti sei riuscito a coglierli: The Blue Mask, che ti ha scaldato (e mi ha scaldato) il cuore; New York, che ha narrato la tua città e la tua stessa vita. Poi, a 50 anni, quell’esistenza vissuta sul filo del rasoio si è contrapposta alla morte di due fra i tuoi più cari amici. Ed è stata la catarsi di Magic & Loss. E avevi compiuto da poco 54 anni, quando ti ho finalmente intervistato. Assaporavi con gusto la godibilità di Set The Twilight Reeling ed eri finalmente sereno. Alla fine dell’incontro, stringendoci la mano mi hai detto: You’re a good guy. Laurie Anderson, poi, è riuscita a scalfire il tuo cuore di pietra riempiendolo d’amore. E tu, insieme a lei, hai raggiunto l’Ecstasy nel dolce abbandono di un Rock Minuet danzato a 58 anni.
O bianco, o nero. Niente mezze misure, nella tua vita e nella tua carriera. Sei transitato, nel volgere di otto anni (ne avevi 61 e poi 65 e poi 69) dalla spoken-word di The Raven (immedesimandoti nella prosa dark di Edgar Allan Poe), ai suoni ambientali di Hudson River Wind Meditations devoti al Tai Chi. Fino all’ultimo, incompreso gioiello di due anni fa: Lulu. L’ennesima walk on the wild side giostrata coi Metallica. Addio, Lou. Voltandomi indietro, non posso che dirti grazie. Hai dato un suono (forte, dolce, commovente, urticante) alla mia, di vita.
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