Diario di una spettatrice
Da Fellini a Salvatores
In "Napoli-New York", Gabriele Salvatores recupera un trattamento scritto da Federico Fellini e Tullio Pinelli negli anni Quaranta e ritrovato miracolosamente. Una favola sull'Italia migrante
Doveva accadere un miracolo degno di San Gennaro perché il “milanese” Gabriele Salvatores si ricordasse di essere nato a Napoli e si decidesse a fare un film che ha a che vedere con la sua città d’origine. In realtà, il miracolo l’hanno fatto Federico Fellini e Tullio Pinelli (il suo storico sceneggiatore), seguendo le vie misteriose che talvolta non appartengono solo alla Provvidenza ma anche al cinema: gli hanno fatto trovare, attraverso il professor Augusto Sainati che insegna teoria e analisi del film all’università Suor Orsola Benincasa, un “trattamento”, cioè il testo che sta a metà tra il soggetto e la sceneggiatura, di ben 58 pagine scritto da loro alla fine degli anni Quaranta, prima che Fellini decidesse di diventare regista. Il libretto stava dentro un baule pieno di scartoffie destinate al macero a casa di Pinelli e il suo amico Sainati ha pensato bene di frugare prima di buttare le carte. Questa è l’incredibile storia che sta dietro il nuovo film di Salvatores Napoli-New York, da domani nelle sale.
Conoscendo questa storia, non sorprende che il soggetto che ha originato la sceneggiatura di Salvatores sia una favola che il regista si diverte a costruire con suggestioni che richiamano il teatro e con effetti visivi che fanno largo uso delle tecniche digitali più sofisticate.
I protagonisti di questa favola sono due bambini napoletani: la piccola Celestina e il suo amico Carmine che la protegge, interpretati da due esordienti di sicuro avvenire.
Tutto inizia con una esplosione nella Napoli appena uscita dalla guerra: un palazzo crolla, Celestina è l’unica sopravvissuta della sua famiglia. La vita dei bambini tra le macerie lasciate dalla guerra e spesso senza famiglia è molto dura e la sopravvivenza impone le sue regole: si arrangiano come possono, dal contrabbando di sigarette al gioco truccato dei mazzetti, mentre nell’aria risuonano le tammuriate rese famose dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Celestina sogna di raggiungere la sorella Agnese che vive a New York dopo aver sposato un soldato americano. I bambini riescono a imbarcarsi clandestinamente su una nave in partenza per l’America, ma vengono scoperti dal commissario di bordo Domenico Garofalo, interpretato da Pierfrancesco Favino. Non rivelo cosa succede dopo lo sbarco, ciò che scopriranno sulla sorte di Agnese e come la favola evolverà prevedibilmente verso il lieto fine.
Presentando la pellicola in anteprima al cinema Modernissimo della Cineteca di Bologna, Salvatores ha sottolineato che il soggetto è stato scritto negli anni a cavallo tra il neorealismo e quella commedia intelligente che racconterà le contraddizioni del paese. In realtà il soggetto sembra appartenere più che a Fellini al “realismo magico” di Vittorio De Sica (si pensi a Miracolo a Milano), con la presenza dei bambini protagonisti di tante sue pellicole. «Quando ho letto questa storia ho pensato subito che non era “felliniana”, non c’era niente di surreale o di onirico, è una favola in tre atti che tratta temi che conosco come il viaggio, lasciare la propria terra», ha dichiarato il regista. «Ma questo non è un film sui migranti, è piuttosto un film sulla solidarietà. In questi tempi pieni di egoismo, rancore, diffidenza, mi piaceva l’idea di realizzare un film che faccia rinascere un piccolo sentimento di ottimismo verso il genere umano».
C’è un appunto di Fellini che ha ispirato Salvatores nelle riprese ambientate a New York: «Napoli la conosciamo ma in America non ci siamo mai stati». Così il regista ha deciso di inventarsi una New York favolosa: la scenografia è costruita fino a 5-6 metri d’altezza, il set dove si muovono gli attori, e poi sono tutti effetti speciali, «usati come Fellini usava il teatro 5 di Cinecittà». Il risultato è una città realistica, ma anche sognata con gli occhi dei bambini.
Il messaggio implicito nel film di Salvatores è chiaro: milioni di italiani sono stati per decenni migranti sulla rotta dall’Italia all’America. Ma non c’è retorica in questo racconto: è una favola quasi natalizia, a tratti un po’ stucchevole, e questo è il suo bello ma anche il suo limite.
Un rilievo: ho una buona conoscenza della lingua napoletana per antica frequentazione col teatro di Eduardo. In questo film una adeguata sottotitolazione aiuterebbe la comprensione di molti dialoghi.