Da Carver in poi
Tacchi alti, gonna stretta
Silvia Rosati, allieva del corso di scrittura di Andrea Carraro, Filippo La Porta e Sebastiano Nata, "continua" un celebre racconto di Carver
«Continua l’incipit del celebre racconto Cattedrale di Raymond Carver, proseguendo la narrazione e cercando di portarla rapidamente a conclusione, senza superare i 5000 caratteri circa»: questa la traccia di lavoro proposta dalla Scuola Orlando nell’ambito del corso di scrittura “Il racconto della realtà” di Andrea Carraro, Filippo La Porta e Sebastiano Nata. I due testi che pubblichiamo qui sotto, dunque, sono l’incipit di Raymond Carver e il “seguito” scritto da Silvia Rosati.
(Raymond Carver, incipit de La Cattedrale). C’era questo cieco, un vecchio amico di mia moglie, che doveva arrivare per passare la notte da noi. Gli era appena morta la moglie.
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(Tacchi alti, gonna stretta di Silvia Rosati) Si erano conosciuti quando lui, presidente di un’associazione, era diventato consulente della società dove lei lavorava. Ci sono vantaggi fiscali se si assumono persone con disabilità, le aziende non fanno niente per filantropia, e il cieco doveva capire come potevano essere impiegati altri non vedenti, se era ammessa la scrittura in braille e altre cose così. Mia moglie lavorava alle buste paga, sempre lo stesso incarico da 15 anni; doveva affiancarlo in questa ricerca e mi parlava sempre di quest’uomo elegante, con la barba bianca, accompagnato da una signora alta e magrissima, insieme formavano una coppia distinta.
Enrica è sempre stata una donna piacente, anche dopo la nascita di nostro figlio, ma noi siamo persone semplici, casa a Torre Angela, mica in un quartiere signorile. Bisogna sapersi districare un po’, fare attenzione a qualche strada, ma quando cala il sole e prima che faccia buio, sembra di essere in una campagna male illuminata, non brutta a vedersi. Io ho un poco paura quando Enrica esce la mattina presto, si veste in un modo che è impossibile non notarla, con le gonne strette e i tacchi alti, ha sempre avuto belle gambe e un culo provocante, le dico di non esagerare che prima o poi trova qualcuno che le mette le mani addosso e poi tocca a me sbrigare la faccenda. Ma lei alza le spalle e dice che sono troppo ubriaco per proteggere pure me stesso, figuriamoci salvarla da un’aggressione. Mi risponde: “A me penso io” e se ne va, lasciandomi come un fesso. Io cerco di reagire, ma dipende da quanto ho bevuto, si sa che un bicchiere tira l’altro e non so mai quando è il momento di fermarmi, anche quando alzo un poco le mani su di lei, ma appena appena, giusto per metterle paura e farle capire chi comanda a casa nostra.
Un giorno però, la moglie di questo cieco che lo accompagnava dappertutto, ha visto che Enrica indossava gli occhiali da sole, un po’ strano dentro un ufficio, e lei non ha trovato di meglio da fare che levarseli. Così ha fatto vedere a tutti l’occhio un po’ gonfio. Valle a capire le donne. Questa moglie tutta distinta ha gridato e subito il vecchio si è allarmato. Enrica ha balbettato qualcosa, dicendo che era caduta ma anche che suo marito beveva, era un ubriacone, roba che se mi beccano al lavoro mi mandano via che nemmeno Gesù Cristo farebbe in tempo a salvarmi. Una vera scema. Da quel momento, tra lei e il vecchio è nato qualcosa di nuovo, anche se io non ero geloso. Però un giorno Enrica ha iniziato a scrivere un sacco di messaggi sul cellulare, io ero tranquillo, un cieco mica può leggere. Ma mi sono informato, hanno dei telefoni speciali che leggono per loro a voce alta. Così, tre giorni fa, le ho strappato il cellulare di mano e ho letto quello che si erano scritti. La schifosa. Trescavano mentre la moglie del cieco si era ammalata; quella stava morendo ed Enrica faceva progetti per scappare con lui. Non come amanti, come padre e figlia, così scriveva, che puttana. Voleva abbandonarmi. Con la scusa di trascorrere la notte a casa nostra, il cieco me l’avrebbe portata via. Ora non può più farlo, le ho dato la lezione che si meritava da tempo, altro che tacchi alti, quella zoccola. Però mi sembra che non respiri tanto bene, stavolta ho proprio esagerato. Ma un uomo è un uomo e adesso ho solo voglia di dormire.
Silvia Rosati, romana, laureata in Lettere e con un master in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, vive e lavora a Roma. È giornalista pubblicista e responsabile della comunicazione interna in un’azienda. Ha pubblicato un racconto nell’antologia Odio l’estate (Giulio Perrone Editore) e il romanzo Era sola quel pomeriggio (Pequod Edizioni).
Il disegno accanto al titolo è di Giulia Cavallini.