A proposito di “Piccole morti”
Europa senza nome
Ivana Slajko racconta un viaggio interminabile dai Balcani a Berlino. Me nella storia drammatica di un personaggio senza nome c'è il ritratto dell'Europa intera
«…I tedeschi avevano fatto uscire dalla scuola tutti gli scolari e li avevano fucilati, era una rappresaglia per gli attacchi dei partigiani, la scuola venne bruciata…». «… statistiche degli annegati nel Mar Mediterraneo: nel 2014: 428; nel 2015: 2078; nel 2016: 2897; nel 2017: 1763, e così via…».
L’orrore, l’orrore dilaga. Si svolge, sinuoso e insidioso come le spire di un serpente velenoso; attraversa epoche, paesi. Si insedia nelle coscienze. È il ritratto senza più veli di Dorian Gray del nostro mondo, l’aria mefitica delle efferatezze che, se non compiamo, talora condividiamo, comunque respiriamo, il fardello che ci trascina verso l’abisso.
L’orrore avvolge e permea, dall’inizio alla fine, la vicenda del protagonista di Piccole morti della scrittrice croata Ivana Slajko (Voland editore, traduzione di Elisa Copetti, a cura di Alice Parmeggiani, 128 pagine, 16 euro).
Romanzo breve, teso e spietato. Racconto di un viaggio che è quasi un falso movimento, per l’inerzia esistenziale del protagonista, trascinato dagli avvenimenti più che mosso dalla sua volontà, intrappolato nelle sue contraddizioni. Viaggio in cui la storia personale rinvia di continuo alla storia generale. In cui l’orrore universale si profila già dal disfacimento dell’impero austroungarico, più di un secolo fa.
Deve raggiungere Berlino, questo protagonista di cui non sapremo mai il nome, se pure ne ha uno. È uno scrittore. Si muove dalla costa meridionale dell’Europa orientale, quell’Est passato per la cupa, soffocante sovietizzazione e poi frantumatosi in mille particolarismi, spesso bellicosi. Ha penna e taccuino sempre pronti. Ancora si illude di affrontare, di cimentarsi con la realtà atroce che lo circonda, ma la sua vena è inaridita. Ha un’unica certezza: «Ogni partenza è una piccola morte». Massima in apparenza banale, luogo comune di un linguaggio domestico, ma che qui si presenta come il perfetto suggello della sua esperienza.
La sua avventura inizia a Tovarnik, minuscolo paese della Croazia, grigia stazione ferroviaria crocevia delle massicce ondate di migrazione, provenienti soprattutto dalla Siria; una massa di disperati sballottati senza rispetto, affidati agli umori dispotici della polizia.
Migrante egli stesso. Dalle macerie della sua esistenza. Disgregata la famiglia d’origine: un padre ubriacone che malmenava la moglie e disprezzava fino al dileggio i figli. Fuggiti, madre e figli, da quel nido familiare infetto.
Migrante da un amore che si è esaurito, che è solo reciproca sopportazione, intreccio di false comunicazioni, deriva di una distanza crescente, che riecheggia malinconicamente il distanziamento sociale obbligatorio per la pandemia e il ricordo della Firenze del 1630: «…evitavamo di toccarci, avvicinarci, abbracciarci, sostenerci, la peste era la nostra misura interiore…».
Si muove in un’Europa che cerca di occultare la crisi che l’attanaglia, che ostenta un’unità che è solo di facciata. Che condanna ipocritamente a morte, attraverso sordide acrobazie burocratiche, i migranti perché sono il marchio indelebile del suo fallimento istituzionale e morale.
Lui che ha alle spalle una stagione di manifestazioni, iniziative, lotte, petizioni; tutto all’insegna della speranza di un futuro migliore, che non è arrivato. Guarda a Berlino. Terra promessa. Città della sua infanzia, dove forse spera di recuperare sé stesso, di avviare una nuova stagione.
In letteratura il viaggio è metafora della vita. Di un processo che conduce da una condizione di partenza ad una nuova. In Piccole morti il viaggio è congelato, come il viaggiatore. Scorrono le frasi, i pensieri, i ricordi, le riflessioni; una progressione dal ritmo serrato, reso incalzante da un’interpunzione minimalista (il punto fermo si palesa solo al termine di una lunga, a volte lunghissima, sequenza), da un andamento che si ispira al flusso di coscienza.
Mobile la scrittura. Mentre l’uomo senza nome, al pari di un personaggio beckettiano, occupa la scena ingabbiato in una sostanziale immobilità. Più che dal suo agire, modellato dai suoi pensieri; inerte, immoto. Disteso è un termine che ricorre spesso nella storia. Lui stesso, nelle proprie rievocazioni, si rivede disteso su un letto. Che, per lui, ha assunto la forma di un giaciglio, il rifugio di un animale braccato. Mentre la mente si sposta verso Berlino, dove è dubbio che riesca ad arrivare.
Ivana Slajko, cinquantenne, drammaturga e regista teatrale oltre che scrittrice, ha vissuto e conosce bene la realtà della penisola balcanica. A questa si ispira, ma allarga lo sguardo verso quell’occidente che tanta parte ha avuto ed ha nelle vicissitudini della sua patria.
Nell’uomo senza nome, che affronta la sua personale piccola morte, non è azzardato scorgere un’immagine dell’Europa, un’espressione geografica che si crede ancora grande e si pavoneggia nel ricordo di antichi splendori, intrisi di tantissimo sangue. Velleitaria, crudele verso i più deboli come è prona verso i più forti. Impotente, non più in grado di scrivere non solo la Storia, ma perfino la propria storia, affidata ormai alle mani di altri soggetti.