Michela Di Renzo
Storia di un incubo

La puntura

«Ma chi è questa donna che si avvicina? Mamma sei tu? Mora è mora come lei, con gli stessi occhi scuri, però allungati, come quelli di una cinese. E poi indossa una maglietta e un pantalone bianchi, con una riga rossa sui lati. Sembra un’infermiera...»

Ci risiamo: ho di nuovo il mal di gola. E la mamma è andata a tirare fuori la scatola di metallo da quel mobile che lei e il babbo chiamano “la farmacia”: dentro c’è una siringa di vetro che mettono a bollire nell’acqua, con un lungo ago di metallo. Anche quello viene bollito. “Così si sterilizza” dicono tutt’e due, come se a me importasse qualcosa. L’unica cosa che mi importa è non sentire male, e bollente o no l’ago è parecchio doloroso. Ma questa volta ho deciso di vendicarmi. No, non mi metterò a correre per casa, scappando via di fronte alla siringa, sono troppo grande per questo e poi non l’ho fatto nemmeno quando ero più piccola, perché sono sempre stata una brava bambina. Oggi però, subito dopo la puntura, farò finta di essere morta, tenendo chiusi gli occhi per almeno un minuto e smettendo di respirare, come quando vado sott’acqua al mare. Se conosco i miei polli, si impauriranno parecchio, soprattutto la mamma, che è da ieri che la fa lunga perché sono uscita di scuola senza il cappello. Quello da cavallerizza che mi costringe a mettere, anche se non vado a cavallo, solo perché piace a lei. O quello stupido cappotto rosso col colletto di velluto nero. E poi se le chiedo di comprarmi un vestito a maschera, mi dice di no. Dice che a lei il Carnevale mette tristezza. A lei, mica a me. A me mette tristezza vestirmi da Carnevale tutto l’anno. Sei la bambina piú elegante della scuola, mi dice. Ma se ci ride tutta la classe di come mi concia. E sono sicura che questa volta anche il babbo si prenderà un bello spavento, lui che mi dà sempre mille spiegazioni su come funziona un antibiotico perché fa il dottore. Chi se ne frega di come funziona un antibiotico. Piuttosto, se fai il dottore, trovami un antibiotico da masticare come una caramella, o meglio ancora, come un pezzo di cioccolata. Quella che secondo loro mangio troppo spesso. Ma ho l’impressione che questa sera sarà l’ultima sera che tirano fuori dalla “farmacia” quella siringa di vetro. Almeno per me.

Eccoci, ci siamo. Sono sdraiata sul mio lettino e sento il babbo che si avvicina. “Stai ferma, mi raccomando, scricciolo.” Ci vogliono giusto le placche in gola e con il febbrone a trentanove perché mi chiami così, lui che non si accorge mai di me perché ha per la testa solo i suoi malati. La mamma mi prende la mano e me la stringe forte, da quanto è sudata è chiaro che ha più paura lei di me. Quando l’ago entra nella mela destra sento un dolore pazzesco, che però dura poco. Appena lui dice: “Fatto”, chiudo gli occhi, mollo la mano che afferra quella della mamma e smetto di respirare, come se dovessi andare sott’acqua. “Anna, Anna” ripete la mamma, con la voce che fa quando sta per mettersi a piangere, tipo quando il babbo non la vuole portare in un bell’albergo perché sono soldi buttati o non le vuole comprare la pelliccia. Poi la mamma inizia a urlare: “Oddio”, mentre il babbo grida con la voce roca perché fuma parecchio: “Che ho fatto?”. Lui mi gira e mi solleva le gambe, con le sue manone che ora tremano. Ma io resto ferma, immobile. “Telefono al Fusai”, dice. Il Fusai, ci manca solo quel ciccione che mi infila una paletta giù per la gola tutte le volte che viene a visitarmi. “Io gli faccio del corticone”, fa il babbo, poi lo sento uscire di corsa dalla stanza, con i suoi passi pesanti perché ha un bel pancione. La mamma inizia a piangere: “Anna, Anna!” e mi si butta addosso, tanto che mi toglie l’aria. Poi sento uscire anche lei, a passettini rapidi. Apro gli occhi, riprendo fiato alla svelta e smetto di respirare di nuovo, appena entrano in camera. A quel punto lei mi gira su un fianco mentre ripete: “Oddio!”. Giusto il tempo di sentire un ago che mi punge sull’altra mela, che apro gli occhi e inizio a divincolarmi. “Ferma, ferma” fa lei, ma ormai questa robaccia me la iniettano tutta, e brucia parecchio. “E’ stata una reazione allergica, che paura che ci hai fatto”. Il babbo mi passa la mano sulla guancia: è sudata come quella della mamma. “Questa è l’ultima volta che ti faccio una puntura, te lo giuro, io poi sono un radiologo, che ne so di allergie”. Bravo, non facciamole più le punture. A qualcosa la recita è servita.

Ma chi è questa donna che si avvicina? Mamma sei tu? Mora è mora come lei, con gli stessi occhi scuri, però allungati, come quelli di una cinese. E poi indossa una maglietta e un pantalone bianchi, con una riga rossa sui lati. Sembra un’infermiera. La mamma si deve essere vestita a maschera, perché è Carnevale. Strano perché a lei il Carnevale non piace, non si veste mai. E non veste mai nemmeno me. Però forse ora ha finalmente cambiato idea. Mamma sei tu? In mano ha una siringa, la deve aver presa dalla “farmacia”, anche se non è lucida come quella di vetro, ma sembra di plastica. Certo se è vestita da infermiera deve avere in mano una siringa, ma sarà di sicuro una finta, di quelle senza ago. Quando allungo la mano per farle una carezza sul viso, lei si retrae. “Signora, stia ferma”, mi urla. Signora? Mamma, non mi hai riconosciuto? Sono io, Anna. La mamma si allontana per qualche minuto per ritornare con il babbo, anche lui tutto vestito di bianco. Ma lui fa il dottore, è per questo che è vestito di bianco. Certo vestirsi a Carnevale da dottore è proprio da lui, il babbo non ha mai avuto fantasia. “Signora, dobbiamo farle l’antibiotico. Cerchi di stare ferma”, fa il babbo con una voce meno roca del solito. Deve aver smesso di fumare, finalmente. Neanche lui mi riconosce, o forse fa finta, come la mamma. Ma dà sempre le solite spiegazioni, anche quando è tutto uno scherzo. “L’antibiotico? Ma io mi sono sempre messa il cappello.” “Ma che cappello? Lei hai la polmonite”. “Aiuto!” grido appena la mamma si avvicina con la siringa. “Siamo in ospedale signora e lei ha la febbre alta”, continua a spiegare il babbo. Ospedale? Allora siamo dove lavora lui. Un posto orribile, dove ci sono solo uomini e donne scheletrici a letto. Sai che faccio? Provo a scappare, vedrai che non mi prendono. Con la mano destra mi appoggio sul letto e cerco di alzarmi. “Ora casca” urla il babbo, che a guardarlo meglio è dimagrito parecchio. “E se casca si fa male”. Ancora con questa storia. È per questo che non mi mandano a pattinaggio, perché se casco mi faccio male. “Come si chiama?” mi chiede. Ma non se lo ricorda? Va bene che a casa ci sta poco….”Anna” rispondo. “Anna ora stia ferma.” Poi mi prende per le gambe e mi rigira con forza verso un lato del letto: ha le mani magre, nodose, ora che è così secco. Io cerco di liberarmi. “Ferma”, ripete lui. La mamma mi infila in un attimo un ago nel sedere. Ma allora fanno sul serio. Si sente che ha la mano meno leggera di lui, sarà la prima iniezione che fa in vita sua. Dal dolore stendo una gamba e la colpisco sul gomito. “Ma guarda te questa vecchia” fa lei. “Anna, lei è troppo agitata, ha capito, deve stare tranquilla” urla il babbo. “Se continua così va sedata o legata”. “Però prima bisogna sentire i parenti”. I parenti? Sono loro i miei parenti! Finalmente se ne vanno ma dopo poco tornano con due lacci per i polsi. Questo è troppo. Ma io svengo, guarda che faccio, glielo faccio vedere io a questi due stronzi. Tra l’altro mi gira anche un poco la testa. Appena chiudo gli occhi e mi accascio sul letto, la mamma dice: “Ma che fa, perde coscienza?” “Forse era allergica all’antibiotico”, risponde il babbo. Le loro voci non mi sembrano concitate però, che strano, anzi, sono irritati. “Portami una fiala di cortisone, dai”. “Stasera ci mancava questa, proprio ora che hanno consegnato le pizze”. Le pizze? Ma le pizze a casa noi non le ordiniamo mai, perché arrivano fredde. Li sento sempre più lontani, mentre un altro ago mi punge il sedere. Ma questi due non possono essere mamma e babbo, mi ripeto mentre avverto un gran prurito, non possono essere loro, perché loro mi volevano bene, a modo loro, ma mi volevano bene. Poi svengo davvero.


Il disegno accanto al titolo è di Rossella Palmieri.

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