“La scatola onirica” di Maurizio Cucchi
«Nudo e sorpreso… alle origini»
Nella nuova raccolta dell’autore milanese, il centro della sua ricerca. Traiettorie di vita lontane, luoghi perduti e ritrovati, affetti custoditi. E il tema della creazione, il senso della nascita e della realizzazione dell’opera per il pittore, come ill “fare” del poeta
Nella sua recente raccolta La scatola onirica (Mondadori), Maurizio Cucchi oltre a confermare una continuità con i suoi antichi e recenti scritti, ci consegna una poesia che si addentra in vie non frequentate, in scenari che pongono nuove interrogazioni, oltre che riconoscere «un tempo incerto,/ trasognato», un tempo di segreti, di «silenzioso oblio», come rimarca in una sezione ove si interfaccia con il nesso sogno-veglia. Sono inedite tracce, sono incroci fondanti un ulteriore sentire, come quello rivelato dallo stesso autore, attraverso dei versi di Saba, da lui inseriti in una sua poesia: «Parole,/ dove il cuore dell’uomo si specchiava/ – nudo e sorpreso – alle origini». Versi che potrebbero essere l’incipit da cui partire per inquadrare il lavoro del poeta milanese, perché effettivamente il tema dell’origine diviene il centro della sua ricerca, proposto a più riprese e su varie linee, che si fa via via riflessione, allo stesso tempo “indagatrice” e sofferta, sulla propria vita. E che appare anche il passaggio indirizzato a una indispensabile “purificazione”, riguardo una innocenza agognata e peraltro vissuta, a volte, con lo sguardo di un bambino. Origini misurate anche attraverso i luoghi perduti, ma pure ritrovati, seppure mai in fondo propri, perché ancorati a traiettorie di vita lontanissime.
Le poesie iniziali, “documentano” il cammino curioso e sorpreso, incerto e prezioso, sulle tracce di una stirpe sbiadita dal tempo, quei legami familiari sintetizzati, curiosamente e quasi a sorpresa, da un segnale di località: Casa Cucchi (Cecima), un piccolissimo centro tra Lombardia e Piemonte in cui il poeta ritrova l’inizio della sua famiglia. E in questi versi troviamo una straordinaria via poetica, che “tasta” nella memoria, in un «fondo oscuro e incancellabile/ che pure accoglie…» e che si indirizza in direzioni sconosciute, raggrumate in una agguantata scaglia di ricordi: «La vera del pozzo l’erba/ alta selvatica e il fango che mi impiastra. La gioia/ del campo infradiciato e i piccoli animali/ e tu non mi hai calmato mi hai detto: vai/ vai! C’è la tua maschera, nel fondo, e la memoria./ Avevo i brividi e un po’ di fame./ È stato un miracolo un dono/ un addio». I luoghi si fanno così animato e allo stesso tempo desolato tentativo di ritrovarsi, in verità un balbettare cronache ossidate dal tempo, voci che ritornano ignote «da un fondo oscuro», ove la geografia si fa cieca, lenta e ormai indifferente.
La poesia di Cucchi è percorsa da una tenera e dura malinconia, frenata a volte, ma a volte svelata nel profondo di una dignitosa, scontrosa piega («E quando i colori nei confini/ si mostrano più netti più potenti/ hai l’impressione che ci illudano/ di un tempo di rinascita felice/ che è invece una parvenza/ un trucco vile che nasconde/ la nuova tappa del disfacimento»). Un “tono” che ritroviamo pure nelle poesie dedicate a taluni personaggi. Prendiamo quelle riservate a Giovanni Raboni, il suo risaputo maestro, che pure era «il mio caro amico/ e io gli avevo dato, nella mia mente,/ decoro di nuovo padre», e risale sempre Cucchi a una possibile origine-figura, e Raboni con la sua presenza umana, oltre che poeta e critico dalle mille preziose sfaccettature, è lì che si staglia «ancora dopo, ancora adesso,/ veniva e viene a visitarmi/ in sogno». Cucchi necessita di un contatto, di una protezione che lo consegni a una tranquillità interiore, a un mite sguardo, come fu per lui, appunto, quello di Raboni, tra le tante cose anche «capace di arrivare all’ideale/ comunità dei vivi e dei morti sentita/ nel tuo pensiero attivo, che ci arriva/ come un limpido messaggio». E il dialogo che si avvolge nel passato con chi più non c’è, è uno dei temi sui quali varie volte i versi di Cucchi si sono confrontati, e sono spezzoni di vita che riemergono, sono affetti forti fissi nel suo animo, dolenti forse, ma anche trattati con cura e delicatezza, mai esacerbati, raccolti infine e stretti dolcemente nel proprio cuore.
Le poesie dedicate ai pittori, che paiono quasi spiazzanti, sono invece inquadrabili in una “esigenza” che preme nell’autore, quella di affrontare il tema della creazione artistica. E se è vero che raramente appassionano le poesie che accompagnano le opere pittoriche, nei versi di Cucchi (nella foto), allorché si sofferma su alcuni quadri di grandi artisti (Fontana, Kiefer, Burri, Pollock, Bacon, etc.), vi è un “entrare” nell’immagine che sa raccogliere linee e colori oltre il veduto, oltre il criticamente detto. Perché qui la ricerca del senso della nascita e della realizzazione dell’opera, con l’occhio del poeta, va oltre il quadro, per sconfinare nello stesso “fare” del poeta («E noi, grati all’artefice/ del gesto profondo e delicato, cerchiamo,/ a volte con fortuna, di seguirne le orme indelebili»). Uno studio che si inter-connette quindi col proprio laboratorio poetico e «racconta questo precario nostro sacco/ di pensieri, di sentimenti e cose». E allora sì che gli artisti menzionati, non ci appaiono più semplicemente come i grandi artisti che sono, ma schegge “poetiche” che ci rivelano la ricchezza del gesto artistico, che, con i versi del poeta, svela un mondo “altro”, che vive anche nelle sue illuminazioni creative. In Cucchi c’è questo inoltrarsi in territori e ambiti diversi, un’esigenza artistica ed esistenziale che si rivela come una impellente necessità, come fu primariamente per lui lo scrivere poesia, e come è ora l’andare su diramazioni sconosciute, per comprendere meglio se stesso, come dice in una poesia della sezione finale: «Poi venne quel semplice attrezzo, all’inizio/ … ad aprirmi a una nuova, più complessiva visione/ dunque idea, potrei dire, dell’esserci». Un esserci che Cucchi ha fissato attraverso la parola, alla quale dedica una necessaria, urgente riflessione.
E quel Sabatino, il personaggio di un poemetto, credo l’alter ego dello stesso poeta, si inoltra nella ricerca della parola giusta, nell’analisi del suo significato, quella parola che «possiede/ una serie interna così vitale, così/ profonda e varia, complessa/ di strati e vissute vicende, di passaggi e mutazioni nei secoli», quella parola che il poeta ha inseguito per raccontare la sua vita, e il suo stare su questa terra, tra dolori e speranze, tra segreti e silenzi. Una vita che è stato necessario fissare ricorrendo al “pericoloso” e prezioso spazio poetico, in cui l’osservazione del mondo, che è scorso fuggente e sfuggente, si unisce ai suoi ricordi e ai suoi passaggi intimi. Ciò attraverso una interrogazione continua, per quanto, amaramente, infine il poeta veda una nebulosa più che la luminosità della scena, e le complesse incalzanti domande gli faranno dire: «D’accordo,/ ma anche questa pur remota voce, da dove mai verrà?». Quella di Cucchi è poesia pensante, senza però mai divenire appesantita riflessione filosofica, è poesia illuminata, misurata, creativa e dolente, profonda. Che ha pochi uguali.
Vicino al titolo, l’immagine di un’opera di Teresa Maresca. Foto © MLPaolillo – per gentile concessione.