Roberta Passaghe
A proposito di “Molto molto tanto bene”

Mediterraneo ingiusto

Caterina Bonvicini, tra realtà e finzione, con un romanzo decisamente "impegnato", racconta una famiglia costretta a confrontarsi con la tragedia dei migranti

Possiamo affermare che esistano un Mediterraneo buono, rassicurante e accogliente e un Mediterraneo ingiusto, crudele e respingente? Dopo avere letto Molto molto tanto bene (Einaudi, 208 pagine, 18,50 euro) di Caterina Bonvicini la risposta è sì. Lo si dichiarerà fin da subito: è un libro impegnato, nel senso che l’autrice prende posizione rispetto a certi temi politici, ma non per questo il livello letterario scende, anzi. La precisazione apparirà superflua ma quando si uniscono letteratura e impegno il risultato non è sempre ottimale. Bonvicini, penna che si riconferma estremamente valida, sembra avere chiaro che il potere seduttivo delle parole cresce se la menzionata taratura artistica non viene meno. Perché il prodotto di cui si sta parlando è innanzitutto letterario, per l’appunto, e se è vero che, per dirla con Calvino, ci sono cose che solo la letteratura può fare con i suoi specifici mezzi, qui ci troviamo al cospetto di un’opera che funziona sia in termini di trama sia in termini retorici. Una scrittura asciutta, che ricorda quella di Antonella Lattanzi in Cose che non si raccontano, scevra da sentimentalismi o frasi enfatiche, è il tramite perfetto per inscenare una storia multisfaccettata, di cui depressione, sopravvivenza, solidarietà, reciproco soccorso e complicità sono soltanto alcuni degli argomenti principali.

Attraverso gli occhi di Cate, protagonista e voce narrante, tocchiamo con mano la realtà del Mediterraneo ingiusto, crudele e respingente e veniamo a conoscenza dei complessi meccanismi di recupero in mare dei migranti. Ci si sente chiamati in causa e non si può non chiedersi se, forse, non ci si stia voltando dall’altra parte un po’ troppo spesso. A suscitare la sensazione sono gli sforzi profusi dall’equipaggio dell’Endurance (nome di fantasia) che, con zelo stoico, compie pericolosi salvataggi ma anche operazioni quotidiane: dissetare, sfamare, curare e assistere le persone che porta a bordo. Gli eventi saranno movimentati da Amy, ivoriana di cinque anni e sette mesi che vuole a Cate molto molto tanto bene, il suo gemello Bubà e la madre Chantal. Cate sceglie di aiutare la famiglia ma la decisione non sarà priva di amari risvolti che la renderanno non poco perplessa.

L’impianto narrativo è retto da molteplici flashback e dalla restituzione diretta delle vicende che Cate fa a Otti, amica e membro dello staff dell’Endurance. I personaggi secondari, anche quando compaiono per pochi istanti, sono connotati in maniera caratteristica e rimangono impressi per le loro peculiarità. La testimonianza (questa è una storia vera) rientra nella categoria dei libri impegnati ma non si percepisce nemmeno per un attimo la presunzione di voler dare messaggi universali; emergono piuttosto le fragilità a cui gli esseri umani sono soggetti, persino quelli che si giudicherebbero inarrestabili, Cate compresa. Non mancano ironia e sarcasmo che alleggeriscono in più punti passaggi altrimenti cupi: «Sopravvive al Mediterraneo e poi ci muore in una piscina del cazzo». Si noti, ad esempio, il ricorso ragionato al dativo etico che indica il coinvolgimento emotivo di chi parla tramite l’uso di un pronome («Mi sopravvive al deserto, mi sopravvive alla Libia, mi sopravvive alla traversata, e poi mi cade dal terrazzo») evocando una dimensione di intimità e colloquialità. Un lavoro che fa indiscutibilmente il suo dovere: ci cattura per poi rilasciarci arricchiti.

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