A Palazzo Braschi di Roma
Artemisia e le altre
Una grande mostra riscopre le donne pittrici che hanno animato l'arte della Capitale dal Cinquecento e la metà dell'Ottocento. Con molte importanti scoperte (non solo la Gentileschi...)
Roma pittrice. Il titolo che battezza questa mostra, in scena fino al 23 aprile nel museo di palazzo Braschi, e la iscrive tra le più stimolanti di questo scorcio di stagione, è già un primo sofisticato guanto di sfida. Perché ruba con misurata ironia l’intestazione di due saggi che, date alla mano, assegnavano a Firenze e Bologna la primogenitura delle scuole per inserire le donne nel mestiere e nel mercato dell’arte. E affida ad uno straordinario campionario di immagini in gran parte inedite la dimostrazione che anche Roma, tra la fine del Cinquecento e la metà dell’Ottocento, capitale internazionale del potere pontificio e crocevia obbligato del Grand Tour, ha le carte in regola per rivendicare il primato, grazie alle artiste che ha accolto dalla nascita o ospitato, istruite, remunerate e poi messe al lavoro.
Un’iperbole di legittimo orgoglio di cui le tre curatrici, Ileana Miarelli Mariani, Raffaella Morselli e Ilaria Arcangeli sono ben consapevoli: sulle pagine e negli archivi della storia dell’arte di quei tre secoli riesumati per l’occasione la presenza femminile era e resta una esigua minoranza, quasi sempre mal registrata o comunque precipitata nell’oblio.
Pochi, si contano sulle dita di una mano, i nomi che hanno sfondato la soglia della notorietà. Per estrarre gli altri ci sono voluti mesi e mesi di lavoro a recuperare attestati, documenti, rintracciarne e inquadrarne le opere, a volte persino battezzarle come loro, camuffate come erano dietro attribuzioni a mariti, padri, parenti, maestri, protettori, che le hanno introdotte o ne hanno spianato la strada.
Un destino nebbioso di incertezze e omertà patriarcali da cui sono state sfilate le 56 biografie e i 130 lavori, tra tele, incisioni, disegni e sculture, che questa mostra dispiega. Impresa premiata da un bilancio comunque prezioso perché contribuisce a demolire l’ostinata e prevalente tendenza a catalogare le vicende dell’arte su rigide classifiche di eccellenza, dimenticando la trama delle collaborazioni, degli stimoli, degli scambi, dei contributi d’officina sulla quale la pittura ha costruito la sua fortuna e la sua capacità di farsi specchio parlante della propria epoca.
È qui che prende corpo la vera sfida che dà rilievo da evento a questa mostra. Il resto è affidato al piacere dell’occhio, qui ampiamente ricompensato, e agli spunti di riflessione, alle domande che dischiude,
A partire dal piccolo quadro, che apre idealmente il percorso. Una rarità iconografica che segna una sorta di simbolico attestato tra colleghi del nuovo ruolo che le donne stanno conquistando sulla scena romana. Lo firma un uomo, Pietro Paolini, tardo manierista toscano, di seconda fila ma di indubbia maestria.
È un ritratto di una ragazza al lavoro in una bottega. Un volto e un nasone da popolana immerso in una diffusa luce caravaggesca, il capo incoronato da un cappello nero che fa già divisa creativa, regge in mano una lastra inchiostrata e nell’altra un bulino, con cui sta riproducendo un vaso di fiori messo in posa sul tavolo. Una natura morta, tema giudicato allora particolarmente adatto allo sguardo e al tocco leggero di una mano di donna.
E un’incisione. Una specialità di riproduzione molto in voga per immaginette d’arredo o illustrazioni di trattati di botanica, nella quale il lavoro femminile
veniva con sempre maggiore frequenza incanalato. Soprattutto a Roma, mercato d’eccellenza dei souvenir, degli scambi di doni fra le corti europee, e delle illustrazioni a stampa, riconquistato dalle strategie di rilancio politico e culturale di pontefici illuminati come il bolognese Gregorio XIII Boncompagni, il primo papa ad aprire alle donne le porte dell’Accademia di San Luca, centro di formazione d’eccellenza. Ammesse ovviamente al prestigio de titoli accademici ma con riserva, non al voto o alle decisioni che contano.
Quanto basta comunque per aspirare e ottenere il favore dei committenti più ricchi e di rango e realizzare opere per decorare chiese e palazzi nobiliari. Come è capitato a Lavinia Fontana (1552-1614), figlia d’arte sicuramente più dotata del padre Prospero che l’ha addestrata e guidata alla professione. Approdata non a caso a Roma proprio da Bologna. E subito spinta verso un palco d’onore.
Le chiavi con cui Lavinia ha conquistato il cuore e il portafogli del pubblico romano si ritrovano in gran parte nell’autoritratto che apre il siparietto d’onore che qui le è stato riservato.
Il primo biglietto da visita è quel mettersi in posa alla tastiera di un clavicembalo che la qualifica come una signora colta che sa occupare il suo posto nei salotti altolocati. Ma l’amo più importante è nella sua pittura intensa e accattivante, capace di condensare col pennello le lezioni del manierismo e quelle del nuovo filone della ritrattistica fiamminga inaugurato da Rubens, addolcendone ma non banalizzandone gli eccessi nel sottolineare il rilievo centrale del corpo come motore dei sentimenti. Una grazia di toni che incontra l’immediata approvazione della platea femminile aristocratica che sta cominciando ad imporre regole e gusto nella conduzione della vita culturale e mondana.
Donne di sangue blu, sensibili al cambiar delle mode, che sostengono altre donne e offrono alle artiste sulla piazza l’appoggio di un maternage decisivo per farle emergere dall’ombra, una regia occulta che si intensificherà nei secoli successivi.
Ne terrà profitto l’altra indiscussa superstar dell’epoca, di estrazione sociale più bassa. Artemisia Gentileschi (1593-1654) anch’essa figlia d’arte, un padre maestro, Orazio, dotato, famoso e severo ma troppo distratto per evitare a quell’allieva adolescente lo choc di uno stupro da parte di un suo collega, abile e stimato rifinitore di affreschi. Lo scandalo del processo contro il violentatore, che fu condannato, le torture e le calunnie a cui la espone, costringono Artemisia al trasloco. A Firenze, alla corte di Cosimo de Medici.
Il padre Orazio le spiana la strada, un matrimonio di convenienza con un pittorucolo senza ambizioni le garantisce un riparo spendibile, l’accoglienza riservata ai suoi quadri supera ogni aspettativa. Premi impensabili senza il concorso attivo ma sottotraccia delle nobildonne più influenti della città, che la critica sta sforzandosi negli ultimi anni di documentare e studiare. Un’adozione che premia il coraggio della donna ribelle, ma trova stimoli d’identificazione soprattutto nella qualità inedita della sua pittura, che libera e infonde verità senza veli alla forza carnale del corpo femminile, al tormento e al piacere segreto di viversi donna.
Una voce fuori dal coro con cui parlano anche le tele, esposte qui a Palazzo Braschi. Eseguite a Londra e poi a Napoli dove la Gentileschi si trasferisce, dopo altri soggiorni, quattro figli da mantenere, altri collezionisti da catturare, altri grandi maestri oltre Caravaggio da cui trarre linfa. In Inghilterra è stato probabilmente ultimato il quadro che più mi ha colpito. Una Giuditta e Oloferne. Rifacimento di una scena immortalata da Caravaggio e dal padre e poi riscritta da uno dei suoi primi capolavori. Sparito il guizzo quasi iperrealistico di quel flusso di sangue con cui l’artista romana aveva pennellato la propria rabbia vendicativa, resta però e conquista il primo piano la lama del coltello, una luce di morte che svanisce nel buio.
E l’invenzione al femminile si concentra su quella testa decollata. Barba e capelli isolano la faccia come una maschera. E quell’occhio spento inquadrato di lato sembra suggerire la fessura di una vulva. Una cicatrice cieca di una violenza calcolata e subita. Il sesso come arma più affilata ed efficace. Alle sue nobili fans, forse prima che ai loro mariti, la Gentileschi offre teatrini più o meno cifrati di pura e impura carnalità. Artemisia parla il linguaggio del corpo e non esita a metterlo e a mettersi a nudo, perché è lì la contesa col potere e lo sguardo dominante dei maschi. Esemplare la prorompente sensualità con cui ritrae il suicidio di Cleopatra, esposto lì a fianco.
Altre artiste ci proveranno, nel viaggio di secoli in successione di questa mostra. Cambiano i tempi, cambiano i codici e le apparenze, i camuffamenti della morale. E non sono passi in avanti.
Ecco in una sala più in là un autoritratto allegorico di Angelica Kauffmann (1741-1807), altra stella del cast, questa pittrice di sangue svizzero che a Roma trascorre i suoi ultimi venti anni, un’attrazione da Grand Tour, accolta e promossa da cenacoli potenti e aggiornati, sposando il distacco idealizzato del neoclassicismo. Immortalandosi come musa del suo mestiere l’artista si trascina in un ritorno all’antico, indossando un peplo che le lascia un seno scoperto, il capezzolo accennato da un’ombreggiatura impalpabile. La nudità rivestita dalla maschera del pudore.
Esibirsi senza veli è un privilegio che il clima della restaurazione alle porte concede solo a poche donne d’alta classe, capaci di domare lo scandalo. Come Paolina Borghese. Prova a imitarla qualche anno dopo in questo capriccio un’altra consanguinea di Napoleone, sua nipote Charlotte Bonaparte, (1802-1839) che usa i pennelli con mano abile ed elegante, ritraendosi con un abito che le lascia in vista oltre la norma il suo decolletè. Il quadro è ora esposto al museo napoleonico, il busto nascosto da un velo, per volere di un suo parente cardinale.
Difficile per le donne che aspirano a una professione creativa misurarsi con il proprio corpo e chiarire anche a se stesse il senso che affidano alla bellezza, imprigionati come sono entrambi, corpo femminile e bellezza, nel perimetro dell’invenzione, dai canoni patriarcali dell’arte come mitologico territorio maschile. Ce lo conferma anche la passerella, in gran parte inedita di questa mostra. I tre modelli, principali su cui a spanne tutte le biografie artiste ripescate si indirizzano restano le tre dee che si presentano al giudizio di Paride: il potere in famiglia di Giunone, la razionalità di Minerva, l’avvenenza seduttiva di Venere. Sceglierne una, e magari trarne profitto, è comunque cedere l’arbitrato ad un maschio padrone, rassegnarsi a una guerra di Troia senza fine.
O lasciarsi ingabbiare da qualche travestimento intermedio.
Come la modestia, alla quale Guglielmo De Santis, pittore romano a cavallo tra Ottocento e Novecento, inchioda in un quadro il ritratto idealizzato della figlia Erminia (1840-1919) che ha avviato in carriera: un volto da vergine incorniciato da un velo da sposa. La castità come un vincolo insuperabile da copista, che mortifica il suo talento e la sua natura sicuramente più complessa ed ombrosa, che traspare dalle tele recuperate da vari fondi comunali: rivelatrice una natura morta con testa di cinghiale del 1890 ribattezzata Una vittima innocente.
Come la grazia. Apprezzamento che accompagna la brillante carriera italiana della tedesca Louise Sadler (1786-1866), unica donna ammessa nel sofisticato cenacolo dei Nazareni. Apprezzamento molto riduttivo a guardar bene i due ritratti di donne qui esposti, l’intensità enigmatica e sospesa dei volti, il colpo d’ala con cui l’autrice li trasforma in imperdibili souvenir, inquadrando con artificio di sentito mestiere sullo sfondo due nostalgiche cartoline del Vesuvio fumante e del Colosseo.
Come la leggerezza, una definizione in antitesi con la drammaticità da teatro dell’assurdo delle opere del padre Giovanni Battista Piranesi, che umilia le incisioni di sua figlia Laura (1720-1780) e le archivia ingiustamente in un limbo
di disattenzione. Pagine di una storia dell’arte che sarebbe stimolante completare. Come ne discutevano – l’avranno sicuramente fatto – padre e figlia? Quanto ha pesato a confezionare questa cappa di oblio il fallimento della bottega di stampe che Laura gestiva nel centro turistico di Roma e alimentava con i suoi lavori? Perché la critica specializzata è calibrata sulla figura dei vincitori, mai sui perdenti che si prestano a loro controfigure?
Seminare domande è il compito che questa mostra prosegue. E con cui dovrebbe raggiungere almeno un pubblico meno frettoloso, più portato scoprire che a riconoscere. Giustamente l’hanno costruita così, sfruttando il numero preponderante di ritratti e autoritratti come un gioco di specchi. Guardiamo facce che a loro volta ci guardano. E quegli sguardi sono davvero uno diverso dall’altro, ti spingono all’interpretazione e al confronto.
Il più spaesante, quasi un manifesto sul mistero della consapevolezza femminile, è quello datato 1888 di una damigella inglese, pioniera del femminismo, due occhi che non ci si puntano addosso ma si perdono nel problematico orizzonte di un futuro lontano. La lotta per l’emancipazione delle donne inizia proprio lì e in quegli anni: una battaglia lunga e faticosa, affrontata almeno all’inizio di sbieco.
Una sorpresa – confessano le curatrici – la figura dell’autrice: Emma Gaggiotti (1825-1912), una biografia mai prima studiata, amici e sostenitori di prestigio come Hayez che le dedicò persino un ritratto, e Gioacchino Belli che la immortalò in un sonetto. Pagine emerse a poco a poco che registrano la sua partecipazione attiva alla repubblica romana del 1849 e la sua ammirazione per Garibaldi. Trascorsi da pasionaria che sicuramente la spinsero a cercare rifugio e aria più respirabile a Londra, garantita dal matrimonio con un notabile e giornalista inglese, Alfred Richards. Il legame trasformato in amicizia dopo appena un anno le agevolò l’ingresso alla corte della regina Vittoria che le commissionò un autoritratto che fu esposto nel 1859 alla Royal Accademy. Una copia di quel quadro, che valeva la promozione in alta classifica, arriva qui in prestito dagli Uffizi di Firenze, dove era giunta ed era stato archiviata sotto altra firma.
Un colpo di spugna: a molte pittrici che tornano in passerella a palazzo Braschi neanche gli incassi di fama guadagnati nel proprio tempo d’ascesa offrono garanzie di lunga durata in una provincia della cultura europea, maldicente, perbenista e maldisposta verso le donne fuori del coro, come l’Italia seconda metà Ottocento, che insegue e corona il sogno di regno unitario sotto i Savoia.
In soffitta finisce non solo il nome di Emma Gaggiotti e il ricordo di un’intellettuale scomoda. Ma anche il singolare percorso anticipatore di una pittrice che cominciava a misurarsi con l’avvento e la concorrenza di un nuovo mezzo espressivo. La fotografia.
Da una foto, rispuntata dagli archivi capitolini nella fase di gestazione di questa mostra, nasce l’autoritratto inglese, datato 1853, che è probabilmente il suo capolavoro per quell’austerità sintetica e gessosa che l’impressione su una lastra conferisce al suo volto e allo sfondo che l’incornicia, accentuando la determinazione delle labbra e dello sguardo. E da un’altra foto è stato ripreso quell’interno di famiglia, il marito e altri nuovi parenti inglesi in posa per un souvenir da inviare in Italia, che Emma ha dipinto in quello stesso anno Iscrivendosi in quello scorcio di gruppo su un lato, la stessa pettinatura, lo stesso sbuffo di trine dal colletto, diverso solo il colore dell’abito, rosso e non nero. Come una figura separata e distante, da direttore d’orchestra, che prende il suo posto in scena in un secondo momento, per riscuotere come si usa un applauso solo per lui. Un effetto così calcolato da sembrare un esperimento di fotomontaggio, un trucco da illusionista. A me gli occhi, please.