In margine a "Parthenope"
Napoli visionaria
Viaggio nel cuore contraddittorio di Napoli, con l'aiuto delle visioni di William Blake, delle parole di Hermann Broch e delle immagini di Paolo Sorrentino
Ha un senso che il visionario William Blake aleggi sulle pendici di Caponapoli, acropoli della città greca, luogo di culto, di oracoli, di guarigione tramandata nei secoli, plasticamente testimoniata dall’ospedale e dalla fantastica Farmacia degli Incurabili. Blake, tra 1700 e 1800, fin dall’infanzia collezionò visioni, che lo fecero considerare pazzo, e sulle visioni organizzò il suo lavoro poetico e pittorico. Se ne parla tra le scabre pareti del Monastero delle Trentatré, ennesimo gioiello del patrimonio partenopeo, incastonato tra l’acropoli e il decumano superiore.
La visionarietà è un tratto peculiare, si potrebbe anche dire fondamentale, dell’antropologia di una città multiforme, stracciona e aristocratica, spensierata e angosciata, rabelesiana e cartesiana, criminale e mistica. Una tribù sfuggita alla logica computazionale del Tempo, che si muove tra monacielli e belle ‘mbriane, maghi Virgilio e uova alchemiche, Pulcinella e femminielli, sirene che la generano e che muoiono d’amore. Visioni si susseguono in un rapido piano sequenza napoletano.
Inondata di sole e di folla eterogenea, via Partenope lambisce il mare. Castel dell’Ovo sta lì a ricordare il destino sempre in forse della città. Ma lo scenario attuale rimanda a Chaplin. L’interminabile fila di tendoni, tavoli, sedie, che occupa marciapiede e buona parte della strada si impone come la pantagruelica parodia di Tempi moderni. Il genio di Charlot condensò in una scena esilarante e indimenticabile mille saggi sul taylorismo: l’uomo depauperato delle sue caratteristiche, innestato nel generale processo produttivo come semplice ingranaggio, cui solo è concessa la parentesi anabolica, comunque debitamente meccanizzata, del metabolismo necessario per continuare a funzionare.
Sotto un sole che si attarda a parlare d’estate, lunghe code aspettano il turno per approdare a un tavolo. Qui migliaia di mandibole, le une accanto alle altre, si muovono all’unisono per celebrare la doverosa pausa anabolica, debitamente inserita nel circuito consumistico, dell’homo itinerans – in gergo moderno: turista –, prototipo umano ancestrale, ma rielaborato e spedito in giro per il mondo dalla lucrosa fantasia delle multinazionali del diporto; esemplare che si ricarica per riprendere un’automatica deambulazione tra rovine, cattedrali, musei, impegnato a strabuzzare gli occhi, emettere entusiastici sospiri, immortalarsi in immagini che subito prendono la strada maestra dei social. O, in uno slancio di creatività, insinuarsi e ritrarsi nella sagoma di Totò ritagliata su una doppia parete di cartongesso ai piedi del ponte della Sanità. Di indimenticabile, proprio nulla.
Nello storico cinema Modernissimo, oggi uno spezzatino multisale, dietro la brulicante via Toledo, proiettano Parthenope di Paolo Sorrentino. Il titolo adombra un intento ambizioso, una sorta di Summa neapolitana. A partire dalla nascita in mare della moderna sirena. Che, nel suo percorso di formazione, si imbatte in miti recenti: un imperversante Comandante (il trionfante neoliberismo ha riesumato e glorificato Achille Lauro), un’acida raffigurazione – per oscuri motivi – di Sophia Loren (Greta Cool nella finzione cinematografica), un convenzionale Camorrista, un Prete sibarita. Quindi Capri, il cui profilo muliebre viene assunto a ideale eterno di Bellezza.
La protagonista incontra un enigmatico mentore, il professor Marotta (un omaggio al compianto, indomito presidente dell’Istituto italiano per gli studi filosofici?), che per gradi la condurrà a trovare la risposta al quesito che l’assilla: «Cos’è l’antropologia?». Timidi applausi al termine; commenti sferzanti all’uscita: noia soprattutto, poi il consueto fellinismo; qualcuno crede di rilevare persino tracce di Ferzan Ozpetek e le immancabili suggestioni da Raffaele La Capria.
L’odierna mitologia napoletana sovrabbonda di spunti. Primeggiano le artistiche stazioni della metropolitana. Tra le più belle del mondo, si dice. La nuova linea 6 parte da piazza Municipio per raggiungere Fuorigrotta. Sarà, ma è pressoché impossibile mettere piede nei vagoni. Una lunghissima fila multietnica attende di essere ammessa sul marciapiede da cui, ogni 15 minuti circa, parte il convoglio. Che alle 15 saluta tutti e stacca. Del resto la celebrata linea 1, che almeno funziona per un’intera giornata, ha frequenze non molto inferiori, e spesso condanna a 20 minuti di attesa. La visione di un trasporto moderno e funzionale, bello o non bello, sfuma.
Sull’acropoli cittadina dalle visioni di Blake si giunge alla visione dell’arte di Hermann Broch, scrittore austriaco che nel 1950 sfiorò il Nobel per la Letteratura. Broch distingue con nettezza tra etica ed estetica, e all’arte assegna un preciso compito etico. Nemico dei languori del decadentismo, ne La morte di Virgilio, in un visionario dialogo serrato tra l’imperatore Augusto e Virgilio, fa dire al poeta: «L’arte…, in tutti i campi, è al servizio della conoscenza, ed esprime conoscenza». Sarà bene fare tesoro di questa definizione.
Il decumano superiore digrada verso il decumano maggiore (via dei Tribunali) attraverso via del Sole, sulla cui sommità sarebbe stato situato dai primordi il tempio di Helios, che con i Romani avrebbe preso il nome di Apollo, divinità solare non estranea alla scienza medica. A un centinaio di metri, piazza Bellini è uno dei teatri in cui si celebra il rito notturno denominato movida. In un’acre e invitante sentore di erba, si materializza la visione di militari in tuta mimetica: presidiano la zona, osservano giovani e meno giovani che chiacchierano, fumano, flirtano, bevono.
Lungo il decumano inferiore (alias Spaccanapoli), in piazza del Gesù, si replica. Ancora soldati; a tracolla, bazooka, o quello che sono, più grandi di loro. E così via in tutto il centro. La militarizzazione delle città procede. Il mito subdolo della sicurezza spalanca le porte ad una visione concentrazionaria della società. Apoteosi del panopticon: tutti sorvegliati, tutti in odore di punizione nel più sicuro dei mondi possibili.
Visioni choc regala Partenope. Napoli è stata ed è città di spazi angusti. Forse perché costretta tra colline e mare. Forse perché sempre sovraffollata nel suo breve perimetro. I decumani, arterie principali larghe alle origini, offrono oggi a stento spazio a due macchine di media cilindrata affiancate; molto, molto meno i vicoli. In questi fazzoletti si scatena il folle balletto delle due ruote. Motorini, vespe, motociclette guizzano protervi tra la massa dei pedoni, autoctoni e forestieri. Lievissime oscillazioni del culo spostano il veicolo di quei pochi millimetri sufficienti a non urtare nessuno. C’è dell’arte in questa selvaggia prestazione.
Il professor Marotta finalmente si concede ed offre il suo primo dogma all’allieva: «Billy Wilder è un antropologo». Affermazione perentoria, legata alla visione dei film del regista austriaco con cittadinanza statunitense. Ci vorrà ancora un po’ di tempo perché il docente sveli per intero l’arcano: «L’antropologia è vedere». Dunque Sorrentino, che per mestiere vede e tutto traduce in immagini, si autoproclama antropologo e si avventura a elaborare una antropologia della nazione napoletana.
Non è l’ultima battuta. L’apprendistato della neofita procede con la visione spiazzante del «figlio problematico» del professore, un bamboccione sovradimensionato fatto di acqua e sale – «come il mare», sospira la ragazza – ghignante in perenne contemplazione di immagini televisive. Se la chiave è vedere, logico argomentare che la veglia eccessiva della ragione generi mostri. L’intelletto non giunge dove arriva l’occhio.
La vetrina di un oscuro bugigattolo alla Sanità allinea foto di Totò, Sophia Loren, Pino Daniele, Massimo Troisi. La città è una selva di chiese, ma Napoli non si può propriamente considerare religiosa. Esibisce, anzi, un’inestirpata vocazione pagana. Con i santi del cattolicesimo ha un rapporto primitivo, di baratto: tot preghiere in cambio di intercessioni, così come avviene con le capuzzelle (i teschi) del cimitero delle Fontanelle. O dà libero sfogo al suo istinto teatrale nelle vigorose invocazioni delle parenti, comari linguacciute e senza inibizioni, che a Faccia ‘ngialluta, san Gennaro dal sangue liquefacente, non chiedono ma, confrontandosi da pari a pari col martire, da lui pretendono il miracolo.
Il Pantheon autentico ha carattere esclusivamente locale. Ognuno sceglie l’anima o le anime da ricordare, venerare. Può essere Totò, può essere Eduardo. È Diego Armando Maradona, l’uomo che per la prima volta fece conquistare lo scudetto alla squadra cittadina, effigiato nel murale, vero altare votivo, dipinto nel cuore dei Quartieri spagnoli. Nel suo viaggio, Parthenope non può non imbattersi e misurarsi con la religione ufficiale, che le si presenta con un aspetto cialtrone, lubrìco.
Si torna a via Partenope. Esterno, notte. Sgombra dal moloch della ristorazione. Parthenope, partita nel fiore degli anni in volontario esilio da Napoli («Non è possibile essere felici nella città più bella del mondo»), torna da anziana, ma con le fattezze di Stefania Sandrelli, splendidamente invecchiata. Dal fondo avanza lento un carro di Tespi strepitante: si celebrano i fescennini del tifo calcistico. Parthenope-Sandrelli si abbandona a un radioso sorriso. Ora vede: Napoli è Passione (cuore e occhi prevalgono sulla fredda ragione). L’iniziazione è completata. L’indagine antropologica domestica conclusa.
Sull’acropoli, Broch riprende la parola: «Il peccato originale nel sistema dei valori dell’arte è il kitsch» (Kitsch e letteratura). Paradossalmente, ma non tanto, la Napoli concupita e afferrata da Parthenope-Sorrentino ha poco di Napoli, della sua realtà contraddittoria, tumultuosa, spaventosa, ctonia. Non approfondisce, non insegue un’effettiva conoscenza. Galleggia su un’inoffensiva superficie. Allinea, come in un decoroso salottino, «le buone cose di pessimo gusto».
Perché Parthenope, alla resa dei conti, recepisce e rilancia l’immaginario della buona borghesia cittadina. Che innalza la bandiera di un indistinto Bello, partorito da un’angusta concezione estetica. Da Caponapoli, dall’acropoli dei vaticini plana, impietoso, il responso di Broch: quando l’etica e l’estetica si scambiano di posto, si produce il kitsch.
Fedele alla sua ridondante cifra stilistica, Sorrentino accumula simboli pretenziosi, sciorina a catena frasi sentenziose; ha come l’ansia di puntellare così un edificio che altrimenti non starebbe in piedi. Fellini o non Fellini, di certo con una discreta influenza di La Capria, è convinto di fare poesia, di attingere ed esporre l’agognato Bello. Ma dal suo opificio esce soltanto un manufatto kitsch.
Ariosa, disalberata, ingentilita solo dall’elegante, maestosa geometria del Maschio Angioino, piazza Municipio scende verso il porto, verso il mare avvilito dalle moli sesquipedali di due falansteri oceanici, pronti ad accogliere e trasportare sulle onde, tra mille passatempi, torme di giramondo spensierati. La camera inquadra il Pulcinella itifallico, opera d’arte (di Gaetano Pesce) controversa e ora contesa con l’accusa di plagio.
La danza indemoniata delle due ruote, più numerose dei moschini in un’umida serata estiva, è l’immutabile e perpetua colonna sonora della commedia umana in scena tra bocche di fuoco – il «formidabil monte sterminatore Vesevo» e i Campi Flegrei della profetizzante Sibilla cumana – pronte ad aggredire e inghiottire tutto. Una visione che William Blake avrebbe volentieri trasferito in un suo dipinto.