Giuliano Compagno
Ancora su "Finalement"

Tra Hugo e Lelouch

Come districarsi tra una vecchiaia distratta e il paradiso dell'infanzia? una riflessione in margine al nuovo, struggente film di Claude Lelouch

Seguo le orme lasciate da Ida Meneghello, che ha qui già scritto, con la sua abituale maestria, su Finalement, film grazie a cui Claude Lelouch ha fatto in tempo a lasciare un tocco magistrale della sua carriera artistica, che ebbe inizio dal documentarismo per poi impegnarsi in una filmografia che sarà snobbata dalla critica francese più engagée. In poche parole, nonostante il quasi-esordio di Un homme, une femme (Jean-Louis Trintignant e Anouk Aimée), che valse al regista la Palma d’Oro a Cannes (pari merito con un mediocre film di Pietro Germi) e l’Oscar per il miglior film straniero. Ovviamente ciò non bastò a soddisfare i gusti assai delicati di Morando Morandini e di Paolo Mereghetti, che all’uscita della pellicola aveva 17 anni. I due soloni della cinematografia e della furberia d’essai più o meno fecero a gara di spocchia e dissero che Un homme, une femme era un prodotto basso, alla stregua di un fotoromanzo quasi televisivo e molto melodrammatico. Insomma, ci vuole pazienza…

Giunto al suo 47º lungometraggio, Lelouch si cimenta con l’intima impresa di narrare un’esistenza spesa entro un sistema affettivo garantito e sofferto. In poche parole, quella di Lino Massaro (un gigantesco Kad Merad) è la storia di un uomo maturo, si direbbe oggi, che sceglie di avviarsi al suo ultimo tratto di vita nel modo più secco e deciso possibile. A ciò fa scudo l’insorgere di un danno al lobo frontale che – oltre a causargli apatia, disattenzioni e amnesie – gli dona il venir meno di ogni filtro di espressione e di comunicazione, nonché l’acuirsi di comportamenti familiari diretti a descrivere, con serena schiettezza, la noia di una vita affettiva priva di emozioni vere. E siccome non è dato altrimenti, per vivere davvero, che immergersi nella folie des sentiments, Lino decide di abbandonarsi all’ombra di sé stesso e di inventare successivi racconti di una qualche vita precedente, di volta in volta presentandosi a chiunque lo accolga o lo protegga nelle vesti di uno stupratore ricercato o di un sacerdote spretato a causa di un’esorbitante sessualità.

Non è un caso che l’eccesso di desiderio, i limiti del peccato e della colpa e l’erotismo non produttivo, non rappresentino altro che il pensare e lo scrivere ben attivi nella cultura e nella società francese tra gli anni ‘30 e ‘70; per portare un esempio, nel 1944, a discutere proprio sui temi del Peccato, del Bene e del Male introdotti da Georges Bataille, interverranno a un pubblico dibattito Blanchot, de Beauvoir, Camus, Klossowski, Leiris, Merleau Ponty, Paulhan e Sartre… Potrebbe obiettarsi circa l’azzardo di accostare cotanti nomi a un fotoromanziere qualsiasi, eppure a volte occorre volare alti per cogliere il senso più profondo dell’agire e del sentire di un personaggio cinematografico. Lino Massaro in realtà è un avvocato di vaglia, che posa la toga, e con ciò ogni tesi e ogni antitesi della sua professione, per sognare nel suo mondo interiore il miracoloso coincidere tra libertà e amore, tra amore e verità, tra verità e libertà, come se in quel suo triangolo egli abbia finalmente desiderato che apparisse la sua destinale immaginazione.

Finalement
l’argent n’avais plus d’importance
Finalement
le paradis c’était l’enfance…

Con questi versi cantati da Kad Merad e Barbara Pravi, Lino accede finalmente alla tarda sera della sua vita, e vi riesce anche grazie all’ispirazione di una frase di Victor Hugo: «La Beauté de l’enfance c’est de né pas finir». Una circostanza, questa, che mi ha commosso, perché la frase di Hugo fu scritta sul muro di una stanza per bambini come forma di benvenuto all’arrivo di Sabina, la mia prima figlia, 15 anni orsono. E se l’infanzia fosse davvero quel paradiso da cui si proviene e in cui si rimane nel corso di un’intera vita, allora non sarebbe stato impossibile, per un uomo vicino ai novant’anni come Claude Lelouch, raccontare una storia così strampalata e così vera, una storia che appartiene a tutti noi, che non ci distingue l’uno dall’altro e che ci mostra come sia percorribile un sentiero che non porti da nessuna parte, se non tra le felici braccia di una donna capace di sentire i misteri di un sorriso, di un cenno della mano, di un grande regista.

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