Danilo Maestosi
Alla Galleria Spazio Cima di Roma

Tessiture dell’anima

In una bella mostra, Patrizia Trevisi racconta il dentro e il fuori dei corpi e delle emozioni attraverso degli arazzi che diventano come bassorilievi

Inside. Ci invita a guardarle dentro la mostra, battezzata con questo titolo con cui Patrizia Trevisi si ripresenta al pubblico dopo un intervallo di sosta per rimettere in moto la sua voglia di dirsi e sperimentare nuove forme, intonate ai suoi tormenti di intellettuale e di donna. Ultima tappa di una ricerca che ha segnato la sua ultra trentennale e applaudita carriera.

Una ventina di opere, sgranate nelle fascinose sale della galleria Spazio Cima, al pianoterra di un villino liberty in via Ombrone 9, ai bordi del quartiere romano Coppedé, dove resteranno in scena fino al 14 novembre. A ricomporre un racconto e un tragitto espressivo che dagli anni del Covid arriva ai giorni nostri, declinando in gioiose e dolorose varianti il mistero della femminilità.

Narrazione fondata su un paradosso, perché il dentro è costruito, registrato con un faticoso lavoro a fior di pelle, un fuori di superfici e volumi da cui bisogna partire e a volte persino arrestarsi per cogliere le chiavi d’ingresso difese con artificio e pudore.

Un gioco di seduzione che vorrebbe facilitarti ma stenta a concederti il passo per l’oltre e detta con inflessibile gentilezza regole e condizioni all’appagamento.

Ogni opera è accompagnata, oltre che da un titolo generico ed evocativo, da un foglio in cui l’autrice si sofferma puntigliosamente a spiegare le sue intenzioni con un linguaggio calibrato e avvolgente, quasi non riuscisse ad abbandonarle al giudizio a cui le espone. «Indago il corpo come strumento di esperienza – scrive Patrizia Trevisi –. Lo scavo per scoprire le connessioni, i legami, i nodi che mi possono portare al suo centro vitale, generativo».

Ma è una bussola razionale che rischia di imbrigliare l’emozione del colpo d’occhio. Più semplice e fecondo invece concentrarsi su quel fuori che immediatamente colpisce il visitatore. Innanzitutto quell’artificio di scegliere come tecnica e prerogativa di donna il mestiere della tessitura che l’autrice spinge oltre il ricamo, il segno che il filo sta inseguendo, verso la complessità di piani e dimensioni della scultura e le vibrazioni cromatiche delle stoffe, dei panni, dei cordami che usa, sovrappone, intreccia a collage.

Più che arazzi, i lavori che appende alle pareti sono bassorilievi. Figure e linee sbalzate imbottendo e increspando la pelle dei tessuti, che piegano luci ed ombre, scavano anfratti, curvature, innalzano e sprofondano volumi. Disegnando paesaggi solo apparentemente astratti, grovigli e intrecci che simulano lo spettacolo di vene, muscoli, nervature che ognuno di noi potrebbe vedere se riuscisse a penetrare sotto la pelle e osservare l’essenza sfuggente della vita che scorre lì sotto.

Come in una tac, ci spiega l’autrice che a volte si abbandona sin troppo a quel gioco di imitazione, aggiungendo effetti su effetti in un impeto di maestria barocca che rischia di disperdere l’emozione. Perché l’arte, a mio avviso, non smuove fantasia e commozione se resta ancorata al come se di un prestigiatore sul palco, per farlo deve liberare la porta segreta del suo essere in sé. Anche a costo di demolire, almeno in parte, i suoi trucchi.

Da artista dell’anima qual è, deve averlo capito anche Patrizia Trevisi. I suoi arazzi più riusciti e intensi sono proprio quelli in cui smonta l’architettura delle sue imbottiture, incide squarci, feritoie e mette a nudo quel che c’è sotto, confessando il suo talento di strega. Indimenticabile più di un getto di sangue, quello squarcio che vomita alla vista il ripieno di un cespuglio di steli di paglia compressi e scheggiate. Nel dentro di quel dolore possiamo tutti affacciarci e riconoscerci anche noi spettatori in platea. Grati a questa abile e fragile tessitrice per averci consegnato la misura di un tempo arcaico di conflitti ed empatie che si prolunga nell’oggi. Come la danza remota, di immersione nel mondo, caduta e rinascita, verso cui mi trascina il ricordo di uno dei lavori che più mi hanno colpito: Calendario. Un cerchio in tela da cui precipita un intreccio di corde, alle quali Patrizia Trevisi ha appeso un campionario di conchiglie, Fossili di chissà quali mareggiate. Un costume teatrale da strega, che abita come Medea i confini di verità della passione, del tradimento e della morte.

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