A proposito di “Fuori traccia”
La fretta di vivere
La nuova raccolta poetica di Manfredi Lanza segue un doppio binario e alterna la frenesia dell'esistenza alla riflessione (ironica) sul senso della vita
La poesia di Manfredi Lanza aggredisce con decisione le forme della realtà e pone con decisa irruenza le domande sulla nostra presenza nel mondo, con la fretta sembrerebbe di chi non ha più tempo da perdere, come spesso dichiara nei versi di Fuori traccia (Il canneto editore), eppure tergiversando e prendendo strade che portano lontano da ogni possibile centro, così come dalla formula che possa offrire qualche certezza o dare motivi di consolazione. In fondo siamo tutti, noi appartenenti al genere umano, nei panni di quell’uomo che è impegnato nel tentativo di “Voler tornare al dunque e non potercela fare / Come lo smemorato di Collegno / Non sapere chi siamo, dove siamo, dove andiamo”. La nostra condizione più vera è di “Essere, trovarsi, come chi dicesse a Guadalapur”, che è un posto come un altro, evidentemente, dove “si vive in ozio”, “si fa la fame e si muore di sete”, tanto che non possiamo che chiederci “chi ce lo fa fare di restare”. Che vuol significare, fuori dai percorsi, mai rassicuranti, che imbastisce il poeta, che non ha nessun senso sforzarsi tanto per continuare a vivere, per poi “ritrovarsi infognati a Guadalapur che è come Collegno / Sempre girare a vuoto”.
I versi propongono un veloce e acuto susseguirsi di riflessioni ironiche e paradossali, che sviluppano, con continui, precipitosi e felici cambi di direzione, questioni serissime attraverso una specie di affranta ma sempre animosa, filosofica noncuranza. Il lettore si barcamena, a conti fatti, tra il leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese, costretto naturalmente a vestire i panni dell’afflitto, girovagante nativo dell’isola nordica, e un sonetto del Belli, si pensi per esempio a Er caffettiere filosofo, in questo caso indossando gli abiti de “l’ommini de sto monno”. Nelle sue poesie Lanza sembra inizialmente proporci un percorso lineare, dal quale però spesso a un tratto devia, ed è in questo scarto il senso dell’impossibilità di cogliere un ordine razionale negli eventi del mondo, che possa effettivamente condurci in qualche luogo di conforto, o almeno che dia diritto a una spiegazione. Del resto, come suggerisce senza veli nella poesia Oh fortuna, velut luna, “Senza buco di culo non si può stare al mondo / Ciò in quanto e perché il mondo è tondo / La retta via si perde all’infinito e non conduce da nessuna parte”.
In versi lunghi, dotati di un particolare andamento prosodico che tende alla velocizzazione della frase, la poesia di Lanza ci dice che è inevitabile la nostra agitazione, sempre evidente nel vivere quotidiano sociale e individuale, e che essa comunque si rivela infine del tutto senza risultato. Non ha pause il fremere continuo “in cerca del meglio del meglio”, ma in fondo “il nostro vivere è un dare di testa al muro del destino”. Possono servire gli angeli, almeno a smussare le asperità della vita, gli esseri alati e eterei, che “Sono fuori dalla realtà di questo mondo / Salvi in un aldilà immateriale da idilliaco sogno”. Essi però esistono “solo nell’immaginazione sfrenata e interessata / Dei profeti”. Il loro più grande merito è rincuorare “col farti capire che non sei proprio solo”. I venti che li trasportano soffiano anche su ognuno di noi e “Ti spogliano di ogni ingombrante certezza / Ti preparano a scavalcare l’illusione di essere stato qualcuno”.
Scrive Massimo Bacigalupo, nella prefazione, che la poesia di Lanza “non ci lascia dormire sonni tranquilli, sbatte contro il muro del reale e costruisce una critica del mondo sociale”. I versi di Fuori traccia propongono anche delle soluzioni, come avviene ad esempio in Valle di lacrime. Constatato che viviamo tutti “In questa valle di lacrime / A piangerci addosso/ (…) / E dirci l’uno all’altro e all’altra / Che dopo tutto poteva andare anche peggio / Quanto peggio e come peggio non si sa”, il poeta si chiede se “Non ci sarebbe di meglio da fare”. E il meglio potrebbe essere “Perder tempo semmai a meditare / A cercar di capire e penetrare / Mediante impiego di tutte le risorse di cui siamo riccamente dotati / Cosa si celi dietro il cielo / Se e come sia possibile sbrogliare la matassa / Del non senso della vita”. Un nobile obiettivo, non c’è che dire, che è sempre comunque, non sfugga, un “perder tempo”, cioè qualcosa che non porta da nessuna parte, come sempre un “girare a vuoto”.
Alla poesia Manfredi Lanza, che è nato nel 1935 a Siena, è giunto solo nel nuovo millennio, a partire dalla raccolta Canti aridi e altre poesie, edita nel 2012. Lanza è anche autore di volumi di riflessioni (l’ultimo è Ne pour ce del 2015) e dei Sette racconti lussemburghesi del 2014, pubblicati con lo pseudonimo di Giorgione l’Africano. Prima di concedersi alla letteratura, è stato bracciante agricolo, operaio, infermiere e infine traduttore al Parlamento Europeo.
La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.