Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

La sfida di Chicago

In una Chicago blindata comincia la Convention Democratica che incoronerà Kamala Harris. Una kermesse che scatenerà molti conflitti: il fantasma del Medioriente peserà sui delegati. Come il Vietnam nel '68...

Domani si apre qui a Chicago, all’United Center, al McCormick Place e in altri luoghi limitrofi, la maratona di quattro giorni della Convention del partito democratico, la DNC (Democratic National Convention) che renderà ufficiale la nomina di Kamala Harris e del suo vicepresidente Tim Walz a candidati per le elezioni presidenziali di novembre.

La citta è blindata per paura di disordini e di attentati. Lo spiegamento di forze è ingente. I servizi segreti stanno lavorando ormai da giorni per controllare e mettere al sicuro ogni possibile luogo di assembramento.

Il sindaco della città, Brandon Johnson, ha assicurato ai manifestanti che protesteranno al di fuori della Convention, luoghi dove potranno esercitare la loro libertà di espressione secondo, come egli stesso ha dichiarato, i principi del primo emendamento della Costituzione americana. Ha addirittura negoziato in prima persona una controversia tra i leader dei gruppi di protesta e la sua amministrazione per consentire agli spazi garantiti loro, parchi e strade intorno ai luoghi dove si terrà la riunione dei democratici, dotazioni di sistemi di sicurezza, microfoni e servizi di pubblica utilità.

Molte strade sono chiuse, molti sensi di marcia invertiti, i parcheggi non saranno permessi in queste aeree e i trasporti pubblici subiranno deviazioni per permettere spazio e agilità di movimento ai delegati/e ai partecipanti alla Convention. Dunque da lunedì per quattro giorni downtown Chicago sarà impraticabile e giovedì il culmine di questo caos urbano sarà segnato dall’arrivo di Kamala Harris e del suo vicepresidente. Le marce dei gruppi di protesta previste sono numerose come le loro sigle e includono quelle a favore dell’aborto come Bodies Outside of Unjust Laws, l’Israeli American Council, la Chicago Coalition for Justice in Palestine, la Poor People’s Army e molte altre. Comun denominatore di tutte quante queste marce è tuttavia il conflitto in medio oriente e nella maggior parte dei casi il sostengo va alla causa palestinese.

Già da questo si vede come questa kermesse si preannunci a dir poco complicata. E i motivi sono numerosi.

Innanzi tutto ci sono state le dimissioni di Joe Biden che ha annunciato tardi il suo ritiro dalla competizione elettorale e seppure la sostituzione è apparsa indolore, in quanto la maggioranza dei delegati è apparsa compatta in favore di Kamala Harris, certo ci sono malumori nel partito che probabilmente si paleseranno alla Convention su obiettivi disparati.

Inoltre la guerra in medio oriente ha creato nelle università molti malumori e movimenti pacifisti che denunciano lo sterminio dei palestinesi a Gaza da parte del governo Netanyahu sul quale, a detta di molti, l’amministrazione Biden ha agito e agisce troppo debolmente nel tentativo di fermare il conflitto. E questo sarà un tema che oltre che al di fuori della Convention farà discutere anche nel partito.

L’attentato a Donald Trump ha creato infine un clima di insicurezza e di paura che va oltre i normali rischi che queste manifestazioni comportano.

Per questi motivi il pensiero va immediatamente non certo alla pacifica Convention del 1996 dove Bill Clinton e Al Gore furono nominati per la rielezione nelle presidenziali di quell’anno, ma a quella turbolenta del 1968 dove, dopo l’annuncio di Lyndon Johnson che non si sarebbe ripresentato alle elezioni, fu nominato il suo vicepresidente Hubert Humphrey. Quello fu anche l’anno dell’assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy. Sono anni molto irrequieti. Siamo nel cuore della guerra nel Vietnam e il movimento studentesco è molto attivo nel paese dove vige quella la ferma obbligatoria che ha causato in totale la morte di 58.000 soldati americani. Le proteste in quegli anni furono numerose e spesso teatro di scontri violenti.

Dopo la nomina ufficiale di Humphrey si scatenò nella “Wind city” l’inferno! E, come raccontò nel suo reportage giornalistico Norman Mailer e soprattutto nel suo libro Miami and the Siege of Chicago, mentre la nomination di Nixon in Florida andò liscia e senza intoppi, Chicago divenne il teatro di scontri violenti tra la polizia e i manifestanti che dettero luogo a enormi mobilitazioni di giovani contro la guerra e contro il partito della Convention. Sindaco democratico della città che aizzò la polizia e chiamò anche la Guardia nazionale contro color che protestavano era allora il discusso e carismatico Richard J. Daley. Il risultato fu un disastro e a quelle elezioni vinse poi Richard Nixon.

Mike Royko grande giornalista di Chicago che ha pubblicato su molti giornali cittadini come il Chicago Daily News, Il Chicago Sun-Times e il Chicago Tribune scrisse il famoso libro Boss: Richard J. Daley of Chicago e soprannominò quel sindaco “king maker.” Royko con grande lucidità e senso dell’umorismo mise a nudo l’uomo politico, la macchina politica della citta famosa e unica negli States e ne fece la figura dell’ultimo dei Cesari. Ispirò anche nel 2011 una serie televisiva dall’omonimo titolo Boss con Kelsey Grammer prodotta, tra altri, anche da Gus van Sant.

Adesso il sindaco è molto diverso da Richard J. Daley, se non altro per la sua disposizione nei confronti dei dissidenti, oltre che per il colore della pelle. Anche la situazione registra differenze notevoli: Biden non è Lyndon Johnson e la guerra in medio oriente non è la guerra in Vietnam. Certo alcune somiglianze ci sono, ma sono i tempi ad essere diversi.  Inoltre l’altra grande variabile non presente nel 1968 è Donald Trump imprevedibile e fuori controllo. Speriamo che la windy city cosi soprannominata anche per il “vento” della politica, rimanga tutto sommato all’altezza della sua reputazione di grande città democratica nel senso più ampio della parola e non sia questa volta il teatro di scontri violenti. Ma soprattutto che l’outcome di questa Convention sia diverso dal quello che seguì a quella del ’68.  Anche perché questa volta sarebbe davvero un disastro!


Accanto al titolo, il manifesto che l’artista Shepard Fairey ha disegnato per Kamala Harris.

Facebooktwitterlinkedin