Riletture
Fleur Jaeggy e la perfezione
“I beati anni del castigo” di Fleur Jaeggy è un romanzo tutto centrato sulla ricerca spasmodica della perfezione. Con la consapevolezza della sua irraggiungibilità
Un collegio svizzero, abbandonato nella neve. Giovani donne, dall’infanzia all’adolescenza, intrappolate in un idillio. Un amore, ossessivo, intensamente platonico, come solo il sentimento più spirituale può essere. La follia che abbraccia le affinità elettive, separate dal destino, condannate alla condivisione del mondo con chi questa prossimità senza carne non sarebbe capace nemmeno d’immaginarla. Una scrittura limpida come la prima goccia di sangue che segue il taglio del coltello. Tutto questo è il romanzo di Fleur Jaeggy, pubblicato nel 1990, I beati anni del castigo.
«Aveva qualcosa che le altre non avevano, non restava che giustificare il suo talento come un dono dei morti. Bastava sentirla in aula leggere i poeti francesi, erano scesi in lei, lei li ospitava. Noi eravamo forse ancora innocenti. E l’innocenza ha in sé forse una certa rudezza, pedanteria e affettazione, come se tutte noi fossimo vestite alla zuava». Queste le parole che la protagonista, innominata, pronuncia in riguardo alla nuova entrata nel collegio, Frederique, di cui subisce il fascino irresistibile, a cui diverrà incatenata in un sortilegio da cui non c’è ritorno. La loro amicizia assume le forme dell’amitié amoureuse, ovvero una comunanza di sguardi che raramente si traducono in una carezza, mai in un bacio. Eppure la protagonista rifiuta l’amicizia delle altre collegiali, devota soltanto alla più cara, persa nell’incantamento di cui è vittima ma pure complice, siccome la sovranità di Frederique è da imputare alla visione amplificata che ne ha costruito nel cuore.
«Ci ritiriamo nelle nostre stanze, la vita l’abbiamo vista passare dalle finestre, dai libri, dall’alternarsi delle stagioni, dalle passeggiate. Sempre di riflesso, un riflesso che sembra raggelato sui davanzali. E forse talvolta vediamo un’alta figura marmorea stagliarsi davanti ai nostri occhi: è Frederique che è passata nella nostra vita – e forse vorremmo tornare indietro, ma non abbiamo più bisogno di nulla. Abbiamo immaginato il mondo». Frederique rappresenta il miraggio della compiutezza che supera la sfrenata sottovalutazione di sé, la sensazione di non essere abbastanza che affolla le giornate d’infanzia e adolescenza. Il collegio – questa vita non vissuta – insegna, attraverso la sua rigida ritualità, la «voluttà dell’obbedienza. Ordine e sottomissione, non si può sapere quali risultati daranno nell’età adulta. Si può diventare dei criminali o, per usura, dei benpensanti. Ma un marchio l’abbiamo ricevuto, soprattutto quelle ragazze che hanno passato dai sette ai dieci anni di internato».
Tra le sottigliezze incomprensibili agli adulti, ma giustificate dalla regola del gioco sottintesa nelle dinamiche infantili, il tempo passa facendo avvizzire la loro amicizia, come i foglietti su cui Frederique lascia alla protagonista dei pensieri, in vista della sua partenza dal collegio. «È possibile sentirsi sperduti in un idillio?». I bambini sanno pensare i più oscuri pensieri e l’innocenza interviene a riscattarli, tuttavia, una volta cresciuti, quella tenebra può allargarsi in trauma, talvolta psicosi. Ed è così che il romanzo non termina sull’abbandono di Frederique, bensì su due incontri che riuniranno lei e la protagonista, da adulte; nel primo, nel quale la favorita mostra alla protagonista il suo povero appartamento, contenuto in uno squallido edificio, preceduto da un lungo corridoio di latrine; nel secondo, l’incontro a casa della madre di Frederique, dopo che quest’ultima ha tentato di appiccarvi un incendio. «Dopo vent’anni mi scrisse una lettera. Sua madre le aveva lasciato qualcosa per vivere. Ma ne aveva abbastanza di essere ospite di un manicomio, se continuava così avrebbe preso la via del cimitero».
Ne Gli Imperdonabili (pubblicato postumo nel 1987), Cristina Campo racconta luminosamente la tensione verso la perfezione, la «suprema aristocrazia», riunita negli aggettivi «chiarezza, sottigliezza, agilità, impassibilità.» Leggendo quelle pagine, non è difficile ricordare Frederique, che Jaeggy descrive in questi termini: «Da esteta era la sua calligrafia. Da esteta era il suo disprezzo per tutto. Frederique nascondeva il suo disprezzo dietro l’obbedienza, la disciplina, era rispettosa». La sprezzatura, in Cristina Campo, profetessa del sublime, è naturale risposta al mondo, vittima di un «progresso unicamente orizzontale», incapace della vertigine del sacro, del tutto dimenticata dalle sorti degli uomini. «Offeso oggi tutto questo, rinnegato e distrutto, irritrovabile e pure sempre presente, come la spina avvelenata sotto l’unghia […] Ogni ricordo del tempo celeste sia rimosso […] Poiché si sa che la perfezione è prima di tutto questa cosa perduta, saper durare, quiete, immobilità. L’uomo in meditazione, la donna sulla soglia, il monaco genuflesso, il prolungato silenzio del re».
Frederique viene introdotta dalla protagonista-narratrice con parole che sembrano comporsi nei pochi ritratti disponibili della Campo: «Aveva quindici anni, i capelli dritti come le lame, lucenti, gli occhi severi e fissi, ombrati. Il naso aquilino, i denti quando rideva, e rideva poco, erano aguzzi. Una bella fronte alta, dove i pensieri si potevano toccare, dove generazioni passate le avevano tramandato talento, intelligenza, fascino. Non parlava con nessuno. Le sembianze erano di un idolo, sprezzante. Forse per questo desiderai conquistarla».
Frederique è perfezione, non tanto da intendersi come rarefazione intellettualistica – si tratta, pur sempre, di una ragazzina – quanto più il raggiungimento di ciò che Marina Cvetaeva definisce così: «…l’anima, che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne». Per questo la protagonista ne è catturata: la grazia di Frederique e la sua ferocia infantile sono immagine magnetica del cammino verso qualcosa di più alto dell’uomo, perciò venerarla, amarla, significa per la protagonista essere iniziata alla vita, uscire dal collegio della conformità: trovare sé stessi.
Tuttavia, ad attenderle fuori dalle mura, c’è un mondo in cui, coloro che ritengono la perfezione materia di ricerca e ascesi, sono considerati imperdonabili. L’aggettivo, usato dalla Campo con fine magistero di ironia, è quanto di più significativo possa essere avvicinato ai poeti, di cui William Carlos Williams è portavoce, affermando: «la bellezza è temuta più della morte.» La ragione mondana svilisce quotidianamente la perfezione, perciò chi la insegue diventa imperdonabile, perché smargina dalle regole sociali, il collegio di cui siamo tutti figli: rafforzando il binarismo artista-mondo, separati da una ferita insanabile, destinata a finire nella follia. L’artista, infatti, non trovando il suo posto fra gli uomini, cade nel rifiuto della realtà. La storia è piena di poeti rifugiati in una torre sul fiume Neckar ed anche Frederique infine viene rinchiusa in manicomio. Jaeggy, allora, riallaccia la ring composition con l’inizio del suo libro, che si apre sull’immagine d’un altro grande scrittore, anch’esso rapito dal demone bello.
«A quattordici anni ero educanda in un collegio dell’Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto. È morto nella neve. […] A volte penso sia bello morire così, dopo una passeggiata, lasciarsi cadere nella neve dell’Appenzell, dopo quasi trent’anni di manicomio, a Herisau».
La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.