Danilo Maestosi
A Villa Torlonia e all'Ateneo di Roma

Sul ring di Titina Maselli

A cent'anni dalla nascita, una grande mostra in due spazi celebra la pittura di Titina Maselli, grande protagonista della pittura del Novecento. Dalla sperimentazione sul dolore alle metropoli come un ring

Chissà se e come avrebbe festeggiato il traguardo dei 100 anni Titina Maselli, astro luminoso ma quasi dimenticato della pittura e dell’arte al femminile del secondo Novecento, se la morte nel 2005 non avesse spezzato il filo. Scomparsi tutti o quasi i parenti più cari, i conoscenti illustri, gli amici, i pochi amori importanti di slanci, rimpianti e ferite mai rimarginate. Il mondo attorno in corsa verso orizzonti senza fede più alienanti e inquietanti di quelli che aveva attraversato. Ad una velocità che neppure un’artista come lei, allenata a registrarne l’impatto dalla lezione dei futuristi, ma resa analfabeta dall’uso e dagli sviluppi di internet sarebbe riuscita forse a decifrare.

Domande improbabili. Eppure in qualche modo autorizzate dal taglio inedito imposto alla retrospettiva in cartellone fino al 21 aprile a Roma, la sua città natale, per le celebrazioni del centenario. Seconda tappa di una feconda collaborazione culturale tra Comune e dall’Università la Sapienza. Attraverso due centri di ricerca impegnati ad esplorare da nuove angolazioni la specificità della creatività delle donne e gli incerti e dilatati confini del contemporaneo, riallacciando i fili della conoscenza e della divulgazione della Storia dell’arte aggrovigliati dalla fretta di assecondare le mode e le logiche mercantili che dominano il sistema.

In campo cinque curatori dei due fronti: Claudio Crescentini, Federica Pirani, Ilaria Schiaffini, Claudia Terenzi e Giulia Tulino. Due palcoscenici espositivi diversi: il Casino dei Principi di villa Torlonia sulla Nomentana (biglietto a 6 euro) e il museo laboratorio d’arte contemporaneo dell’Ateneo alle spalle del Rettorato (ingresso pomeridiano gratuito).

Le opere realizzate da Titina Maselli in oltre mezzo secolo di prestigiosa e apprezzata carriera sono scaglionate, con qualche giustificata eccezione, in ordine cronologico. Al Casino dei Principi a sintetizzare tutte le tappe del suo percorso. All’Università per dare respiro alle grandi tele che caratterizzano l’ultima fase della sua produzione.

La vera novità, il valore aggiunto di questa rivisitazione sta nella volontà di avvicinarsi all’immaginario di donna e di autrice di Titina Maselli, evitando di lasciarsi guidare solo dai riferimenti e dai confronti iconografici con cui la critica specializzata è abituata a inquadrare i protagonisti della pittura e raccontare la fitta trama di scambi e relazioni della storia dell’arte come un tragitto di sbalzi, crediti, influenze, complicità e premonizioni da un’avanguardia all’altra. Sottovalutando il peso della loro biografia, che ne rende unici i lavori e i voli di fantasia, come è unica la vita, il contesto di rapporti, le prove affrontate o rimosse, vinte o perdute, di ogni uomo, anche la più apparentemente insignificante comparsa della società di massa. Di ieri e di oggi.

Una bussola che ha sempre orientato il modo con cui Titina Maselli ha interpretato il suo mestiere e indirizzato la scelta ridotta all’osso dei suoi leitmotiv. Capiamo più e meglio i messaggi che anche oggi ci lancia, se la lasciamo parlare. E se ascoltiamo come ne parlano e la descrivono gli altri, quelli che le sono stati più vicini. Un coro di voci e testimonianze visive con cui è scritto il copione delle sale, che aprono e chiudono il percorso della mostra al Casino dei Principi.

A partire dal piccolo quadro che ci accoglie all’ingresso. Un autoritratto datato 1948, incluso nella mostra alla galleria l’Obelisco, che battezza la sua scesa in campo. Titina aveva appena 24 anni quando lo ha dipinto e firmato col vero nome di Modesta, poi abbandonato per quel vezzeggiativo che le calzava più calore addosso. Una ragazza che da tre anni aveva lasciato la casa e la protezione della famiglia, per vivere con il marito Toti Scialoja, scrittore e pittore in carriera anche lui, tra tante storie di ore e di giorni, il primo di pochi amori vissuti con passione totale e finiti in naufragio in cui si e lasciata andare, accantonando la sua professata vocazione di donna libera che ha in orrore il ruolo di madre e custode del focolare.

Due anni dopo si separerà, e su quella faccia con cui si raffigura sono già incise con questa cicatrice anche le tracce di altre ferite che verranno, altri fallimenti, altri colpi di testa. Come se su quel volto Titina Maselli avesse scolpito non solo il suo presente ma il suo stesso destino. Certo ormai ha scelto la pittura come linguaggio che la distingue, ma a nutrirla è una narrazione del mondo e di sé, in cui precipitano a frammenti tutte le esperienze che ha accumulato in quella casa di intellettuali – il padre critico d’arte, la madre coltissima che l’ha educata alla musica e al cinema – nella quale tra parenti e conoscenti, ha visto sfilare il gotha della cultura del suo tempo.

La filosofia, la politica, la letteratura alimentano il teatrino di distacco e dolore nel quale ha deciso di esibirsi e distinguere il suo modo di rappresentare i propri conflitti, sospesa tra l’essere e il nulla.

Guardate la pelle del volto immobilizzata da uno strato uniforme e giallognolo steso come un attore fa col cerone per mettere in risalto a distanza le sue espressioni. Un trucco da teatro per recitare tutte le battute, le parti in commedia che si è assegnata e continuerà ad assegnarsi, cambiando registro. A partire da quella maschera di seduzione cupa alla Edith Piaf con cui si presenta sulla passerella d’esordio nel 1948, per arrivare a quella riduzione delle città della società del benessere e delle merci a quinte e fondali di palcoscenico e delle comparse che ne attraversano e ne innervano lo spettacolo come bagliori e riflessi di scena. I leitmotiv sui quali si concentrerà tutta la sua produzione d’artista. Tina Maselli, come attrice, esperienza che farà davvero. E come scenografa, altra strada su cui si cimenterà. A noi visitatori di questa mostra i curatori offrono però anche la possibilità di vederla come la vedevano gli spettatori che l’hanno avvicinata nel tempo, nel variare delle sue mutazioni. E soprattutto i suoi colleghi e compagni di strada pittori. Un calendario biografico meno scontato e più coinvolgente delle referenze iconografiche con le quali la critica ne ha ripercorso e catalogato per posteri il curriculum.

Ci sono i quattro quadretti che coincidono con gli anni del debutto su cui il marito Toti Scialoja, con colate di colori alla Soutine, segue le tracce dei suoi trapassi d’umore. Della sua inquietudine di ragazza cresciuta troppo in fretta, tre slanci di passione e culto della ragione.

Ci sono due ritratti di Gilles Aillaud, il pittore che spiana la strada del suo lungo soggiorno a Parigi fine anni ‘50 e delle sue avventure da scenografa, un periodo di serenità di donna matura, all’apice della carriera, avvenente, capace di gestire anche la sua bellezza, impresso su un sorriso disteso poco usuale per il personaggio. C’è Pietro Guccione che nel ’65 ne immerge la snella figura in una sfocatura da pellicola che ha preso luce, rendendo omaggio alle sue ricerche pittoriche che avevano imboccato proprio quella direzione.

C’è Renzo Vespignani, maestro e pioniere via via più disincantato della nuova figurazione, che a cavallo del ‘68 la dipinge in un alone tragico da eroina del mito, una sofferenza da Cassandra o Eleonora Duse che galleggia tra nubi e vapori liberty alla Klimt. Cogliendo in due ritratti quella maledizione da profetessa della società del benessere, quella femminilità modellata nel bene e nel male dal distacco aristocratico di supremazia intellettuale che si respirava nei salotti della Roma bene e che Tina Maselli si è sempre trascinato appresso. Insieme alla sua anarchia di comunista di fede incrollabile ma restia alle regole di partito.

La stessa misteriosa e seducente distanza in bianco e nero del suo idolo di precoce e incallita cinefila: Greta Garbo. La divina cui negli anni dell’adesione al pop ha dedicato gli illuminanti ritratti fermo immagine che chiudono questo prologo-epilogo introduttivo.

Con queste chiavi fuori ordinanza che i curatori ci hanno lasciato sulla serratura ora noi spettatori siamo davvero più agevolati, più pronti ad abitare, ad interrogare le case che la pittura di Titina Maselli ha arredato e animato. I palcoscenici sui quali si è esibita.

Il primo, quello d’esordio all’Obelisco, apre il sipario su un magazzino di attrezzi di scena immersi in un buio da sogno e da incubo. Fantasmi notturni di oggetti d’uso o da spazzatura che nessuno prima di lei avrebbe scelto come protagonisti. Un pacchetto di sigarette gettato via o dimenticato sul tavolo, un foglio accartocciato di giornale che urla i suoi titoli su un letto d’asfalto, una macchina da scrivere che sembra un monumento ad un romanzo mai scritto, una bistecca bruciata e poco appetibile adagiata su un foglio da macellaio. Una resurrezione artificiale, un’invenzione d’artista ci precisa lo sfondo nero, che Titina ha ricavato stendendo sulle sue piccole tavole una vernice industriale da carrozziere, e distillandone vibrazioni con la sovrapposizione di impasti di colori ad olio densissimi.

Mai vista una pittura così spettinata, sgualcita, lo stesso aspetto sciatto con cui a vent’anni calca la scena: sono gli aggettivi, riesumati in catalogo, che strappa a uno spettatore doc del debutto come Antonioni. Impressionato però anche dal rigoroso impianto concettuale. Perché quella ebrezza trasfigurante nasce da un’operazione dal vivo, ispirata dalle spedizioni cavalletto in spalla in cui Titina si avventura di notte nei quartieri lontano dal centro. Da sola o scortata da amici.

È il trampolino di lancio sulla via di un successo costellato da mostre e occasioni in spazi sempre più importanti. Gli stessi sfondi di buio e di alterate fantasticherie trasferiti ad altri temi. Due quelli su cui Titina finisce per concentrarsi. Il primo guida lo sguardo verso le quinte di palazzi e le ragnatela di attrezzature tecnologiche della città osservate come serbatoi di energia vitale in movimento. Un debito riconosciuto con il futurismo, ma rimodulato – precisa in ogni occasione Titina Maselli – in un transito di emozioni che rinnega l’idea di un progresso infinito della modernità, incanalato in una traiettoria esistenziale problematica e conflittuale, tra essere e non essere.

Il secondo leitmotiv è l’irruzione significante dei corpi, un vigore di atleti rubato all’idolatria popolare delle pagine dei quotidiani specializzati. Pugili, calciatori, ciclisti che le comunicazioni di massa hanno trasformato in divi in un ripetersi di immagini di eterne vittorie. Ma che lo sguardo di Titina Maselli, estraneo ad ogni passione sportiva, riprende e inquadra solo come cavie di una fatica oppiacea e insensata.

Nel 1952 un’altra svolta decisiva. Di carriera e di vita. Titina Maselli lascia Roma e si trasferisce a New York. E non è solo per sganciarsi dal clima di polemiche tra figurativi e astrattisti che infiammano i suoi colleghi pittori, ma che lei ritiene da tempo insensate. È anche una fuga di donna che ha visto infrangersi su scogli imprevisti il suo matrimonio con Scialoja e per togliersi di dosso cicatrici e rimpianti cerca altra aria. Un’altra possibile libertà.

A New York, dove rimarrà per un triennio, troverà un altro compagno, Mario Francisci di Baschi, con cui intreccia la relazione amorosa più lunga della sua vita. È un periodo di feconda serenità, che le consente di immergersi nel flusso di quella città proiettata al futuro. In una dimensione di grandezza che conquista il suo sguardo indagatore. Non ha più bisogno di chiudere gli occhi a fessura per cogliere i fasci di luce che animano le strutture dei palazzi e il movimento nelle strade, basta l’altezza incombente dei grattacieli e il dilagare della pubblicità luminosa.

All’inizio il suo bagaglio di attrezzi e posture mentali è quello che si è portato da Roma: lo stesso via vai per le strade col cavalletto in mano, lo stesso registrare la vita nascosta dietro le finestre, lo stesso sfondo notturno. Ma a poco a poco le frequentazioni degli intellettuali in subbuglio di Manhattan e il salto di scala dei punti di vista cambiano e schiariscono la sua tavolozza, accelerano la rapidità del suo sguardo per isolare e dare voce alle cose e alle forme in transito in quel frenetico laboratorio della società delle merci.

Può essere il muso di un camion che ruggisce, un fremito da nottambuli riassunto da un lampo d’un insegna. Può essere la sfida tra due pugili o un flash su un rugbista, violenza e sfide più significative perché quei corpi, quasi tutti di negri, raccontano una rivincita di paria. Da New York non si staccherà più, anche se la lascerà tre anni dopo per farvi più volte ritorno, negli intervalli di altri soggiorni. È il suo teatro ideale. Un passaporto per una carriera al decollo, benedetta da tutti i critici più in voga costellata di mostre all’estero e in Italia, apparizioni e applausi strappati in una straordinaria continuità di presenza a Biennali e Quadriennali.

A questo punto però il copione della mostra si ingarbuglia e procede a sbalzi scantonando dall’ordine cronologico. Per capitoli tematici, che poi a stringere si riducono ai soliti due: le scene della metropoli e le sfide degli atleti in agone. Difficile cogliere gli scarti di stile che cominciano ad emergere e illustrarne le ragioni seguendo le classificazioni dei critici specializzati. Anche i richiami al futurismo sono invecchiati, tengono meno, svapora la folgorazione per Manet e altri maestri francesi. E cominciano a farsi largo invece le intuizioni che la consacrano madrina della pop art, prima che Titina possa apparire in campo alla Biennale, accanto ai lavori di Warhol e compagni, una scoperta per l’Italia. Anche se a segnare la sua partecipazione è quell’omaggio a Greta Garbo di cui abbiamo parlato, intriso più che di citazioni americane, di echi dei giovani artisti della scuola di pazza del Popolo. I segnali arrivano prima di quel 1964. Più freddi ed elettrici i contrasti cromatici, più sintetiche le campiture e i solchi dei segni, più dilatata la dimensione dei quadri, più coinvolgente, epica la rappresentazione degli eventi sportivi. E bisogna ritornare alla sua biografia per afferrarne il perché.

Tre eventi tra tutti emblematici. Il primo è il lungo soggiorno a Parigi e le esperienze di scenografa che le dischiude. La Maselli non deve solo misurarsi con testi e compagnie d’avanguardia: nelle quinte, negli arredi e nei fondali di scena deve ricorrere a sintesi più incisive. Non nascono per il teatro, ma ne ripetano la lezione, cinque quadri, datati tra il ‘63 e il ‘69, i più fuori asse e intriganti della sala riservata al tema della metropoli e delle sue stratificazioni.

Lo sguardo della pittrice è rivolto in alto verso un cielo solcato di segni ridotti all’osso, tralicci, fili elettrici, riflessi di auto. Un ricamo di bianchi, neri e blu che solca un vuoto di un rosso acceso e improbabile. Fondali di teatro che vogliono accecare, ipnotizzare di rimandi di un esistere intenso ma spossessato, gli spettatori in platea.

Gli altri due episodi rilevanti più meno alla fine di quello stesso decennio. Un avvelenamento da trementina che obbliga la Maselli a convertirsi all’acrilico: più immediatezza ma meno sfumature. E la fine del suo rapporto, già logorato da tempo, con il marito diplomatico. Uno smacco doloroso per suo modo irrequieto di sentirsi donna.

E se fosse lì, in questo tramonto di rinunce e cadute obbligate la chiave dell’ultima inspiegata svolta della sua vita personale e creativa, la fusione su scherni dipinti in cinemascope dei due mondi tra cui si destreggiava, impegnata a ritrarli ma a tener separati? Le pulsioni del suo corpo e destino irrisolto di donna specchiate nello spettacolo selvaggio dello sport. E la sua visione delle città e della modernità costruita da indizi colti al volo tra le strade, i tunnel, i vortici della vita notturna. Una ricerca d’autore sempre tenuta a bada dalla razionalità.

All’età della piena maturità che ha raggiunto ora Titina Maselli decide di far saltare la diga. E mescolare insieme le carte.

La città come un ring o un o stadio di calcio, palazzi e grattacieli come reti da abbattere o in cui rimanere impigliati. In una sfida da supereroi, buoni o cattivi poco importa, che esondano dalla trama di un fumetto. A volte solo ombre minacciose e incombenti che sferrano pugni. Altre volte muscoli che in quel calderone ribollente di finestre accese si dissolvono in danze di spettri.

Uno spettacolo di opere in grandi dimensioni che parte nell’ultima sala di villa Torlonia. E si prolunga nella lunga galleria del museo della Sapienza in un campionario di visioni mozzafiato. Piacciano o meno, non sono schegge di memorie da rimpiangere sotto teca, ma messaggi al presente per tutti i palati. Qualcuno persino di speranza. Come quel ritratto di ciclista, una delle ultime tele sfornate da Titina Maselli: una massa verde di muscoli e una bicicletta verde su rosso fuoco, lanciata in una volata vincente su una pista degli stessi colori. È la controcopertina del catalogo Electa, prezioso contenitore di immagini e testimonianze. Sull’altra faccia del volume quel volto segnato e senza pace della pittrice da giovane che non contemplava questo finale.

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