Marinella Petramala
Su “Omero, il libro dell’orrido Polifemo”

L’eros di Polifemo

Luigi Spina firma una nuova traduzione del celebre episodio omerico. E Polifemo ne esce come una vittima della solitudine (e dell'impossibilità di suscitare desiderio...)

Alleati di Zeus e dei suoi fratelli nella lotta contro i Titani, nonché grandi costruttori di mura delle città micenee, i racconti inerenti ai ciclopi, quelli dall’occhio rotondo – nome parlante – proprio in mezzo alla fronte, muovono la curiosità di Odisseo, che si reca presso l’isola che abitano, perché un eroe deve «sempre verificare di persona».

L’antropofagia del mostro – figlio di Poseidone e della ninfa Toosa – e della vendetta dell’astuto itacese, è quella da cui muove Omero, il libro dell’orrido Polifemo (il Mulino, pp. 144, € 14,00), con il quale Luigi Spina, che ha insegnato filologia classica nell’Università di Napoli Federico II, dona una traduzione personale del IX libro dell’Odissea («Si dovrebbe tradurre per far capire agli altri quello che si è capito»).

Così come gli ascoltatori “analfabeti” di età arcaica potevano comprendere gli eventi e guardare le persone, immaginandoli, per mezzo delle parole dell’aedo, la traduzione di Spina è caratterizzata da alcuni anacronismi «capaci di far vedere», favoriti, inoltre, da una lettura ad alta voce. Per l’azione dell’accecamento, ad esempio, Spina ha scelto il verbo “avvitare”: «Non è certo lessico antico (non so se sia mai stato usato nelle traduzioni di questo passo), ma mi pare aiuti a immaginare il movimento di Odisseo che guida i compagni». Odisseo, infatti, con l’acume di chi ha compiuto innumerevoli imprese, spinge all’azione: «Così afferrando quel palo infuocato nel suo occhio lo avvitammo. Tutta la pelle intorno fra palpebra e sopracciglia la vampa abbrustolì mentre l’occhio bruciava: gli sfrigolavano al fuoco le radici».

Nel saggio che accompagna la traduzione, Spina si concentra sulla fortuna del personaggio di Polifemo, a partire dal teatro «che dà voce (più che volti) e movimenti ai personaggi del mito». E rivela come, nella metamorfosi cui è andata incontro la figura favolosa del mostro, entri in gioco ad un certo punto anche la dimensione erotica, che in qualche modo cerca di svincolarlo da Odisseo, cui rimane ad ogni modo irrimediabilmente legato. Nel Ciclope di Euripide (V sec a.C.), dramma satiresco, Polifemo, inebriato dal vino donato da Odisseo, rivela la sua predilezione omoerotica; oppure nel ditirambo di Filosseno di Citera (V-IV sec a.C), Ciclope o Galatea, Polifemo è innamorato della ninfa Galatea e ascolta Odisseo, che diventa consigliere d’amore. Ma lo sfortunato amore per Galatea ritorna negli idilli di Teocrito (III sec. a.C.) – il VI e XI – dove il ciclope, consapevole della propria bruttezza, ostacolo di un amore disperato, è disposto a tutto per avere la ninfa, anche perdere l’unico prezioso occhio: ‹‹arso da te, arsa anche l’anima sopporterei / e l’unico occhio, nulla mi è più caro››. E poi ancora Ovidio, Virgilio, sino a Victor Hugo che, in Notre-Dame (1831), riprende il modello con Esmeralda e Quasimodo e la loro dolorosa vicenda.

La ricezione dei miti e delle culture antiche, tuttavia, è, secondo Spina, legata al ruolo di mediazione di antichisti e antichiste, «dal tipo di ricerche che porteranno a termine, da come ne diffonderanno i risultati», tenendo conto di riscritture e ibridazioni perché, «il mito, si sa, continua a viaggiare, purché sia ancora raccontato, uguale e diverso».

Facebooktwitterlinkedin