A proposito de "Il Muro Torto"
Sognando Roma
Torna in libreria un bel romanzo romano scritto da Mario Picchi sessant'anni fa. Un'occasione per riscoprire uno scrittore visionario e raffinatissimo, ingiustamente dimenticato
Vorrei parlare del meritorio ripescaggio di un libro di Mario Picchi, Il Muro Torto, che uscì nel ’64 del secolo scorso, oggi riproposto da Narhval Edizioni (184 pagine, 17 Euro) con la prefazione di Filippo La Porta che ne fissa le coordinate e i punti di forza, tratteggiando altresì un breve ritratto dell’autore livornese, romano d’adozione, che morì nel 1996: noto soprattutto come traduttore e prefatore di classici della letteratura francese (I miserabili di Victor Hugo, il Meridiano dei Racconti di Maupassant), come giornalista culturale e firma dell’Espresso e di La Repubblica. Scrisse anche per Belfagor, La Fiera letteraria, Galleria, ecc.
Protagonista di questo suo romanzo è Carlo, che fa un mestiere d’altri tempi, rappresentante di inchiostri per penne stilografiche, – il quale vive in un’isola verde in prossimità del Muro Torto, – a un passo da Piazza del Popolo e da Villa Borghese, dal Pincio, da Via Veneto, “un seme di libertà nel fianco della metropoli”, così lo definisce, dal quale può vedere, senza essere visto, tante cose: le macchine che sfrecciano a gran velocità sulla strada verso Porta Pinciana o piazzale Flaminio, “impenetrabili come scarafaggi in fuga”, la gente che passa sul marciapiedi, gli operai impegnati in qualche lavoro di manutenzione stradale, qualche coppietta che si apparta nel verde ad amoreggiare.
Il Carlo di Picchi non potrebbe mai vivere in un condominio insieme ad altre persone socialmente simili a lui, perché egli è “un sognatore asociale e disadattato”, ci spiega il critico La Porta, apparentandolo al Ballard de L’isola di cemento, “un uomo del sottosuolo, che si è creato un sottosuolo protetto, ad altezza d’uomo”, innamorato della propria libertà e della propria solitudine, in un luogo quasi inaccessibile, protetto dalle piante e dagli alberi, dove sogna talora di portarci una compagna “che accetterà di dividere con me la solitudine, la pace e una ricchezza forse invisibile agli occhi dei più, ma vera. Insieme cureremo l’orto, il giardino la casa”.
Coprotagonista del romanzo è la città di Roma, potremmo dire con il prefatore, il suo centro storico, soprattutto, che Carlo percorre in lungo e in largo, a piedi ma anche in tram, – suo privilegiato mezzo di spostamento, non possedendo un’automobile, ma anche osservatorio permanente sul traffico cittadino, sui passanti, sulla folla anonima dei viaggiatori, soprattutto sulle giovani donne cui dedica talvolta analisi minuziose e appassionate, immaginando le loro vite sulla base del loro aspetto, del loro abbigliamento.
Picchi allestisce per il suo eroe una vicenda individuale che è quasi un lungo sogno a occhi aperti – e prende le mosse da un’ingiustizia di lieve entità subita in piscina, da parte di un rozzo e volgare bagnino, che gli impedisce di buttarsi dal trampolino, apostrofandolo con malgarbo e addirittura acchiappandolo per una caviglia mentre sta salendo la scaletta.- una sorta di apologo civile in cui i luoghi metropolitani si susseguono con precisione toponomastica ed evidenza realistica, talvolta accesi da un pregiato lirismo cromatico che un po’ la sigla di questo scrittore (Picchi fu anche stimato poeta, amico personale di Caproni, Giudici, Alfonso Gatto ecc.). Carlo finirà anche in prigione, accusato di omicidio – ma non è chiaro se soltanto in sogno, oppure anche nella realtà, tanto il racconto è impastato d’inconscio e irrazionalità. Ma importa poco. Ne risulta una sorta di viaggio allegorico, dall’alienazione urbana di una civiltà decadente, narcisistica, edonistica – siamo negli anni del boom – sino a un’utopica, fantasmatica salvezza, ancora una volta in bilico fra realtà e sogno: il libro finisce con una festa danzante, alcolica, vagamente promiscua, in un salotto dell’alta borghesia romana, dal quale tra i fumi dell’alcol sembra apparire agli ospiti, fuori dai finestroni, qualcosa di prodigioso e quasi soprannaturale: “Muovansi cielo e terra. Ecco i tempi nuovi, li intravediamo. È questa l’ora segreta, in cui ciascuno dorme o sospira nel suo letto. Noi qui assistiamo all’alba di un nuovo giorno, d’un nuovo evo dell’umanità.” (…) “Esce il sole dalla terra e trova sotto di sé Roma, addormentata coperta ancora da una matassa di nebbia: allunga le dita le stende fino a toccare la nebbia, a scioglierla, a scoprire un poco colei che giace dormendo. Con le dita avide e tremanti comincia a carezzarla: le cupole, i campanili le cime degli alberi, le terrazze fiorite paiono rianimarsi e muoversi sotto quel tocco lievissimo che dove sfiora lascia una traccia dorata e luminosa. E…”.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.