Uno spettacolo da non perdere all'Argentina
Il sospiro di Edipo
Mario Martone propone al Teatro Argentina «La serata a Colono», capolavoro di teatro "poetico" di Elsa Morante scritto negli anni Sessanta, con una grande interpretazione di Carlo Cecchi
Che fine fa una tragedia, nel Novecento? E ha ancora senso farla? Deve esserselo chiesto Elsa Morante, quando decise di riscrivere a proprio modo Edipo a Colono di Sofocle: s’era alla vigilia del Sessantotto e ciò è sorprendente. Mentre lo è meno (sorprendente) che per andare in scena quel testo abbia dovuto aspettare quarantacinque anni: solo ora Mario Martone è riuscito ad allestirlo con Carlo Cecchi. Ma ne è venuto fuori uno spettacolo da non perdere, per un monte di ragioni.
Elsa Morante immagina il vecchio Edipo reincarnato (come in un’ossessione paranoica) in un piccolo proprietario terriero che all’inizio degli anni Sessanta incontriamo nella corsia d’un ospedale psichiatrico. I medici pensano che sia matto perché s’accusa di colpe non chiare al punto da essersi accecato. Gli è accanto la figlia che lui chiama Antigone e che è sicuramente l’invenzione teatrale più felice della Morante: perché parla una lingua burina inventata, poetica, senza punteggiatura e tempestata di relative che cominciano con “che…”. Un esercizio di maestria teatrale da restare allibiti, considerato che Elsa Morante non ha mai scritto (altro) per il teatro (e Antonia Truppo, che qui le dà voce, è una delle sorprese più felici di questa messinscena). Intorno ai due, i medici e i paramedici svogliati, nel delirio di Edipo accecato assumono (anche) le sembianze di Creonte e degli dei ostili. Mentre in platea si aggirano altri malati di mente, urlanti, vocianti, i quali piano piano si costituiscono in Coro, prima facendo eco a Edipo, poi diventandone interlocutori diretti sulla scena.
E infine c’è Edipo/Carlo Cecchi, naturalmente, che Mario Martone ha legato a una barella e buttato in questo antro d’ospedale tempestato di neon e lampadine gementi minuscoli bagliori di luce: la sua è una maratona poetica (per molti versi straordinaria) che ha fine solo quando una suora/Ismene/Giocasta (Angelica Ippolito) gli fornisce una dolce morte. È la liberazione finale dal dolore. Perché di dolore si parla, e di nient’altro, come in fondo anche in Edipo a Colono, il testo fra i più ambigui e affascinanti di Sofocle. Si parla del dolore fisico per la vista perduta, certo; del dolore interiore per la vita resa inutile dal destino, certo; ma anche – proprio seguendo il filo di Sofocle – del dolore che si prova per l’impossibilità di prendere in mano il proprio destino. Il vecchio Edipo del poeta greco questa rabbia urla a Creonte: non aver potuto nemmeno assumersi la responsabilità dei propri orrori, perché altri li avevano prestabiliti per lui! Ed è questo il tema che più affascina Elsa Morante.
Ecco perché è davvero sorprendente che questo testo sia stato scritto alla vigilia del Sessantotto. Perché Edipo qui è l’individuo che vive la tragedia della dissoluzione della propria identità singola; un uomo finito, cosciente della sconfitta che ha subita da parte di quell’ambigua invenzione del Novecento che è stato l’individuo-massa. «Non so più se sono la mia memoria o la mia premonizione di me stesso», dice Edipo: ed è la certificazione che l’uomo in quanto individuo non ha più senso. Anzi: esattamente questa agonia qui si rappresenta. E – appunto – che ciò accada nel Sessantotto (anno dell’esplosione delle identità collettive) ha un valore politico notevole. Tanto più che Elsa Morante non nasconde l’idea che in qualche modo il suo Edipo possa essere considerato un antenato di Cristo, tali e tanti sono i riferimenti evidenti alla simbologia cristiana. Ecco, questa è la lezione (bella, ma molto severa) che Mario Martone e Carlo Cecchi ci dànno con il loro omaggio a Elsa Morante: ci impongono di riflettere sul fatto che la realtà è complessa, e che occorrono determinazione, intelligenza e molto spirito critico per analizzarla e capirla. Figuratevi voi oggi quale senso ha una lezione del genere! Oggi che le scorciatoie, soprattutto quelle etiche e critiche, sono legge indiscutibili.
Lo spettacolo in scena all’Argentina di Roma, infatti, non è solo di grande suggestione visiva (e musicale, grazie all’apporto di un tema che Nicola Piovani ha volutamente fatto a brandelli), ma è anche “difficile”; di quella difficoltà che non annoia mai ma sempre sfida l’intelligenza dello spettatore. Ragione per la quale si esce da teatro molto più consapevoli di sé di come si è entrati.