Diario di una spettatrice
Risorgimento western
Illusione e delusione trionfano ne "L'abbaglio" il bel film di Roberto Andò sul Risorgimento. Grazie anche a Toni Servillo, Ficarra e Picone. Un modo intelligente di mescolare storia e finzione, identità e mito
Il Risorgimento. L’abbiamo studiato a scuola come fosse un favola popolata di eroi, dove i buoni eravamo noi che avevamo un grande ideale e i cattivi gli austriaci, i Borboni e il papa. Il Risorgimento ce lo ricordiamo così, come la stagione felice di un’Italia appena nata in cui tutto era ancora possibile, il meglio ma anche il peggio, un futuro abbagliante di promesse che non si sarebbero realizzate. E ovviamente gli eroi erano tutti giovani e belli, come cantava Guccini, a cominciare da Garibaldi con la barba e i capelli lunghi, un po’ Gesù e un po’ Buffalo Bill, con la camicia rossa e il poncho di Clint Eastwood.
Se c’è un’impresa che è la quintessenza di quella Storia fatta di eroi ancora a cavallo in tutte le piazze italiane e di gente senza nome che per quell’idea di Italia è morta sui campi di battaglia, quell’impresa non può che essere la mitica spedizione dei Mille, quando il Nord scoprì il Sud.
C’è una parola italiana che contiene due significati distinti e non ha equivalente in nessun’altra lingua: l’abbaglio è una luce troppo intensa che toglie la vista (i fari abbaglianti), è il fascino e l’incantesimo (la bellezza che abbaglia), ma è anche l’inganno, l’equivoco, il fraintendimento (prendere un abbaglio). Il regista palermitano Roberto Andò ha scelto proprio questa parola per il suo nuovo film, e non ricordo un titolo più azzeccato di questo per sintetizzare una Storia che tutti abbiamo idealizzato, dimenticandoci che fu anche l’archetipo in cui l’illusione incrociò la disillusione.
L’abbaglio è un film ambizioso e complesso che suggerisce molte riflessioni sul passato e sul presente dell’Italia, più del precedente La stranezza in cui Andò immaginava l’incontro tra Luigi Pirandello e una coppia di teatranti che avrebbe ispirato la messa in scena dei Sei personaggi in cerca d’autore. C’è un evidente collegamento tra le due pellicole: i tre attori protagonisti sono gli stessi, gli sceneggiatori sono gli stessi (Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, oltre al regista) e anche ne L’abbaglio la finzione di due personaggi inventati (impersonati da Salvo Ficarra e Valentino Picone) spariglia le carte della Storia (rappresentata da Toni Servillo) attraverso il registro del comico e del grottesco.
La spedizione dei Mille, dunque. Ricostruita con grande suggestione dalla fotografia di Maurizio Calvesi e dalle scene di massa con adeguati effetti speciali, viene rappresentata dalla notte del 5 maggio 1860 (imbarco dei volontari a Quarto, Genova) allo sbarco a Marsala (11 maggio) e poi attraverso le battaglie combattute dai garibaldini contro l’esercito borbonico, fino all’insurrezione di Palermo e all’ingresso di Garibaldi in nome del re Vittorio Emanuele II. Protagonista reale di questa storia è il colonnello Vincenzo Giordano Orsini impersonato da Toni Servillo, nobile siciliano e patriota, tra i più stretti collaboratori di Garibaldi insieme a Nino Bixio nonché reclutatore dei volontari. È così che la Storia incrocia la fiction: Ficarra è il contadino Domenico Tricò e Picone diventa il giocatore e baro Rosario Spitale, due siciliani arruffoni più interessati a cogliere l’occasione di un imbarco per tornare a casa che a combattere per un’Italia di cui non sanno niente.
Infatti, sbarcati a Marsala, i due diventeranno subito disertori e le loro avventure picaresche si incroceranno con la spedizione dei Mille sui campi di battaglia. «Orsini è il personaggio storico, un aristocratico mazziniano che combatte contro la sua classe in nome della libertà. I due personaggi inventati rappresentano la vita, hanno il cinismo dei siciliani, pensano che niente potrà mai cambiare, ma si ritrovano dentro la grande Storia e fanno la loro parte», ha spiegato il regista presentando il film in anteprima al cinema Modernissimo di Bologna. «Il film è in fondo la storia dell’incontro tra un illuso e due disillusi». Vent’anni dopo, nella Palermo del 1880, le giornate di maggio sono un ricordo lontano e i tre protagonisti si ritrovano in un contesto che è già cambiato e che fa dire al colonnello Orsini: «Stiamo andando incontro a un’epoca in cui a fare opinione saranno gli imbonitori». «Il finale amaro, l’abbaglio appunto, non è un giudizio sull’Italia di oggi», sottolinea Andò, «anche se vedo un paese troppo spesso furbastro che non crede più alla sua grandezza. Se c’è un riferimento al presente, è il pensiero che quella spedizione riunì ragazzi da tutta Italia decisi a trasformare un ideale in azione. I ragazzi di oggi ci credono ancora?».
L’abbaglio non ha solo il titolo perfetto, perfetti sono anche i tre protagonisti collaudati ne La stranezza e che in questo film si superano in bravura. Ma eccellente è tutto il cast, da Tommaso Ragno nel poncho di Garibaldi alla figlia del regista, Giulia, che incarna Assuntina, una suora di non difficili costumi, fino a due attrici che hanno attraversato la storia del teatro e del cinema italiano: Aurora Quattrocchi e Giulia Lazzarini (la rivedo che volteggia appesa a un cavo d’acciaio, era Ariel ne La Tempesta di Strehler, Milano 1978).
Infine i tributi cinematografici che impreziosiscono la pellicola. Con Ficarra e Picone Andò evoca certamente i due antieroi Oreste Jacovacci e Giovanni Busacca de La Grande Guerra di Mario Monicelli, in fondo anche in quel film c’era la stessa amarezza della disillusione. La scena delle vedove che piangono i loro morti è un omaggio al suo maestro Francesco Rosi (nel film Salvatore Giuliano). E la Sicilia dei Borboni è una terra di frontiera che fa dire al regista: «Questo film è in fondo il mio western alla Sergio Leone».