Leo Carlesimo
Una storia ambientata in Malesia

Cameron Highlands

«Quando lo vide apparire, unica faccia occidentale inquadrata nel corteo di tecnici e dirigenti malesi accorsi a riceverli, sulle prime non lo riconobbe. Fu solo allorché il padroncino sino-malese lo presentò, e scattò il gancio, che collegò nome, fisionomia e passato»

Arrivarono ch’era già buio. La casa aveva il tetto a falde molto spioventi, rivestite di tegole piatte e scure. Le massicce trabeazioni in legno a vista e le vetrate suddivise in riquadri scanditi da listelli bianchi, rimandavano a cose lontane nel tempo e nello spazio. Un vecchio edificio d’epoca coloniale. Più al suo posto in un villaggio inglese delle Midlands che lassù.

La stanza era ampia. Soffitti alti, letto scomodo. Un enorme catafalco ottocentesco, col materasso duro e un baldacchino avvolto d’inutili zanzariere. A millecinquecento metri sul livello del mare. Quali insetti portano la malaria tanto in quota, da quelle parti?

“Non la malaria, ma la dengue,” disse Rod, il ruvido gallese con cui Angelo viaggiava. In Malesia già da diversi mesi, lo erudiva sui rischi del posto.

Aria viziata, odore di muffa. L’umidità ristagnava nell’aria come un velo palpabile, che il malandato condizionatore non riusciva a dissolvere. Il depliant del room service, sul comodino, era ondulato e poroso come una sottile lama di spugna. Sistemò la roba in un monumentale armadio dalle ante a specchiera. C’era anche un comò, fin troppo spazio per i pochi indumenti che s’era portato. Si spogliò e si sdraiò. Era stanco.

 

Erano partiti all’alba da Kuala Lumpur, lui, Rod e l’autista indo-malese, a bordo di un pick-up nuovo fiammante, primo cespite della filiale. Fecero tappa a Ipoh, duecento chilometri a nord di KL, a visitare officine meccaniche che avrebbero potuto essere utili fornitori, in seguito. La fabbrica era situata in una zona periferica della città. Il nuovo nome che portava – Tenaga Berhad – non gli diceva nulla, era stato il vecchio ad attrarli lì. Quand’erano di proprietà della R&C di Brescia quelle officine avevano lavorato per numerosi progetti nella regione. Possedevano grandi calandre per sagomare tubi, forgiavano condotte d’acciaio, tralicci per linee elettriche, carpenterie per ponti. Ma era il nuovo nome – che designava una proprietà sino-malese – a campeggiare sulla grande insegna a tre facce issata in cima a un palo d’acciaio, giusto di fronte alla recinzione in pannelli prefabbricati e rete metallica che racchiudeva il compound. All’interno, separati da piazzali inghiaiati, quattro grandi capannoni industriali.

A quanto gli avevano detto, il direttore di produzione era italiano. Aveva considerato ciò un incoraggiante residuo del passato. Ma non era preparato a un retaggio tanto preciso da toccarlo personalmente. Quando lo vide apparire, unica faccia occidentale inquadrata nel corteo di tecnici e dirigenti malesi accorsi a riceverli, sulle prime non lo riconobbe. Fu solo allorché il padroncino sino-malese lo presentò, e scattò il gancio, che collegò nome, fisionomia e passato.

Aveva conosciuto Ugo Rovati nell’89, in Ghana. All’epoca la Compagnia costruiva una diga sul basso corso del fiume Volta. Le condotte forzate erano in subappalto alla R&C di Brescia e Rovati era il giovane responsabile dei montaggi. Aveva più o meno la sua età, entrambi sui trenta allora, e in quel cantiere avevano collaborato e litigato, come sempre tra un main contractor e il suo subcontractor. Litigavano in ufficio, nelle riunioni, a proposito di pezzi di carta: programmi, stati d’avanzamento, eccetera; ma poi collaboravano in cantiere, sul campo, dov’era interesse di entrambi che il lavoro andasse avanti spedito. La sera si ritrovavano al club, a bere e giocare a carte o a biliardo. E a stuzzicarsi sul lavoro del giorno dopo, ma anche a fraternizzare. Era durata un anno. Poi, completati i montaggi e relativi collaudi, Rovati era partito per il cantiere nuovo, trasferito dalla R&C in estremo oriente. Angelo ricordava d’avergli invidiato la nuova destinazione, il far east era una meta ambita.

E ora, eccolo lì, in mezzo a tutte quelle facce orientali; chi s’aspettava di rincontrarlo a Ipoh. Era invecchiato, in quei quindici anni, il fisico asciutto e longilineo che ricordava s’era parecchio appesantito; nel percorrere i corridoi della fabbrica, non riconobbe in lui l’andatura elastica che gli aveva ammirato, quando lo guardava muoversi per putrelle e tralicci, a venti metri dal suolo. Anche il viso – rettangolare, allungato, fronte alta, mascella quadrata – aveva come perso luminosità, s’era fatto cereo. Ma l’uomo era lui. Gli tenne gli occhi addosso, mentre ispezionavano macchinari e catene di montaggio; e non appena riuscì ad aprirsi un varco nella soffocante cappa di cortesia orientale, l’avvicinò.

Anche Ugo l’aveva riconosciuto. Ma la stretta di mano che gli restituì fu gelida e non ricambiò il sorriso. Quando Angelo, lasciandosi andate a un impulso che non ebbe ragione di reprimere, in memoria del vecchi tempi gli posò un braccio sulla spalla, Ugo si ritrasse, scostante e infastidito, visibilmente disturbato da quell’incontro. Il padroncino sino-malese si rimpadronì di lui, avvolgendolo nell’inglese cantilenante di lì, mentre i suoi tecnici snocciolavano dati, produzioni, ritmi di lavoro… Ugo retrocedette di qualche posto in fila, violando la rigida gerarchia di quel protocollo d’accoglienza, e per tutta la durata dell’ispezione alla fabbrica e poi nel corso della riunione che seguì, si tenne lontano, schermato dagli altri responsabili, tutti malesi.

Respinto, Angelo non insistette. Era lì per lavoro e si limitò a parlare esclusivamente d’affari. L’ispezione era stata soddisfacente. Le linee di produzione, di fabbricazione italiana e tedesca, erano dirette da ingegneri malesi; però i lavoratori che le operavano – fabbri, saldatori, carpentieri, tornitori, montatori – raramente lo erano. Si trattava perlopiù d’indonesiani, bengalesi, filippini. Working class industriale a basso costo immigrata presso il vicino ricco, di preferenza di religione musulmana, meglio accolta in un paese in cui appartenenze a razze e religioni contano. Conseguenza temporalmente sfalsata rispetto al trasferimento di tecnologia, anche la maggioranza dell’azionariato e il controllo della fabbrica erano passati in mani orientali. Il padrononcino rappresentava una ricca famiglia malese di etnia cinese, la casta degli affari laggiù. Fu con lui che Angelo discusse ciò che le officine Tenaga potevano fornire al progetto.

Oltre Ipoh, proseguirono verso est e finalmente l’incontrarono. Non ne avevano vista molta, di jungla, fino a quel punto. L’autostrada che da KL sale a nord, percorrendo il versante occidentale della penisola, corre attraverso un paesaggio monotono. Reso tale dall’uomo. Sterminate distese di palme da olio hanno uniformato e rimodellato il paese. La jungla è intermittente, episodica: piccole isole vegetali dense e caotiche, disseminate in un mare ordinato di palmizi.

Salendo in quota, verso Tanah Rata, il paesaggio cambiò. Superate le fasce collinari che introducono l’altopiano, la strada s’inerpica per rilievi più aspri, si stringe – un sottile nastro d’asfalto ripiegato in tornanti – e si tuffa in un oscuro ammasso vegetale. Per un tratto abbastanza lungo c’è finalmente jungla tutt’attorno: una compatta muraglia d’alberi e fogliame, entro la quale le vie di transito penetrano a fatica. Si procede lenti, tra molte interruzioni: lavori in corso qua e là per rinforzare muri di sostegno, stabilizzare scarpate, rimuovere tronchi e bamboo abbattuti dalle piogge. La strada richiede una continua opera di manutenzione per impedire alla jungla di riprendere possesso del territorio, richiudendosi su se stessa e cancellandola.

Ma la jungla non dura. Superati i primi e più erti gradoni dell’altopiano e scendendo verso la valle del Bertram, il paesaggio cambia ancora. La zona intermedia di Cameron Highlands, interamente antropizzata, è una delle principali aree malesi d’orticoltura intensiva in serra. Serre dappertutto, nei solchi vallivi e sui fianchi delle colline, appese a pendici ripide, fin quasi in vetta. Più in alto, prima dell’ingresso a Tanah Rata, piantagioni di tè. E s’arriva infine alla Smoke House, antico resort coloniale dalle pareti tappezzate di foto d’epoca. Nella hall, sopra il banco della reception, pende un grande ritratto di William Cameron, topografo della Royal Geographical Society, che sul finire dell’Ottocento esplorò queste alture.

 

Doveva essersi appisolato una mezz’ora, su quel vecchio catafalco dal materasso duro. Si tirò su e fece una doccia. All’ora convenuta scese dabbasso a incontrare Rod. Trovarono il ristorante gremito di comitive, perlopiù cinesi, in visita alle piantagioni di tè, alle vicine propaggini di jungla e a tutto ciò che pacchetti turistici ormai abbastanza ben confezionati propongono a middle-class travellers asiatici e occidentali in cerca di nuove destinazioni. Probabilmente lui e Rod erano i soli ad alloggiare lì per lavoro. Si trovarono un tavolo libero e ordinarono la cena alla gentilissima ragazza velata subito accorsa a servirli. Mentre mangiavano, ci tornò su. Quell’incontro l’aveva stranito.

“Eravamo abbastanza amici, in Ghana. Non so che gli ha preso. Non mi ha quasi rivolto la parola.”

“Bah, sono passati tanti anni…” commentò Rod, senza interesse.

“Tutta quella cerimoniosa accoglienza orientale e lui invece… Respingente, quasi offensivo.”

“Forse non gli stavi poi così simpatico.”

“Era più che antipatia. Ostilità. Pareva ce l’avesse con me per qualcosa.”

“Ma va’… e poi che ti frega, è lavoro e basta. Tutti gli altri ci hanno accolto benone, srotolavano i tappeti rossi… guarda, di sicuro non c’entri, è solo umore. Avrà litigato con la moglie. E’ andato in bianco stanotte…”

Scoppiò in una risata e finì lì. Viaggio di lavoro, cena di lavoro. Poco altro da spartire, con Rod, lavoro a parte. Non valeva la pena di parlarne con lui. Non la persona più adatta a fare chiarezza su un turbamento. Salì su in camera e si coricò. Stava per prender sonno, quando dalla reception gli passarono una chiamata.

La voce di Ugo Rovati, dall’altra parte, risuonò cauta, prudente. Sembrava tastare il terreno. Angelo si chiese come avesse fatto a pescarlo lì. Non ricordava d’avergli menzionato né Tanah Rata né la Smoke House. Doveva aver fatto dei tentativi, chiamando tutti gli alberghi in zona… Per di più, quel che aveva da dirgli non valeva certo una telefonata a quell’ora.

Volle discutere puntigliosamente la lista di forniture che Angelo aveva lasciato in officina. Parlarono di prodotti, consegne, caratteristiche tecniche di materiali… e a mano a mano che andava avanti, gli era sempre più chiaro che dietro quell’elenco di merci e dati tecnici, c’era dell’altro. Rovati parlava lentamente, sembrava scegliere con cura le parole. Presero accordi per la seconda visita, due giorni dopo.

Quando riattaccò, prima d’addormentarsi, si chiese cosa fosse cambiato in quelle poche ore. Nel tempo trascorso dall’incontro del mattino, qualcosa doveva essersi mosso nella testa di Ugo. Sostanze sedimentate e ricomposte, trasformazioni richiedenti una certa durata. Cosa fossero esattamente, quei passaggi, Angelo si disse che probabilmente l’avrebbe capito al prossimo incontro. Per quella sera, si limitò a chiedersi quanta fiducia dovesse accordargli. E si rispose che era, prima di tutto, un rapporto d’affari. Come in Africa.

 

Dormì profondamente e la mattina dopo, quando alle sei e mezza si trovarono con Rod a colazione, la sala ristorante era già gremita. Odore di soffritto e di zuppe orientali eccessivamente speziate si levava dai contenitori allineati lungo la parete del buffet. Passarono in cucina a ritirare il pranzo al sacco che avevano ordinato – sandwich, acqua e un thermos di caffè – e partirono.

Il Bertram in quel tratto scorre entro una valle profondamente incisa. La strada passa alta, in sponda destra. Trovarono una piazzola dove lasciare il pick-up poco lontano dall’imbocco del sentiero. Era ripido e coperto di fogliame, gli stivali affondavano nell’ammasso di frasche molli. Fatti pochi passi, perso di vista il ciglio della strada, s’entrava in un’avvolgente penombra vegetale, umida e nebbiosa, che uniformava tutto: smorzava colori, sfioccava contorni, attutiva rumori.

Sceso il dislivello, la foresta diradò e prese luce. La lama d’acqua scorreva al centro, nell’alveo di magra, larga non più di una sessantina di metri. Sia in sponda destra che in sponda sinistra rocce grigie e banchi di ghiaia emergevano dalla corrente. Affioramenti di continuità sufficiente a tracciare un percorso nel flusso lento, quasi fermo. Camminandoci sopra, risalirono il greto fino al tratto in cui, a occhio e croce, la mappa indicava la sezione d’imposta.

Stesero i disegni su un masso piatto e largo e li orientarono. Cercarono punti notevoli che li aiutassero a mettere la pianta a terra: un isolotto petroso in mezzo all’alveo, uno sperone di roccia che schiacciava la corrente contro la riva. Localizzata l’area, ispezionarono la parte alta della sponda e individuarono uno dei capisaldi. Il pilastrino di cemento era stato lasciato dalle ricognizioni di coloro che li avevano preceduti. Portava in cima un chiodo marcato in giallo, che sulla carta corrispondeva a un punto di coordinate e quota noti. Da lì, con l’aiuto del disegno e misurando a passi, individuarono l’asse della diga.

Il resto fu lavoro manuale, fatica di muscoli e non più di testa. Raccolsero le pietre e le ammucchiarono sulla sponda. Piccoli cumuli distanziati di venti passi circa, dal limite dell’acqua fino al punto in cui la pendenza cambia e l’alveo di piena muore contro una ripida scarpata erbosa, in parte erosa dalla corrente. Con la bomboletta spray verniciarono di rosso la cima dei cumuli, per ritrovarli poi. Era tutto, per quel giorno. Si fermarono a mangiare i sandwich sullo stesso masso piatto e largo dove avevano steso i disegni. Quindi rientrarono, percorrendo a ritroso il sentiero.

La sera li raggiunsero alla Smoke House i topografi di Kuala Lumpur. Quattro, a bordo del secondo pick-up appena consegnato in filiale, cespite numero due del progetto. Nel cassone, sotto un telo legato con corde di canapa, l’attrezzatura spedita dall’Italia: teodoliti, livelle, paline, treppiedi. Visto che avevano due macchine, poterono dividersi. Rod e i topografi sarebbero tornati sul sito diga, ad agganciare al caposaldo un primo rilievo del terreno. Con l’altro pick-up Angelo tornò a Ipoh, alle officine Tenaga. Lì rincontrò Ugo.

 

Il secondo incontro fu molto diverso dal primo. Come gli era parso al telefono, Ugo sembrava un’altra persona. Aperta, disponibile, interessata al lavoro. Per tutto il giorno non parlarono d’altro, in italiano, il che tagliò fuori il padroncino cinese. L’ometto capì al volo e si ritirò in buon ordine. A lui non importava partecipare, gli bastava tenere alti i prezzi, occuparsi dei conti e concludere un buon affare. Per tutto il resto, lasciò fare a Ugo.

Lavorarono sulle liste di magazzino, definendo i dettagli tecnici degli oggetti necessari e distinguendo tra quelli che l’officina poteva fabbricare da sé e quelli che, tramite il suo ufficio acquisti, avrebbe dovuto approvvigionare fuori, cercandoli sul mercato locale. Organizzare i trasporti, la logistica, i montaggi. Trainato dal lavoro, il rapporto scivolò liscio, come ai vecchi tempi. Non si stupì del fatto che, a fine giornata, Ugo lo invitasse a cena e gli offrisse ospitalità per la notte.

Era tardi, già buio. Non aveva davvero voglia tornare su a Cameron Highlands, due ore di macchina per vie di montagna a quell’ora. Accettò. Nei suoi retropensieri, continuava a chiedersi cosa ci fosse dietro quel cambiamento. La sera, quando cenarono assieme, seppe cos’era.

 

La casa era situata su una collina in quella che probabilmente era la parte più signorile della città. Una villa unifamiliare circondata da un po’ di giardino. La moglie di Ugo era una donna malese di bell’aspetto, originaria del Sarawak. Si chiamava Nur ed era forse di una decina d’anni più giovane, aveva capelli corvini, lineamenti del viso sino-malesi, carnagione chiara, traslucida, quell’effetto porcellana che hanno certe belle donne laggiù; indossava un elegante kebaya di seta turchese. Servì da perfetta padrona di casa una cena orientale introdotta dal tradizionale satay, gli spiedini malesi, seguiti da dumpling al vapore di crostacei e vegetali e pesce cotto al vapore insaporito con erbe aromatiche. Per tutta la durata della cena parlarono solo in inglese. Nur fece del suo meglio per condurre la conversazione; che inevitabilmente, in sua presenza, fu vacua e superficiale. S’informò se Angelo fosse sposato (non lo era) se avesse figli (non ne aveva) quanto tempo passasse all’estero in giro per cantieri e quanto a casa e dov’era questa casa (Angelo optò per Roma). Dal canto loro, Nur e Ugo (parlò soprattutto Nur) gli fecero sapere di avere due figli (un maschio di otto anni e una bambina di cinque) e un’altra casa, la principale, a Kuala Lumpur. Ugo era basato a Ipoh per lavoro, ma ogni due settimane rientrava a KL per un long week-end. Talvolta, come quel giorno, era Nur a raggiungerlo a Ipoh. Angelo non poté non notare la tensione latente che ambedue si sforzavano di dissimulare. E qualcosa di triste, di rassegnato, nello sguardo ora dell’uno ora dell’altra che affiorava a tratti, mentre scambiandosi la parola e sostenendosi a vicenda cercavano di tracciare il quadro più sereno possibile del loro ménage. Dopo il dessert e un bicchiere di passito, finalmente Nur si ritirò. “E’ ora di lasciare gli uomini da soli,” disse, servendo i liquori. E Angelo pensò: adesso verrà fuori.

Difatti, via lei, la conversazione virò all’italiano e prese corpo. Trattò ancora di lavoro. Non al presente, però, al passato. Ciò che quei quindici anni avevano rappresentato. Dopo il trasferimento in far east, Ugo aveva lavorato per la R&C in un paio di progetti, finché era stato promosso capofiliale. Si era dimostrato in gamba, nel ruolo – uno dei non frequentissimi casi in cui da un bravo tecnico esce fuori un buon manager – e aveva molto allargato il giro d’affari in estremo oriente, fino a dirigere diverse commesse dalla base di Kuala Lumpur. Intanto aveva incontrato Nur, l’aveva sposata, avevano avuto il primo figlio. Poi le cose erano cambiate. Dalla fine degli anni Novanta l’espansione commerciale cinese e la crescita delle economie locali – le cosiddette ‘tigri asiatiche’ – avevano profondamente mutato il mercato. La R&C non era stata più in grado di reggere la concorrenza. Non potendo lavorare a quei prezzi, aveva venduto le società locali e si era orientata verso aree di mondo in cui potesse competere. Ugo fu richiamato a Brescia con un incarico di prestigio. Era uno dei più giovani direttori di sede, uno dei rampanti.

Ma Nur non si era adattata a Brescia, alla vita italiana e dopo un po’ era tornata in Malesia, portando con sé il bambino. Fece su e giù per un paio d’anni, a intervalli sempre più radi. Quando nacque la bambina – a Kuching, Sarawak, presso la famiglia di lei; in assenza di Ugo, trattenuto in Italia per lavoro – furono messi davanti a una scelta.

Ugo la fece, a suo dire, con consapevolezza. Questo sostenne di fronte ad Angelo in quel dopocena. Grazie al padre di Nur – uomo d’affari di peso, in Sarawak, con importanti interessi nello sfruttamento e commercio del legname – ricevette una buona proposta dal gruppo sino-malese che aveva rilevato le attività della R&C in far east. Si licenziò dalla sua vecchia azienda e si trasferì a KL, poi a Ipoh. Da tre anni dirigeva le officine della nuova società lassù.

Nel raccontare tutto questo, Ugo si sforzò di non mostrare rimpianti. Si dichiarò soddisfatto della situazione: lavorativa, economica, familiare. Lo pagavano bene. La vita in Malesia era facile. La famiglia di Nur era ricca. Costituiva per loro un appoggio sicuro. Non gli mancava nulla. Così disse e Angelo non lo smentì.

Quando si ritirò, nella confortevole camera per gli ospiti dotata di bagno privato che Ugo e Nur avevano fatto preparare per lui – avevano una governante, che si occupava della casa, più altro personale domestico, lì si trovava a basso costo e con facilità – Angelo non poté non ripensare alla prima reazione di Ugo, quando se l’era trovato davanti alle officine Tenaga. Ora sapeva a cos’era dovuta. Un uomo che ha abbandonato un lavoro e un paese per una donna e una famiglia, quando rincontra all’improvviso quello stesso lavoro in una faccia di casa, e vi si specchia… Gli ci erano volute alcune ore, per incassare il colpo. Per tornare a essere – o forse, più correttamente, solo apparire per la durata di un giorno – l’Ugo equilibrato, pragmatico, seriamente impegnato nei propri compiti, solido e stabile che ricordava. Ma era scomparso, quell’Ugo. Ingoiato dall’esilio a Ipoh, dalla famiglia di Nur, dal padroncino cinese, dissolto nel mediocre tran-tran delle officine Tenaga.

 

Il giorno dopo, a Tanah Rata, ne parlò ancora con Rod, suo legnoso confidente di questa storia. Ebbe di nuovo bisogno di un contrasto esterno per chiarire a se stesso l’inquietudine e il disagio che gli aveva trasmesso quella cena, la punta d’amaro che gli era rimasta della tristezza negli occhi di Ugo –  e anche di Nur – le finzioni che sostenevano quel legame e la sua mancanza di prospettive.

Rod non ci mise molto a trarre le conclusioni: “Perché diavolo ha fatto una fesseria del genere?” Sbottò sbrigativo. E stavolta gli fu utile, la sua rozzezza. Gli consentì di uscire dall’impasse di quel turbamento, portando a maturazione un’idea che fin dal primo incontro con Ugo, confusamente, gli serpeggiava per il cervello. Forse Rod aveva ragione o forse no, o non del tutto. Ma a lui, Angelo, s’offriva un’occasione. Poteva congiungere due utilità. Era utile alla Compagnia, all’inizio di un progetto in un paese nuovo, avere a bordo una persona già esperta del posto, come Ugo. Ed era utile a Ugo aver di nuovo a che fare con una diga, un’opera di livello realizzata da un’impresa italiana laggiù. Quel progetto sarebbe durato almeno cinque anni. Un arco temporale ragionevole. Poteva ottenere da quella situazione un vantaggio per l’opera. E dare al tempo stesso una mano a un vecchio compagno.

Avrebbe proposto alla Compagnia di subappaltare alle officine Tenaga la supervisione dei montaggi di paratoie e condotte forzate, purché ne fosse Ugo il responsabile. E avrebbe posto la stessa condizione al padroncino sino-malese, se voleva l’appalto. Era abbastanza sicuro di riuscire a convincere sia l’una che l’altro. E si sentì più leggero, come se quell’incastro lo scaricasse di un peso. Sembra dare un senso alle cose – a quell’incontro – trovare di queste combinazioni. E magari aspettarsi, chissà, che possano pure funzionare. Dormì molto meglio, quella notte.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

Facebooktwitterlinkedin