Leone Piccioni
Da domani una mostra a Lucca

Enrico Pea, scrittore d’eccezione

«… Vorrei proporre – scriveva Leone Piccioni nel ’67 – che quando si accenda una discussione sulla narrativa italiana, chi non abbia letto tutto Pea non debba aver diritto a prender la parola in argomento». Ritratto di «uno dei prosatori più grandi che il nostro paese abbia avuto» nel Novecento

Si apre il 23 novembre a Lucca, nella Sala Tobino del palazzo Ducale, la mostra Enrico Pea scrittore d’eccezione. Promossa dall’Associazione Amici di Enrico Pea, resterà aperta fino al 12 gennaio. Il titolo coincide perfettamente con il giudizio che Leone Piccioni nella sua attività di critico letterario ha sempre sostenuto, più volte scrivendone. Come si legge in questo “ritratto” del 1967 dedicato al mitico autore di Moscardino, che per l’occasione riproponiamo (dal volume Maestri e amici, Rizzoli, 1969).

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Di questa stagione in estate, solo dieci anni fa, ma anche meno, fino all’ultimo anno della sua vita terrena (1958) Enrico Pea sarebbe stato, ogni mattina sul mezzogiorno, e ogni pomeriggio dalle 17 alle 20, a presiedere il tavolo degli amici artisti e scrittori, al Forte dei Marmi, al Caffè Roma, sotto il quarto platano, che ebbe qualche anno di notorietà nel nostro paese. Con il basco, sempre con una giacchetta, anche se leggera (a difesa di strascichi di vecchie malattie polmonari, di insistenti e ricorrenti bronchiti), con la sua candida barba, e la sua quiete, gli occhi indagatori e mobilissimi, la sua antica saggezza, conquistata attraverso tante difficili situazioni della vita. Era, nella sua vecchiaia, il periodo più lieto della sua vita, quello estivo al Forte dei Marmi, circondato da tutti i figli e dai nipoti, con tanti amici vicini a fargli festa, i giovani che lui accostava con amicizia, i coetanei stretti a lui da legami assai tenaci (che non impedivano piccole gelosie, qualche stizza, qualche permalosità): e gli argomenti di questi mesi, il Premio Viareggio, i libri che uscivano, qualche iniziativa di premi letterari (a Lerici, sulle Apuane) che lo vedevano magna pars ed entusiastico organizzatore.

Di rado a questo caffè “ufficiale”, al Caffè Roma, gli avresti veduto fare quello che durante tutta la sua vita di scrittore aveva fatto al caffè: scrivere. Un blocchetto di fogli di quaderno, quasi sempre il lapis, e nascevano, su un tavolo tondo di marmo di caffè, pagine, appunti, idee dei suoi libri bellissimi. Superato l’inverno di Lucca, temendone l’umidità, e vivendo in maggior solitudine, salvo la stretta cerchia degli amici cittadini, l’arrivo della bella stagione portava Pea al Forte per due o tre mesi, a suo modo, “di gran vita”. E ne era assai contento. Sfoderava la bicicletta, arrivava in bicicletta (riusciva ad andarci con la sua stessa andatura di pedone, pedalava un po’ dondolando, pensieroso, senza prender mai velocità): la posava agli alberi che recintavano il Caffè, e si sedeva. Invece di ordinare una bibita o un caffè, pareva ordinasse agli amici di venire a sedersi, di venire a trovarlo, e via via, la cerchia delle sedie si allargava, a un tavolo se ne aggiungevano via via altri. Illustri personaggi e tener banco, insieme a lui, De Robertis, Carrà, Longhi, Montale – e tutti gli altri di passaggio: ma nessuno avrebbe pensato di togliere a Pea la presidenza. (Nella foto Pea con Carlo Carrà e Eugenio Montale, a Forte dei Marmi nel 1946).

lo torno al Forte ogni estate: la tradizione di certi amici di riunirsi ancora al caffè dura. Ma è cosi malinconico ora, senza Pea, senza De Robertis e senza Carrà. Filo via, davanti: passando, “ratto ratto”, cerco di non fermarmici.

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Da Serravezza a quindici anni, nel 1896 (nato nell’8l Pea è morto a settantasette anni), analfabeta, dopo aver fatto il guardiano di pecore e il mozzo, cresciuto vicino a un mitico nonno (rievocato in quello splendido libro della nostra letteratura del Novecento che è Moscardino), Pea emigrò in Egitto: si impiegò come servitore, facendo poi il meccanico e il ferroviere, fino a metter su un commercio di prodotti che faceva venir dall’Italia, dalla sua Versilia, dal marmo al vino, via via vendendo un po’ di tutto. Imparò da solo durante una malattia assai grave a leggere e a scrivere, e per ineffabile dono, arrivò subito a essere uno dei prosatori più grandi che il nostro paese abbia avuto in questo secolo.

Gli anni dell’Egitto, che durano fino alla guerra del ’15, sono gli anni della “Baracca Rossa”, gli anni dell’amicizia con Ungaretti, nato ad Alessandria d’Egitto e che Pea trovò in quella città, nel giovanile entusiasta periodo della loro comune anarchia e della loro comune passione letteraria. La “Baracca Rossa”, di cui Pea divenne in breve l’animatore, era un ritrovo di anarchici e atei di ogni parte del mondo: arrivavano in Egitto quelli che volevano fuggire alle galere del loro paese, anche evasi da domicilio coatto, in un miscuglio di lingue, di idee, di fervori da stordire. Alla “Baracca Rossa” non soltanto ci si incontrava, si discuteva, si aspettavano le notizie sui fermenti, sulle rivolte che scoppiavano qua e là nel mondo, ma si decidevano attentati, atti di sabotaggio, azioni dimostrative e di coraggiosa solidarietà.

A interrogare oggi Ungaretti su quegli anni di Pea, si fa presto a immaginare un personaggio singolarissimo. Alto, certo di bella persona, con una grande e folta barba nera, e occhi vivissimi e mobili, anarchico vivace e commerciante astuto, con un’aria anche da mago («non mi sarei stupito – dice Ungaretti – se mi avessero detto che praticava arti di magia a uso di qualche donnetta»), cominciava a vivere i momenti della sua grande passione letteraria. Dall’altra parte, raccontava Pea che quando assai lieto, mostrò a Ungaretti il primo proprio componimento apparso su un giornale di Alessandria, il futuro poeta, scoprendo un errore tipografico, per le grandi collere di cui era capace, con un pugno spezzò il tavolo di marmo del caffè, sul quale era stato spiegato il giornale, fresco fresco. (Nella foto Enrico Pea, Giuseppe Ungaretti e Leone Piccioni).

Il modello ideale di quegli anni era per Pea, Giuda, proprio Giuda Iscariota il traditore di Cristo: Giuda e Bruto, appaiati, a incupire lo sguardo già scurissimo e profondo di Pea. E Giuda è protagonista del Servitore del diavolo. A Giuda, Pea dedicò un lavoro teatrale che fu rappresentato in Italia nel 1918, da Annibale Ninchi seminando scandalo, e proteste delle curie. Una donnetta lucchese vedendo passar Pea per strada in quegli anni (ne fu testimone Pietro Pancrazi) si mise a strillare: «Ecco il diavolo in persona… ». Chi l’avesse detto che, passati gli anni, mutata la barba da nerissima in candida, Pea sarebbe divenuto la figurazione sicura di un profeta del Vecchio Testamento, uscito precisamente da quelle pagine.

Un amico francescano di Pea, padre Roberto Dominici, nell’agosto del ’18, accettò l’invito di Pea ad ascoltare, in prova generale, nel pomeriggio, il Giuda (la sera non sarebbe potuto intervenire, a causa delle ordinanze proibitive dell’allora famoso cardinale di Pisa, il Maffi): ma dopo qualche tempo, senza nemmeno salutare né dir alcuna parola di commento, voltò le spalle e bruscamente se ne andò, superando forse la sua sopportazione il limite di bestemmia contenuto nel lavoro di Pea. E lo scrittore ne fu scosso: cominciarono di lì i suoi ripensamenti, rinunciò a quelle recite, si affrettarono i tempi della sua profonda e piena conversione religiosa. Si legga in Vita in Egitto, a dimostrar i suoi fermenti, le pagine finali sulla Messa celebrata a bordo della nave che lo riportava in patria, verso la Versilia, dalla quale era fuggito disperato, ma che sempre gli era rimasta nel cuore. Serravezza, le Apuane, il Monte Forato e vicino il mare, la grande spiaggia. (Allora deserti, chissà che inarrivabili incanti!). Scrisse di lì a poco («perché ora bisognerà riparare», sono parole sue), due sacre rappresentazioni: La passione di Cristo e L’anello del parente folle, inviate, trepitando, allo stesso cardinal Maffi, che gli scriveva «Il Signore le dia di far rivivere sui nostri teatri molte e molte scene bibliche così grandiose e salutari. Quanta onda di purificazione ne discenderebbe alla intera società!».

Passati tanti anni – a proposito di diavoli e di profeti – racconta Giancarlo Fusco che, venendo a morte in tardissima età, Ermete Zacconi, a Viareggio, dove anche Pea viveva (legati di amicizia profonda), affrontò lunghe giornate di totale perdita di conoscenza. In uno di questi giorni, Pea fu ammesso al capezzale dell’ammalato, e s’avvicinò, levandosi il basco, sussurrando, chino sul volto dell’amico, alcune parole d’affetto: Zacconi parve scuotersi, aprì gli occhi, e davanti alla candida barba di Pea, pare dicesse: «Eccomi, Signore, sono pronto!».

Altro che “diavolo in persona”!

Dall’Egitto Pea torna in Versilia nel ’14 e incomincia a occuparsi di teatro; prende la gestione del Teatro Politeama che ebbe, infatti, stagioni assai felici e importanti. Di qui la conoscenza con tanti attori, il suo amore per le scene. Anche negli anni dell’Egitto ne discuteva con il giovane amico Ungaretti, ma su quel punto i due non andavano d’accordo. «Ungaretti non aveva passione per il teatro e forse nemmeno vedeva di buon occhio che io piegassi il mio talento da quella parte, ma non mi contraddisse per tanto affetto che mi portava. Più tardi ho capito che lui non avrebbe voluta la mia vocazione al teatro. Ma semmai, allora, non era che Ungaretti disapprovasse la mia intenzione di diffamare Gesù, ché in questo si sentiva spregiudicato quanto me e quanto gli altri della Baracca: erano le condizioni di spregiudicatezza del tempo, sulle quali ci si trovava d’accordo un po’ tutti. A Ungaretti doveva dar noia proprio il teatro come tale: dialogo e cozzo di passioni. Un’arte che si complica in armonia con altre arti: poesia schiava e impura. Quel dovere affidare le parole per farle vivere a persone che le rendono approssimative sempre: le ricantano con la voce e con l’inflessione che nemmeno come suono sono più quelle che vorresti fossero. E le accompagnano con gesti resi abituali, generici, anche questi dal mestieraccio istrione. Non è possibile un’arte tutta poesia, in un’opera da darsi in teatro come spettacolo e a Ungaretti, che allora stava accordando le delicate corde del suo strumento d’oro, dovette fare terrore l’idea di un’opera di poesia per il teatro».

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Ed ecco, più tardi di Pea, anche la sua. passione per i “Maggi”: una speciale rappresentazione delle montagne apuane, in Versilia, ambientata al tempo delle Crociate, con testi popolari antichi tramandati e rinfrescati anche per estemporaneità. E Pea ne fu spesso attore: vestendo in modo regale (ho visto tante fotografie) i panni e le corone di scena. Anche alla fine della vita toccò a Pea una esperienza d’attore: il cinema si accorse di lui, della sua asciutta, affascinante figura, e Pea accettò di fare una parte, perché non gli scomodavano certo quei pur pochi soldarelli che il produttore gli offriva. (Mi scriveva nel ’50: «Non capisco come tipi alla P. o alla B. arrivino a farsi pagare milioni per dare il permesso di ricavare dai loro romanzi una trama. E non mi so capacitare come la disdetta seguiti a negare a me il diritto ad un riconoscimento che valga a mettere sulla bilancia anche il peso dei soldi, in misura non sproporzionata alla fortuna di altri, più giovani, ma non più bravi di me. Scusa questa superbietta!»). Ma lavorando al film, in provincia di Novara, a Stresa, a Roma, si lusingava di qualche successo. Mi scriveva: «Oggi per me è stata giornata campale. Ho offerto ai miei compagni di lavoro il vermut della manovella. Dopo di che sono cominciate le riprese più faticose per la mia parte. Non scambiare questa notizia per vanità gigionesca: ma dopo una scena piuttosto difficile, una donna spettatrice, ha rotto le file per baciarmi. Bisogna che mi dia a quest’arte, invece di concorrere al Marzotto!». E per «quest’arte» si sottopose anche a un bagno in acqua fredda, che, ai suoi anni, e con la sua salute, non gli fu certo di giovamento.

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Vero o no che Pea sia stato pratico d’arti, più o meno improvvisate, di magia, certo che era sua propria una capacità, rarissima in altri, d’entrare in totale confidenza con le persone. Si appartava, anche al caffè, in un angolo, in un serrato chiacchierare sottovoce, tante domande, una paziente e curiosa possibilità di applicarsi, come ascoltasse giovani letterati, o amici, o donne e donnette, in confessione. E certo erano anche racconti privati, di esperienza di vita, lamenti, storie d’amore, esposizioni di situazioni difficili; e Pea con tutta l’aria, in raccolta saggezza, accarezzandosi un poco la barba, di dar consigli. Con un tipo di sensibilità come la sua, tutta vibrante e nervosa, la sua persona, sotto l’apparente calma e distacco, come fremente (un pioppo esilissimo mosso da improvvisi passaggi del vento), i suoi colloqui, le sue pacifiche intese con donne giovani o vecchie, popolane o cittadine, letterate o villeggianti, sempre con il paziente interessamento di un padre o di un vecchio zio (per non dire un nonno), costituivano un capitolo a sé, del suo modo di penetrare e capire l’animo umano. S’aggiunga che in questo distacco, non sfuggivano affatto al vecchio Pea le grazie, le malizie, l’avvenenza di certe sue interlocutrici. Del resto nella sua narrativa ci ha lasciato una galleria stupenda di volti, di figure, di animi femminili da la Figlioccia alla Maremmana, da Zitina a Stella Bissi, da Rosalia fino alla splendida figurazione (pur in un libro minore) della protagonista di Solaio: da raccogliere nel ’53 un ampio volume sotto il titolo La figlioccia e altre donne. Ma sempre, anche nei libri bellissimi dell’Egitto e della “Baracca Rossa” (Il servitore del diavolo e Vita in Egitto) quando appaiono, ombre, figure, passaggi femminili, Pea arriva a pagine, a scorci di grande suggestione figurativa. (Nella foto Leone Piccioni, Enrico Pea e, ultimo a destra, Giovanni Battista Angioletti).

Si sfogava con lui una giovane e bella signora milanese il cui marito pareva non volesse più aver figli con lei, sebbene giovanissimi e freschi sposi, e Pea seriamente a rispondere a dar consigli – pur, vorrei dire, Bibbia alla mano! Parlava delle attenzioni da doversi prendere nella alimentazione (e proprio a lui, comunque frugalissimo, sempre a dieta, senza conoscere, almeno in vecchiaia, l’alcool che cosa fosse – permettendosi qualche caffeina, tutt’al più – se ben mi ricordo, toccò – pare – per una festa, agli ultimi giorni della sua vita, un banchetto con una più forte mangiata, che gli fece assai male): suoi nemici giurati, facendo una campagna elettorale quasi diuturna in argomento, brodo e fritto.

Dava ampie, colorite, macchinose spiegazioni di questo e ti descriveva come il brodo si formasse, come succhiasse tutti i cattivi umori della carne fresca, condensandoli in sé, spogliando quella carne di tutte le tossine insite in lei, con un racconto che finiva quasi per spaventarti, e che forse scientificamente era tutto sbagliato. Tutt’al contrario descriveva, per il fritto, l’effetto del volatizzarsi nell’olio bollente di ogni benefica sostanza dell’olio crudo, anche il più puro, lucchese e d’oliva (temendo, beninteso, di quegli anni del dopoguerra lo scarso commercio di cose genuine). Coniava parole bellissime – anche nelle sue opere del resto – che, per lo più, ben lungi da essere parole inventate, rispondevano ad antichi usi popolari delle sue parti. A parte qualche premio letterario mancato e le infinite polemiche con il Premio Viareggio (lui di Serravezza, lui viareggino, escluso da una simile manifestazione!), di rado ho veduto Pea così in bestia, quando un critico protervo gli rimproverò l’uso del verbo “sommotire” detto, in una sua pagina, di un bambino che pianga. Che è parola d’uso popolare e che dà un bellissimo senso a quel modo dei bambini, quando il dirotto pianto sia cessato, ma non ancora l’ansia, il respiro, l’agitazione interna, di seguitare in una sorta di singhiozzo, a grandi respiri, un singhiozzo – poverini – ancora pieno di pianto. (Nella foto Enrico Pea, a Forte dei Marmi, ammaestra i bambini).

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Uno scrittore come Enrico Pea, ci si faccia caso, è come sparito dal discorso letterario e culturale di questi anni. Se si esclude l’iniziativa, che fu tutta e personale di Bertolucci, di ripresentare nel ’63 Moscardino, seguito dal Servitore del diavolo (capolavoro, dunque, della prosa di questo secolo), e un progetto mandato avanti da Falqui, di Pea non si parla più, non si scrive, il suo nome non entra nel giro dei discorsi letterari di questi anni. La giovane critica lo ignora; temo, in più casi (da me del resto personalmente sperimentati) che non l’abbia neppure letto. Perché, eccezioni a parte, il gran boom librario, la gran fretta della critica più giovane, gli appuntamenti settimanali assurdi con l’articolo, il panorama sulla misura, appunto, non della letteratura, ma dello spazio di sette giorni, porta i cosiddetti “nuovi militanti” a saper tutto sui libri che via via escono, a non saper niente di quelli che uscirono tra le due guerre, e che pur condizionano molte delle esperienze attuali. A non saperne nulla salvo che si rifaccia un “caso”, un caso per uno scrittore di altri tempi. Così questa cosiddetta società letteraria dei nostri tempi intona i suoi discorsi, anche le sue conversazioni, via via ai titoli dei libri, prevalentemente di narrativa (e non s’accorge che la funzione della narrativa nella nostra società sta andando a farsi benedire), soprattutto se concorrenti ai premi di moda. Anche quando, come accade specie da qualche anno, e in modo sempre più disperante, quei titoli, quei libri valgono davvero poco, e ti obblighino eventualmente, quasi sempre, ad assai faticose letture. Se è vero che l’organizzazione editoriale è in grado, in certo modo, oggi di imporre un po’ quello che vuole e sceglie, io mi augurerei almeno che qualche illuminato editore tentasse di far di Pea un “caso”, come del resto è. (Nella foto Leone Piccioni a un Premio Enrico Pea che si svolgeva in una località sulle Alpi Apuane).

In possesso di una prosa perfetta, e mai accademica, sempre finita e ricca di sfumature, ma con un aggancio profondamente popolare, anticipatore, addirittura, per il largo posto dato ai portati di un lessico dialettale pur filtrato, e mai trascritto, Pea è tra i cardini più importanti di quel passaggio della nostra prosa e della nostra narrativa, da moduli borghesi, liberty, crepuscolari, a una novità profonda di invenzione – e tanti del resto lo sanno, se ne accorsero, lo dicono. Lo dice, ad esempio, Bilenchi, lo hanno detto i critici veri del Novecento, De Robertis e Gargiulo, Ungaretti e Cecchi e Bo, Contini e Montale e Falqui: forse neppure la narrativa di Vittorini o di Pavese, sarebbe potuta nascere, così mutuata da uno choc determinato dalle letterature straniere verso forme intensamente nostrane.

Irrigidendomi un poco, vorrei proporre che quando si accenda una discussione sulla narrativa italiana, chi non abbia letto tutto Pea non debba aver diritto a prender la parola in argomento! Almeno che questo nostro sia un paese (e potrebbe darsi) nel quale basti fisicamente morire perché nessuno si ricordi più di te, salvo che non sia possibile tentare una speculazione di tipo pratico ed economico sul tuo nome di morto!!

Rivedo vecchie fotografie, amici-nemici, amici veri, Pea e Viani e Ungaretti, Pea e Carrà e De Robertis, Pea e Soffici e Papini, Pea e Pancrazi e Montale, e poi i giovani, con Vittorini, con Sereni che venivano al Caffè del Forte da Bocca di Magra a salutare il vecchio profeta, e Luzi e Bilenchi e Pratolini e Bigongiari e tanti altri. Anni, tutto compreso, assai ricchi di frutti critici e letterari pur nel tanto minor numero di titoli nuovi disponibili, pur con tirature tanto diverse. Ma una possibilità d’orientamento era data; era possibile distinguere nella letteratura, nelle arti, gli “ufficiali” dai “sottuffìciali”, come diceva De Robertis, e in certi casi i valori letterari (che non erano “puri” a quel modo irrisorio che ora ci vorrebbero dire), erano radicati nei problemi della nostra società, in anni così tragici e inquieti, cogliendo i respiri veri, i sommovimenti. Accade di ripensarci, oggi, delusi, e dopo lunghe speranze, in tanto dilatarsi di incertezza, di confusione, di gomitate e di spinte! (Nella foto una targa ricorda gli anni in cui al Caffè Roma – Quarto Platano di Forte dei Marmi si radunavano i protagonisti della cultura del Novecento).

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Pea restava al Forte fino alla fine di settembre: ma già alla metà di quel mese gli amici, tutti gli amici, erano ripartiti. E subito si immalinconiva: era finita la sua bella stagione. Una sua cartolina indirizzatami il 18 settembre 1950 (cartolina postale, come Pea faceva; consumatore formidabile di cartoline postali, da dovergli serbar perpetua gratitudine anche il ministero delle Poste: io solo ne avrò parecchie diecine!), chiudeva così in un poscritto: «Cadono le foglie del platano sul basco del solitario: oggi domenica sono al caffè solo solo solo: pure col sole è già pieno inverno».

Povero caro, vecchio, indimenticabile Pea, scrittore grande di questisanni, autore, non foss’altro, di Moscardino, certamente, mettendoli tutti in conto, tra i dieci libri da salvare in Italia, in cinquant’anni!

1967

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