Una storia famigliare
Nonna Luisa
«Qui tua nonna Luisa deve avere avuto vent’anni, perché a quei tempi ci si sposava presto. E come ti ho già detto altre volte, lei è morta giovane: è stata lei la prima a essere colpita dalla sfortuna della nostra famiglia»...
“Tanto lo so io di chi è la colpa, la colpa è tutta di tua nonna Luisa.” I discorsi della zia Liliana, quando era di pessimo umore, cominciavano sempre così. A volte, quando la bufera era passata, la zia andava in soggiorno e tirava fuori dall’ultimo sportello della libreria una fotografia ingiallita dal tempo, dove una giovane alta e robusta, ma col volto dai lineamenti minuti, nonna Luisa appunto, era ritratta in piedi. Accanto a lei nella foto c’era un uomo vestito di nero, così lugubre da sembrare suo padre, ma che in realtà era suo marito. I due, sposati da poco, si erano fatti fotografare durante il loro viaggio di nozze a Trieste, come attestava il timbro del negozio sul retro. A me faceva sempre uno strano effetto prendere in mano quella foto da cui la nonna, che non avevo mai conosciuto, mi fissava con un sorriso enigmatico. Ma la zia Liliana me la sottraeva alla svelta, sostenendo che la fotografia non andava guardata troppo a lungo e che un giorno o l’altro avrebbe fatto una brutta fine, anche se fino ad allora non aveva mai trovato il coraggio di strapparla.
“Qui tua nonna Luisa deve avere avuto vent’anni, perché a quei tempi ci si sposava presto. E come ti ho già detto altre volte, lei è morta giovane, quando è nato il tuo babbo”, diceva la zia Liliana. Per poi proseguire, inarcando le sopracciglia e abbassando la voce, come se parlasse di una malattia di cui vergognarsi: “È morta di flebite, una flebite post-partum, è stata lei la prima a essere colpita dalla sfortuna della nostra famiglia, o meglio della famiglia Palmieri, perché era quello il suo cognome da ragazza”.
La sfortuna ereditaria a cui si riferiva la zia non era di tipo medico però, come mi ripeteva nei lunghi pomeriggi di estate, in cui io venivo scaricata da mia madre a casa sua perché la tata era andata in ferie. Era allora che la storia di nonna Luisa mi veniva riproposta spesso, arricchendosi ogni volta di un nuovo particolare, che la rendeva sempre più leggendaria.
“Nonna Luisa era una donna ricca, parecchio ricca, si vede anche dal collo di pelliccia che indossa nella foto, ma chi ce l’aveva a quei tempi una stola così? A occhio e croce direi che si tratta di una volpe, una volpe argentata.” La zia, con il ventaglio in mano perché soffriva il caldo, affondava la sua mole nel divanetto di cucina, facendone vibrare le molle, mentre la veste da casa le risaliva lungo le cosce, lasciando scoperte le gambe robuste sui cui spiccava una rete di capillari venosi. Quello che sapevo per certo era che lei un collo di pelliccia non ce l’aveva. “Tuo nonno, nonno Ersilio, l’aveva sposata per i soldi, perché lei aveva una grossa dote. Pare che fossero centomila lire. Centomila lire nel 1926.” “Erano tante?” chiedevo io. “Tantissime. E sono ancora in banca, bloccate. Sennò io non sarei mica qui.” Zia Liliana ruotava leggermente la testa spettinata indicando la cucina trasandata, dove i piatti sporchi erano accatastati nell’acquaio e per terra c’era un tappeto grigio che una volta doveva essere stato rosa. L’unico mobile bello era una credenza di legno scuro, di buona fattura, al cui interno si intravedevano dietro alle vetrinette delle tazze di porcellana, appartenute, come il mobile, a nonna Luisa.
“Ma lui, il nonno Ersilio, le faceva fare una vita d’inferno, tirchio com’era. Tanto gli uomini sono tutti uguali, sempre pronti a rovinarti la vita. Un giorno lo capirai anche te”. Che parlando di uomini con disprezzo la zia Liliana si riferisse a suo marito non c’erano dubbi. Zio Raffaele il fratello di mio padre, era un uomo grassottello, dallo sguardo mite, lo stesso della ragazza della fotografia. Zio Raffaele trascorreva la maggior parte del tempo fuori casa, con la scusa di un lavoro impegnativo: in realtà faceva il custode al Comune, ma era sempre preso da qualche commissione. “Ora che ci penso devo fare un servizio”, era la frase con cui usciva di casa appena sentiva una nube addensarsi sulla sua testa. Il che succedeva spesso, perché la zia Liliana trovava sempre qualcosa per cui rimproverarlo.
“Comunque i soldi di nonna Luisa non era stati fatti in maniera onesta, è questo il problema, il nostro problema”. Quel “nostro” pesava come un macigno nella frase di zia Liliana, che sottolineava la parola indicandomi con il ventaglio chiuso. Era in momenti come quelli che il suo volto, con gli occhi scuri, dove il nero dell’iride si confondeva con quello della pupilla, il naso a patata, e i capelli biondi struffati, ricordava, a me che ero fissata con i fumetti di Topolino, la strega Nocciola. “Perché il vecchio era emigrato in America, con le pezze al culo, scusami per il francesismo”. Il vecchio era il padre di nonna Luisa, come avevo imparato a forza di sentire e risentire la storia. Così come avevo imparato che la zia Liliana non andava mai interrotta mentre raccontava, altrimenti rischiavo una merenda a base di frutta anziché di pane e Nutella. Cosa che mia madre, che non faceva entrare in casa nemmeno un biscotto dal terrore che aveva degli zuccheri, non doveva assolutamente sapere.
“Insomma il vecchio partì per andare a lavorare a Brooklyn, o come dicevano loro a Bruclino. E quando tornò a casa, dopo qualche anno, era ricchissimo. Mentre il fratello, che era andato in America con lui, non fece mai ritorno: gli spararono dal barbiere e ci lasciò le penne. Quello che è certo è che non era una persona per bene, anzi non lo era nessuno dei due.” Io a questo punto della storia, che avevo sentito raccontare mille volte, spalancavo sempre gli occhi. Da un barbiere non c’ero mai stata in vita mia, ma me lo immaginavo come il parrucchiere dove andava la mamma, un uomo di una certa età che camminava a culo ritto e che mi faceva mille moine prima di aggiustarmi i capelli. Il rumore metallico delle sue forbici, mentre mi tagliava la frangetta biondi dicendomi di tenere gli occhi chiusi, era diventato ancora più inquietante dopo il racconto della zia Liliana.
“Comunque il vecchio, il babbo di nonna Luisa, in paese lo chiamavano il lupo da quanto era cattivo. E dormiva sempre con una pistola sotto il cuscino. Aveva paura della vendetta, è ovvio. Che non colpì mica lui, perché morì a ottant’anni. Ma ha colpito le generazioni successive, a partire da sua figlia, poverina, morta così giovane. Per poi arrivare fino a noi. È per colpa sua, di quello che ha combinato il vecchio là in America che le cose vanno male in questa famiglia.” A volte alla zia Liliana salivano le lacrime agli occhi nel pronunciare questa frase, e subito dopo mi stringeva forte a sé, come per farsi perdonare la gravità di quello che aveva detto, o forse per proteggermi da questa sfortuna. “Ma te queste cose che ti dico non le raccontare a nessuno, mi raccomando. Soprattutto non le raccontare alla tua mamma.” Io non ne facevo parola, anche perché sapevo che tra lei e la mamma non c’era una gran simpatia. “Liliana” le avevo sentito dire più di una volta rivolta al babbo, “sa solo piangersi addosso dalla mattina alla sera”. E il babbo, come risposta, allargava le braccia alzando gli occhi al cielo, come a dire “Ci vuole pazienza”, proprio come aveva fatto quella volta in cui la nostra 128 gialla si era fermata all’improvviso per strada e non era più ripartita.
A me invece la zia Liliana non stava antipatica. Intanto mi dispiaceva che non avesse avuto bambini, ovviamente per colpa del mio bisnonno d’America come diceva lei, perché mi sarebbe piaciuto avere un cuginetto o una cuginetta con cui giocare. Come mi dispiaceva che avesse perso il lavoro, perché la sartoria dove lavorava e dove lei era la lavorante più brava di tutte, aveva chiuso dalla mattina alla sera. Da allora lei e lo zio non se la passavano tanto bene, perché zio Antonio al Comune non aveva fatto carriera e con uno stipendio solo, come diceva la zia Liliana, “non si fanno i salti mortali”. Comunque nel suo frigorifero non mancava mai una bottiglia di Coca-cola fresca che io e lei ci bevevamo durante il pomeriggio, mentre mi guardavo i cartoni animati coi piedi sul divano, a differenza di casa mia dove guai a sciupare la tappezzeria; verso le cinque la zia apriva il freezer e mettendomi in piedi su una sedia mi faceva scegliere un gelato: il congelatore che si spalancava davanti a me pieno di delizie che comparivano a poco a poco dietro al vapore mi faceva sempre venire l’acquolina in bocca. Anche se tutte le volte che la mamma veniva a riprendermi e vedeva le macchie di cioccolato sulla tovaglia di plastica della cucina storceva la bocca. E appena eravamo sole in macchina, commentava: “Non vedo l’ora che ritorni la tata”.
Ma l’estate dei miei dieci anni la tata non tornò per un bel po’, perché si dovette operare al fegato. Per non farmi passare troppo tempo dalla zia, per la prima volta in vita loro, i miei acconsentirono a mandarmi al mare con la mia migliore amica, Serena, in un campeggio dove i suoi avevano comprato una roulotte. Io ero al settimo cielo, non solo per via di Serena ma anche per la presenza di suo cugino Alessandro, che stava nella roulotte vicina, e per cui avevo preso una bella cotta. Alessandro era un bambino dalla faccia d’angelo che faceva anche lui come me la Pascoli, ma era un anno più grande e durante l’intervallo a scuola snobbava sia me che sua cugina. L’occasione di farci una vacanza per due settimane non mi sarebbe mai più capitata, pensavo, mentre i miei mi accompagnavano a Follonica. E non mi sbagliavo. Solo che le due settimane si trasformarono in due giorni, perché senza la mille precauzioni di mia mamma che mi asciugava i capelli cento volte al giorno dopo aver fatto il bagno, e che mi faceva cambiare ogni tre per due il costume, beccai una brutta otite. I miei dovettero venire a riprendermi per riportarmi a Siena, dalla zia.
La zia Liliana fu particolarmente affettuosa nei miei confronti in quel periodo. Ogni volta che mi metteva le goccioline bollenti nell’orecchio mi ricompensava con ben due cornetti al cioccolato. E dopo lo sciroppo di antibiotico amaro, come il fiele, correva subito a tirare fuori dal freezer due ghiaccioli alla fragola, uno per me e uno per lei. Mia madre quella volta non ebbe niente da ridire su tutti questi zuccheri, perché l’otite mi aveva tolto l’appetito e da magra che ero stavo diventando scheletrica. Quando la zia mi vedeva con le lacrime agli occhi per il dolore che non mi faceva dormire la notte e per la rabbia al pensiero di Alessandro, perché a lei avevo confessato che quel bambino mi piaceva, sospirava borbottando: “Che sfortuna”. In quel periodo il suo volto da Strega Nocciola si era addolcito, forse perché era ulteriormente ingrassata. La fotografia della nonna, a cui pensavamo entrambe, non venne mai menzionata.
La speranza di tornare al mare da Serena una volta guarita, speranza che io coltivavo segretamente, sfumò quando alla visita di controllo, l’otorino, un omone alto e grosso con due mani enormi e un vocione da cavernicolo, mi disse che avrei dovuto rinunciare per tutta l’estate ai bagni e che avrei dovuto fare delle punture di antibiotico. Appena arrivata a casa, mi buttai piangendo sul letto, e inizia a gridare: “Tutta colpa di quel vecchio, tutta colpa di quel vecchio!”. I miei mi guardarono sbigottiti. “Quale vecchio?” chiese mia madre. “Il medico che ti ha visitato?” intervenne mio padre. “Il babbo della nonna”, urlai “il babbo di nonna Luisa, quel vecchio cattivo”. Mentre mio madre strabuzzava gli occhi, il babbo fece: “Ma che c’entra nonna Luisa?” e subito dopo si lasciò scappare la frase: “Questa deve essere stata Liliana. L’unica volta che è andata a casa mia e di mio fratello, giù in Abruzzo, curiosa com’è, avrà sentito qualche pettegolezzo e ci ha romanzato sopra.” La mamma chiuse la porta di camera mia e andò con il babbo in salotto. Con l’orecchio tappato dall’otite non sentii che poche parole, come “idee malsane” o “cattiva educazione”, ma era chiaro che i miei stavano discutendo, perché la mamma era uscita dalla mia stanza con le labbra tirate come quella volta che si era fermata per strada la nostra 128. Nei giorni successivi non venni mandata dalla zia, perché gli spostamenti da una casa all’altra mi facevano male, questa fu la spiegazione, e si presentò a casa una nuova tata. Che oltre a eseguire alla lettera gli ordini di mia madre, sapeva fare anche le punture. Inutile dire che la odiai sin dal primo momento.
Da allora con la zia ci vedemmo pochissimo, giusto nelle occasioni comandate, dove il più delle volte mangiava parecchio, pur lamentandosi della qualità del cibo. E rivolgendomi a stento la parola. Quando morì, pochi mesi dopo il decesso dello zio Raffaele con cui aveva litigato tutta la vita, i nuovi affittuari della casa dove aveva vissuto ci chiesero se volevamo prendere qualche oggetto come ricordo e io dissi di sì. Nel frattempo ero diventata un avvocato in carriera, fermamente convinta di poter plasmare la mia vita e quella dei miei clienti con la sola forza di volontà. Però quando ero andata in viaggio di nozze a New York, avevo cercato il cognome di nonna Luisa, Palmieri, sulla lunga lista degli emigranti che sbarcavano a Ellis Island e il non trovarlo mi aveva delusa. Così come mi aveva deluso venire a sapere che la zia Liliana aveva lavorato poco, non perché la sartoria avesse chiuso ma perché aveva litigato con la padrona, che le rimproverava di essere una bighellona. Eppure quando andai a vedere per l’ultima volta la casa dove lei aveva abitato, in un momento in cui mia madre, che mi aveva accompagnato, era distratta dal guardare i pochi vestiti della zia appesi nell’armadio di camera, commentando con il nuovo affittuario l’aumento dei prezzi delle case, fu più forte di me andare ad aprire l’ultimo sportello della libreria per vedere se la foto di nonna Luisa fosse ancora lì: c’era, anche se ulteriormente ingiallita. Senza pensarci due volte, me la misi alla svelta in borsa e chiusi la cerniera. “In fondo erano i miei nonni, anche se sconosciuti, e non era giusto che andassero a finire nelle mani di altri”, avrei risposto a mia madre se un giorno l’avesse trovata per caso in uno dei miei cassetti. La verità era che mi ero ricordata all’improvviso di un sogno fatto da piccola, ai tempi di quell’otite tremenda. Nel sogno io aprivo lo sportello della libreria e facevo a pezzi la fotografia, da cui usciva la nonna in persona che mi colpiva sull’orecchio con il suo collo di volpe. Con la voce della zia mi diceva: “Ma come ti permetti a trattarmi così? Ora sì che te la faccio pagare!”. Adesso la foto di nonna Luisa sta in una scatola in fondo ad un armadio, insieme a quelle di altri lontani parenti dei miei genitori. Non la guardo mai, ma me la ricordo bene, e le rare volte in cui ci penso, guarda caso, è sempre quando mi capita qualche contrarietà.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.