Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Clemente nomade

Per il ritorno in grande stile a Roma, Francesco Clemente ha realizzato sei tende da accampamento nomade. Ognuna dedicata a un'idea del mondo. Una mostra cui fa da controcanto quella di Piero Ruffo

Sei tende innalzate nelle sale al pianoterra del Palazzo delle Esposizioni. Tende da carovane come se ne incontrano ancora nelle pianure e negli altopiani dell’Asia lungo quella rotta frastagliata che da secoli chiamiamo via della Seta. Rettangoli di sei metri per quattro, sormontati da una copertura a volta alta poco più di uomo. Pareti coperte da tre strati di tela interamente dipinti. Fuori con richiami alle tute mimetiche militari. Dentro con un campionario di figure e paesaggi parlanti.

Così Francesco Clemente, napoletano girovago, 72 anni ben portati, uno dei “magnifici cinque” della Transavanguardia, invenzione di un critico pistolero come Achille Bonito Oliva. Una prestigiosa carriera internazionale partita nel 1970, quando da Napoli si è trasferito a Roma per studiare architettura e iniziare ad esporre i suoi lavori di pittore. E decollata con il trasloco in America e in India. Altre patrie, altri panorami da metabolizzare e altri luoghi di lavoro che hanno accolto e continuano ad accogliere la voglia di dirsi e di contraddirsi della sua Anima nomade. Titolo imposto a questa mostra camping, portata a Roma come una primizia di gran lusso, dopo un paio di tappe inaugurali in altri continenti, e allestita nel padiglione umbertino di via Nazionale, dove terrà cartellone fino al marzo del prossimo anno.

Completata, in collaborazione con il curatore Bartolomeo Patromarchi, dall’aggiunta di un corridoio di bandiere a doppia faccia e di due fascinose sale affrescate per l’occasione con sequenze di segni e colori come opere a a perdere, la mostra fonda il suo richiamo da evento cardine di questa stagione autunnale capitolina, voltando le spalle al copione abituale di una retrospettiva per assumere e abbinare i toni e gli intenti di una confessione personale e professionale e di un manifesto in controtendenza.

Contr’onda non solo in Italia quell’elogio del nomadismo, in un mondo invecchiato e insicuro convinto a mettere al bando, combattere armi in pugno ed espellere dai propri confini ogni forma dì migrazione e d’ibridazione tra popoli e culture diverse. Contr’onda il bisogno proclamato da Clemente di attraversare e costruire ponti fra Oriente ed Occidente, che la geopolitica e il cinismo della finanza sta precipitando in frontiere invalicabili di orrori e guerre spietate. Realtà e incubi del nostro oggi che l’autore non aggredisce in presa diretta, ma allontana in un tempo di fantasia. Un tempo fuori e oltre il tempo che assegna una presenza simbolica remota e perenne a quelle architetture da umanità in movimento prese in prestito dai mercanti asiatici ed esposte qui al Palaexpo’ per spiegarci dove, con quali compagni, con quali fantasmi, ora si trova a misurarsi dopo aver superato il cinquantennio di attività creativa e una soglia d’età sul baratro della vecchiaia.

Sei tende dunque, per cominciare e dare ossatura all’esibizione.

Curioso che in un saggio in catalogo quelle tende che aggrediscono il visitatore al primo colpo d’occhio, facciano venire in mente gli accampamenti degli eserciti barbari che cingevano d’assedio la Roma tardo imperiale. Ma non è certo la paura dei barbari, né il rispetto per le amate rovine della capitale a orientare la scelta di quell’istallazione cosi vistosa ed esotica.

Clemente è un uomo curioso e ironico che ha girato il mondo e messo continuamente a confronto le esperienze che registrava. La sua bussola è stata – lo dichiara nelle interviste che ha rilasciato – la precarietà che segna ogni viaggio e ogni lezione di vita che ne ricavi, impastata con i ricordi e le emozioni che ti trascini appresso.

Lui confessa di aver fatto tesoro del rigore distaccato del buddismo e della religiosità panica e immersiva dell’India, che hanno sempre vistosamente alimentato l’iconografia dei suoi lavori e la sua percezione di se e del mondo, ma senza precipitare nelle derive sbrigative e onnivore del misticismo da figli dei fiori in fuga. Da artista che forse ha sfiorato quella tentazione, Clemente non ha cercato in Oriente una sponda di perfezione al riparo dal continuo irrisolvibile conflitto tra bene e male, tra sensi di colpa e peccati, ambizioni spirituali e incontrollabili pulsioni del corpo. E le opere che porta in palcoscenico sono lì a dimostrarlo.

Più efficace di un manuale di istruzioni per l’uso lo spettacolo di una delle ultime tende dell’accampamento, la quinta, ribattezzata Rifugio. Entri e subito ti inghiotte un vuoto d’oscurità. Nero il soffitto, neri i pannelli delle pareti, lavagne sulle quali spicca il ricamo bianco delle figure abbinate. Strane coppie davvero. I protagonisti sono tutti animali carnivori da caccia, accovacciati nella posa di Budda. Ma tra le braccia sostengono come pargoli adottati e protetti campioni di altre specie che sono le loro prede preferite. Un gatto con un topolino, un gufo con un leprotto, un leone con una gazzella. La posa è rassicurante e armoniosa. Ma quanto può durare questa tregua? Non c’è culto o preghiera che ci preservi dalle perfidie dell’istinto.

Qui il buio è più fitto che negli altri alloggi dell’accampamento, che comunque, senza lampadine, torce o camini accesi, vanno visitati adattandosi alla penombra. Più che case da abitare a me le tende di questo villaggio di visioni al crepuscolo ricordano quegli spazi provvisori montati nelle piazze ad annunciare un paio di secoli fa il Mondo Nuovo con le prime sommarie proiezioni di lanterne magiche, profezia del cinema che verrà, presa in prestito da un capolavoro del tardo Settecento veneziano. Danze di immagini catturate dalla realtà e riproposte come fantasmi a strappare meraviglia.

L’immaginario di Francesco Clemente come una terra di mezzo che un visitatore qualunque può esplorare e gustare solo se si fa bambino, indossa l’abito dello stupore e si lascia trascinare nell’altrove di una narrazione di scene e spunti di trame a singhiozzo. Se osservi le stesse immagini riprodotte in catalogo, la luce che ritaglia con più esattezza i contorni, ti restituisce più informazioni e dettagli ma acceca l’emozione del primo impatto.

È nell’innescare le due fasi e coniugare questo processo dallo spaesamento all’agnizione, il vero colpo d’ala di questa retrospettiva trasformata in una scuola d’iniziazione nomade.

Ecco la tenda della Verità che fa da prologo alla mostra. Se restano in penombra le immagini ti ruotano a ti avvolgono in un’avventura di scoperta. Se le illumini una per una, e le confronti con altri cui ha dedicato quadri del passato ritrovi la modellazione sfocata e ad archetipo delle presenze umane, la sensualità e la poesia ad enigmi delle fughe allegoriche, il gioco di citazioni che hanno scandito dagli esordi la pittura di Francesco Clemente. Una rivisitazione di già visto, che non cancella il fascino delle illustrazioni dei singoli siparietti – l’appeso, la fanciulla che spia una tela di ragno, la ragazza nuda incorniciata dai delfini, la sagoma statuaria e sbrecciata di un faraone – ma ti abbraccia e ti sommerge in un tripudio di rossi e di gialli, in un’ondata di incombente e frenetica carnalità, che ti distoglie dal cercare in quel groviglio di verità d’autore la tua verità di spettatore in transito.

Non so se Clemente abbia mai raggiunto il sereno distacco dei Budda che tanto ammira e qui ha riprodotto in varie icone. E non credo neppure gli si attagli il doloroso sgomento d’impotenza degli angeli caduti, rubato ad un capolavoro di Klee e a una folgorante intuizione di Benjamin, cui ha dedicato un altro dei suoi padiglioni di tela, che raccoglie un brusio di immagini preziose ma non trascinanti. Un talento autentico da grande attore quello di questo pittore. Ma un talento da guitto, sempre pilotato da un io narciso che stravolge di ammiccamenti comici il copione, se la battuta sta scivolando sul tragico.

Forse per questo le tende in cui è più agevole avvertire la molla di verità che guida il suo pennello sono quelle in cui si racconta, ergendosi ad effigie e prendendosi meno sul serio. Come la tenda ribattezzata Museo, scrigno e ambito traguardo d’eternità per la stragrande maggioranza dei suoi colleghi che sbeffeggia, riempiendo le pareti di autoritratti.

Dentro cornici d’epoca dorate come ne trovi al Louvre, ma spezzate per far posto ai suoi guizzi sregolati, lui, sempre lui. Ma un lui che si mette in posa con un orgoglio da Fregoli, cambiando ogni volta maschera e costumi di scena. Ora è un monaco che si sbraccia per sollevare con la mano sinistra una luna e non far cadere un grosso granchio. Ora un gitante in maglietta che tira su una tigre. Ora un guru capellone con chioma e barba infuocati dai vapori di un braciere. Ora un gentiluomo shakespeariano con la gorgiera che strabuzza occhi e lingua appeso a un cappio. È la magia del sorriso quella che impugna per parlarci in un’altra tenda. Quella del Diavolo: lo ritrae, seguendo l’esempi di Grosz come un prestigiatore con i guanti e la tuba, la caricatura di un capitalista.

È comunque il Clemente di dieci anni fa. Qualcosa dentro deve averlo ora cambiato se qui per congedarsi e siglare il suo ritorno a Roma, ha deciso di affidare il suo messaggio di artista a due sale affrescate per l’occasione con immagini destinate a svanire, che scompariranno alla vista e alla circolazione sul mercato. Nella prima, le pennellate inseguono le onde di un mare in tempesta e le oscillazioni di una barchetta con due vogatori che rischiano di inabissarsi. Nella seconda disegnano una selva stilizzata di zampilli barocchi rendendo omaggio alle fontane di Roma. Scene immerse nel chiarore rosato di un inchiostro, ricavato da sangue di blue diluito, che presto, esposto all’aria evaporerà. La vita di un uomo ha la consistenza ingannevole di un sogno, le magie di un artista si disperderanno come le forme di una nuvola.

Un addio o un arrivederci? Comunque un epilogo di sobria e ariosa poesia che strappa incanto. E vale da solo il biglietto.

* * *

Ma questa non è l’unica attrazione che il cartellone del Palaexpo ci riserva. Basta far pochi passi, superare il corridoio dove Clemente ha appeso due file di bandiere dipinte, altra perla un po’ manierata del suo repertorio, per ritrovarsi sul palcoscenico di una seconda mostra, ancora più spettacolare e coinvolgente, sgranata nelle sale di fondo del museo. Quasi un controcanto rispetto a quella che abbiamo appena lasciato. Un altro modo per misurare da diverse angolazioni il tempo che ci fluisce davanti e alle spalle.

Dagli andirivieni creativi e le esperienze nomadi di un singolo uomo del nostro presente, all’avventura epica della specie umana che prende forma tra altre forme di vita che precedono la sua e incide tracce del suo passaggio nel pianeta ancora in gestazione, la Terra, che lo accoglie. Un viaggio inverosimile di un lento succedersi di mutazioni, reso visibile e credibile da un artificio d’artista: l’idea di concentrare quel flusso sterminato di tempo e i suoi sbalzi in un calendario di 12 mesi: ecco così i primi dinosauri spuntare verso Natale e la nascita dell’uomo coincidere ed essere celebrata con i botti di Capodanno.

Partendo da lì, Piero Ruffo, 45 anni, romano, star emergente del panorama artistico internazionale, ha provato a concentrare la sua fantasia sull’Ultimo meraviglioso minuto, prima di questa apparizione dei suoi e dei nostri antenati. E a costruirlo questo scenario di paradiso di sogno disegnando panorami e dettagli come quinte e fondali di un palcoscenico teatrale da attraversare, La terra dei primordi come una splendente foresta vergine, alberi, piante, foglie impressi su strisce di carta e di tela che pendono dal soffitto, e si moltiplicano in un ricamo di gambi, rami, venature sovrapposto con materiali più spessi. Un viraggio in blu per non nascondere il trucco che ha generato quest’alba di vita vegetale. Ai lati una decina di ciotole da orto botanico dove galleggiano, come in una selezione da laboratorio o da museo, schegge di fiori o di frutti di cartone ritagliati, ogni vaso una tavolozza di morbidi colori pastello.

Toccherà all’uomo che verrà e a noi che siamo i suoi eredi il compito di studiare questi relitti testimoni di un universo di forme in continua trasformazione, in parte già estinte, o condannate a sparire se smettiamo di ascoltare le voci e la lingua con cui palano tra loro e con noi coabitanti sopraggiunti a stravolgere col nostro arrogante dominio ogni equilibrio.

Il tragitto attraverso questa giungla si interrompe contro un fondale centrale. Il panorama rosato di rocce e di fenditure di un canyon, su cui l’artista ha disegnato e evidenziato in un nero cupo il profilo ingigantito di un fossile. Quel che resta di una conchiglia, vita animale anche quella, che ci racconta la morte che ha chiuso il suo ciclo, facendola pietra. Insabbiandola contro la carne di quella montagna che ha preso il posto del mare, e si è costruita su un succedersi di strati, un succedersi di vite che scandiscono la presenza, la bellezza e i paesaggi dell’inorganico.

Come dire che Noi uomini governiamo su cimiteri di destini e memorie, solo in apparenza diversi da quelli che onoriamo con croci e recinti e difendiamo da oltraggi e saccheggi eleggendoli ad altari ed emblemi di supremazia della nostra civiltà. E’ il monito, attualissimo per la crisi ecologica che stiamo vivendo e non riusciamo a fermare, che Pietro Ruffo affida ad una seconda serie di lavori, commissionati dal Campidoglio ed esposti ad epilogo della mostra nelle sale vicine. Una cavalcata attraverso il tempo e le tappe biografiche della nostra città, affidata a un susseguirsi di immagini confezionate con la stessa tecnica con strati di carta dipinta ritagliati e sovrapposti.

Anche qui il segno di partenza è quello dei fossili. Creature mummificate. Dalle conchiglie al cranio del Neanderthal di Sacco Pastore, progenitore della specie umana scalzato dall’Homo Sapiens: una sagoma inquietante che l’artista ha appeso a un filo come fa nei quadri seguenti con i monili e le punte di frecce lavorate, simboli di una preistoria della specie che sta diventando storia.

L’ultima sequenza è riservata ai grandi monumenti di Roma, l’arco di Tito, le Mura Aureliane, l’interno del Pantheon, la cupola di San Pietro e altre chiese, Un montaggio di vecchie stampe riprodotte sullo sfondo. E sopra radici e gambi di rampicanti e altre specie vegetali, nati tra le rovine. Passato e Presente. Vita e morte. È l’Antropocene. L’era che stiamo vivendo. Spesso senza renderci conto del peso distruttivo da primattori che ci siamo assunti. Impauriti e offesi dalla nostra mortalità.

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