Danilo Maestosi
A Roma, tra Palatino e Foro Romano

Nascondere Penelope

Una grande mostra, in due sedi differenti, ricostruisce l'iconografia e il mito di Penelope, donna controversa e enigmatica. Ma troppi particolari della sua avventura restano nascosti

Penelope. Sì, certo: la moglie di Ulisse e l’eroina dell’Odissea, venti anni ad attendere il ritorno dello sposo, unico guerriero greco disperso in una nebbia di avventure e naufragi dopo il decennio di assedi e battaglie per espugnare le mura Troia, la sua reggia di Itaca invasa e insidiata da uno stuolo di avidi pretendenti che lei riesce a tenere a bada fino al rientro del marito che ne farà strage. Un ritratto indelebile di donna astuta e fedele, che la forza trainante del mito le ha cucito addosso e le sta molto stretto. Rivisitato e aggiornato con continue aggiunte, su cui si sono cimentati nei secoli scrittori ed artisti, senza mai riuscire a mettere davvero a fuoco il suo volto. Le sue tante mutevoli espressioni.

Insomma chi è stata, chi è Penelope? Prova a soddisfare questa curiosità una mostra sul patrimonio iconografico che la riguarda, la prima che le sia stata dedicata almeno in Italia. Una mostra in cartellone fino al 12 gennaio ospitata in due sedi tra Palatino e Foro Romano su impulso della direttrice del Parco archeologico centrale Alfonsina Russo. L’operazione è arricchita da un agile ma corposo catalogo bilingue pubblicato da Electa, che amplia il panorama disegnato dai cimeli in vista con una antologia di saggi e interventi, in cui la fortuna del personaggio viene affrontata con registri più aggiornati e angolazioni più stimolanti. Un libro da conservare, che mancava e può fare da apripista a nuove ricerche, colmare i vuoti di bibliografia e studi spesso troppo datati e sommari. Esigenza sviluppata in modo più effimero dal ricco programma di appuntamenti collaterali che si terranno: da qui a dicembre nella Curia Iulia, filmati, conferenze, dibattiti.

Ne segnalo due che più mi hanno colpito. La registrazione di un’intervista a Margareth Atwood, l’autrice canadese della gettonatissima saga II racconto dell’Ancella, che a Penelope ha dedicato un romanzo illuminante, la voce del femminismo militante che con più intensità si è addentrata nel labirinto della sua anima e della sua biografia, rilevandone errori, debolezze, fragilità.

E un recital di Isabella Ragonese, che presta a Penelope la sua voce, rileggendo brani scelti dell’Odissea.

Già, due inviti alla rilettura del secondo poema d’Omero, perché è ancora lì la fonte di tutte le chiavi di interpretazioni possibili, che alimentano e prolungano la vita di Penelope e del suo mito. E non bastano i ricordi che restano delle lezioni fatte a scuola chissà come e quanti anni fa.

Magari questa rivisitazione riuscisse a riaccendere la voglia di tornare a riassaporare quell’acqua di sorgente in modo più personale e diretto. Ma è un messaggio che invece la mostra stenta a far arrivare ed è costretta a recuperare per le vie traverse di integrazioni collaterali, che premieranno una ridotta platea di salotto. Perché?

Un po’ è il taglio a volte troppo accademico, scostante, da vecchio museo, impresso dai curatori: l’Odissea e i suoi derivati iconografici non sono solo reperti archeologici da datare ma illustrazioni di un racconto infinito da gustare con più libertà.

Un po’ l’abito troppo sobrio che le hanno fatto indossare gli allestitori: qualche didascalia, qualche raffronto, qualche spiegazione in più non avrebbe guastato.

Un po’ la scelta delle due ribalte espositive, prestigiose e ricche di fascino, ma troppo distanti tra loro: le due uccelliere rinascimentali degli Orti Farnesiani, appena restaurate e riaperte, in alto sulla collina del Palatino, la sala circolare del cosiddetto tempio di Romolo giù in basso lungo la via Sacra, dopo la basilica di Massenzio. E in mezzo una barriera di scalinate, tortuosi sentieri e il caos frastornante della folla di turisti che intasa l’area.

Il dialogo fra le opere scaglionate in queste due postazioni fatica a scattare. Apprezzabile il filo d’Arianna dell’ordine cronologico che gli allestitori hanno steso. Sotto le opere più antiche, sopra quelle che dal tardo Rinascimento si avvicinano a noi. Ma alla fine sembra aver prevalso la logica di rendere ogni capitolo autosufficiente, ibridandolo di rimandi e citazioni senza vincoli di sequenza abbastanza appaganti, nella convinzione che forse solo pochi di questi visitatori frettolosi e in transito se la sarebbero sentita di fare su e giù.

Non è la qualità dei cimeli esposti in discussione. Ci sono al muro o in vetrina pezzi da museo e quadreria di gran lusso, che è un piacere fermarsi a guardare. E neppure il numero delle opere esposte. Cinquanta: Non sono poche. Anche se guardando il catalogo ne trovi molte più ricche di sfumature. Il dubbio riguarda i criteri di scelta, impostati su canoni troppo simmetrici che finiscono per concentrarsi sui modi più ricorrenti con cui Penelope è stata messa in posa e non sull’anima del personaggio, che sicuramente è più sghemba, scivolosa, mutevole persino nel poema che per primo l’ha celebrata. Il risultato è che alla fine in mostra ci sono troppi doppioni. Se pensiamo che una mostra iconografica non è in fondo che un album di figurine, trovarsi tra le mani tanti doppioni non è peccato comunicativo da poco, che apre falle vistose nella trama. Qualche immagine di Penelope in meno, qualche figura di contorno meglio detta e spiegata, non sarebbe stata più utile a rendere più completo il racconto, più vicino alle libere e ondivaghe forme di trasmissione orale che l’ha generato prima di precipitare nei vincoli della scrittura in versi, ormai accertato a più mani, che l’ha congelato?

Se immaginiamo Penelope su un palcoscenico non siamo forse costretti a paragonarla a un mimo o comunque a un’attrice che sta in primo piano, avrebbe tante cose da dire ma ha poche battute da recitare, i versi in cui parla si contano sulle dita di una mano. Per darle voce sono gli attori che le compaiono a fianco o restano dietro le quinte, che devono completare il copione, portar dentro il prima il dopo e il durante che sono derive, matrici dei destini incrociati del mito.

Due esempi per capirci meglio.

In un piccolo disegno del Settecento Penelope è incastonata tra due figure. A sinistra Ulisse, a destra il padre Icario che sembrano contendersela. Come pare sia avvenuto secondo una leggenda che ha circolato a lungo e ricostruisce la proposta di matrimonio. Il padre vorrebbe rifiutarla per questioni di prestigio e di dote, Penelope avrebbe rotto la lite, consegnandosi senza esitazioni al futuro sposo. Una fuga da quel padre tiranno che troverebbe una ragione più calzante in un’altra leggenda, che inspiegabilmente la didascalia accanto al quadro non evoca.

Icario avrebbe saputo da un indovino che sua figlia Penelope appena nata avrebbe tessuto in futuro il suo sudario. Era una fake news, diremmo oggi, quel corredo funebre era la tela destinata al suocero Laerte, fatta e disfatta per tenere in scacco i Proci. Per scongiurare quell’annuncio di morte Icario avrebbe tentato di sbarazzarsi della neonata gettandola in acqua. A salvarla uno stormo di anatre che la sollevarono e la portarono a riva. Anatra suona in greco proprio il suo nome. Vi pare poco? E allora perché non dirlo ai visitatori, rimandare la spiegazione al catalogo?

Il secondo esempio scivola nella tragedia. In più di un quadro esposto in una delle due sedi si affacciano accanto a Penelope, mentre cammina o siede al telaio, le figure delle sue ancelle: Mai un accenno alla sorte che le aspetta. Racchiusa in un solo laconico verso. Finiranno tutte impiccate, appese al soffitto dove si è consumato l’eccidio dei Proci. Accusate d’infedeltà, per cancellare col loro supplizio un sospetto che potrebbe essere addebitato a Penelope e macchiare la reputazione di Ulisse. Un eroe cornuto. Intollerabile.

È il primo femminicidio che irrompe nella Storia. I curatori lo sanno, ne parlano in catalogo, citano la Atwood che ci ha scritto su un libro, ma si tengono l’informazione, e quei richiami così attuali, per sé. Lo fa anche Penelope, ma è una macchia che arricchisce il suo personaggio, scalfisce le maschere che ne hanno per secoli camuffato la personalità. Lei non assiste allo scempio, sta dormendo appartata nelle sue stanze su in alto, ma lo viene a sapere prima di incontrare Ulisse e a Ulisse non ne chiede conto. Eppure quelle ragazze, quelle schiave erano le compagne con cui Penelope aveva condiviso quei venti anni di solitudine e attesa, confidenze e pettegolezzi, sorrisi e malizie. Per difendere le sue radici patriarcali e regalarle l’immortalità, il mito la scolpisce come una statua, nascondendo la sua verità di donna, più fragile e sgradevole di quanto appaia. Un patto col diavolo che Ulisse si risparmia. Calipso la ninfa sua amante con cui resterà per sette anni l’immortalità gliela offre per trattenerlo, e lui rifiuta. Non è solo la nostalgia della moglie lontana: ha capito che il suo viaggio nella condizione umana acquista senso solo al ritorno, ha bisogno di una soglia, Itaca, che misuri la distanza percorsa.

Ecco, Calipso. È un’altra figura in commedia che questa mostra evita di portare in passerella. Censurando un punto di vista, una domanda che certo un visitatore qualunque si pone: era bella Penelope? Si sentiva bella? Che pensava della bellezza? Una domanda, un’incertezza di donna che da donna vive il suo corpo, e non può essere declinata solo al maschile. Nell’Odissea Ulisse ne parla con nostalgia, ma incalzato da Calipso, che gli chiede se è più bella di lei, risponde di no, retrocede in classifica la donna che pure ha sposato.

Esser meno bella di... Penelope lo sapeva, rassegnata ma non felice a quel cruccio, aveva già dovuto affrontare un’altra sfida perduta in partenza. Con Elena, altra comprimaria qui rimasta fuori copione. Elena, sua cugina, desiderata e contesa al punto di scatenare una guerra, la guerra di Troia, da farsi perdonare dal marito Menelao anche la fuga e gli amplessi con un altro uomo, arbitro di una scommessa tra dee, che è il motore di quel conflitto epocale ai confini con l’Asia, di storie di civiltà a venire. Un prologo che riappare anche a timbrare l’esistenza e a disegnare l’aspetto di Penelope. Una gara tra Venere, Giunone e Minerva, che sembra il prototipo di una sfilata di miss. Paride, un principe troiano, il giudice che da i voti con una mela in mano. E sceglie la prorompente avvenenza di Venere, ottenendo in cambio una cambiale per la conquista di Elena, che ne è lo specchio mortale.

Anche Penelope ne ricaverà per interposta persona come compagna di Ulisse un suo tornaconto, acquisendo come protettrice, la Minerva sconfitta e vendicativa, che le farà per sempre da modello, consegnandole il fardello di un’avvenenza meno vistosa ma più problematica. La furbizia e la saggezza come un dono, una postura che però porta altri tormenti, il sacrificio della gioia spontanea e dell’adolescenza. Così l’hanno disegnata e scolpita i greci.

Più pragmatici i latini hanno aggiunto insieme a qualche chiosa più maligna dei ritocchi di carattere che la fanno più umana. Intrigante quello di Ovidio che resuscita la sofferenza della attesa di Penelope, mettendole in bocca le parole di una lettera inviata al suo indirizzo di soldato sotto le mura di Troia: proclami di passione frustrata, invettive e rimproveri per la distanza che li separa, l’incubo di perderlo che le rende odiosa e incomprensibile quella guerra maledetta. Mai vista una Penelope così sbilanciata e rabbiosa. Verosimile. E solare

Forse troppo per i suoi esegeti più tardi, che correggono il tiro. Ecco tra le chicche in vetrina un paio di immaginette rinascimentali che riprendono lo spunto di Ovidio, emendandolo di ogni ricaduta negli eccessi umorali del personale. Penelope ritratta come una santa precorritrice che scrive e legge e fa così da esempio. Chi se ne frega se è un falso storico, visto nell’epoca da cui proviene la regina di Itaca le donne non erano alfabetizzate.

Nel riesumare un mito e renderlo più attuale meglio dar spazio al pettegolezzo e al gioco che al calcolo matematico dei secoli E agli esercizi di stile. Non è un caso che le pagine più riuscite di questo revival iconografico siano i siparietti riservati non ai lavori a tema su Penelope impegnata al telaio nel fare e disfare la tela del suo inganno, ma all’emozione creativa che può nascere dalla filatura, un mestiere di donna che è molto di più di una vocazione artigiana. Un omaggio ad un’artista italiana da poco scomparsa, Maria Lai, che sulle orme di Penelope ha affidato al telaio la sua voglia di dirsi e catturare l’invisibile. Fare e disfare è un precetto dell’arte, che la moglie di Ulisse fa suo Per ammansire i suoi pretendenti. Dopo quattro anni viene scoperta. Ne trascorrerà altri sei senza più essere incalzata: Immagino anche davanti a un telaio. Perché da quel gesto, consumato in una stanza chiusa, sente di aver appreso parole e pensieri che non conosceva o aveva dimenticato. È l’enigma con cui la mostra nel parco archeologico si congeda. Neanche il cinema, arte più popolare, è riuscito a svelarlo. Forse ci si è avvicinato un film di Camerini del 1954 – il manifesto è esposto in bacheca – regalandole il volto misterioso di Silvana Mangano. Peccato abbia rovinato tutto, facendo interpretare alla stessa attrice anche la parte della maga Circe, una sua rivale.

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