Suggestioni Olimpiche
Campioni di normalità
Armand Duplantis, Simone Biles, Leon Marchand, ma anche l'afgana Kimia Yousufi o la rifugiata Cindy Ngamba: campioni “normali” che fanno delle Olimpiadi un luogo di speranza
Quando Sergej Bubka saliva in cielo centimetro dopo centimetro, al giornale si andava dai grafici che disegnavano le pagine e la domanda era sempre la stessa: che ci mettiamo? Quattro macchine, dei bus uno sopra l’altro, due tre piani di una palazzina? Perché bisognava rendere chiaro al lettore della carta stampata fino a che altezza fosse arrivato quel diavolo di atleta con la sua asta diabolica. L’ucraino, che allora tutti davamo per russo anzi per sovietico, aveva cominciato con i record dai 6 metri di Parigi del luglio 1985 fino ai 6,14 metri del Sestriere nove anni dopo.
Mi è venuto in mente il tormentone del grafico guardando l’altra sera Duplantis: quante macchine avrà saltato? Ci si esalta davanti alla tv nel dopo cena vedendo i Giochi parigini: così ieri ho goduto alla impresa di Mattia Furlani, un pischello dei Castelli romani, terzo nel lungo, e delle ragazze della pallavolo che sono arrivate anche loro come i maschi in semifinale. Così aspettiamo Tamberi.
Armand Duplantis, un nome che sembra uscito dalla Signora delle camelie, si è issato a 6 metri e 25 centimetri. Nuovo tetto del mondo del salto con l’asta. Centimetro dopo centimetro. Come Bubka. Lo svedese ha cominciato dal 6,17 del febbraio 2020 fino alla misura dello Stade de France, alternando esibizioni indoor a quelle all’aperto. Come ogni star, Armand aveva una platea sterminata di fan entusiasti, gente che non è tornata a casa, nonostante i primi due tentativi falliti, convinta che “Mondo”, lo chiamano così, l’avrebbe fatta impazzire con uno delle sue spettacolari prestazioni.
Duplantis, una stella tra le tante dei Giochi. La leggenda racconta che, avrà avuto sette od otto anni, il ragazzino avesse trovato il modo per andarsene da casa in maniera originale. Nel senso che saltava comodamente i quasi 2 metri e mezzo del muro del giardino di casa. È stato lui stesso a dire nella notte del record che, una volta cresciuto, i suoi genitori gli avevano piazzato una pedana tra una pianta di meli e una di lillà e lui, oplà, saltava. «Qualche volta rischiavo di finire dentro casa dei vicini». Del resto, ha i cromosomi giusti. Il padre, Greg, statunitense, saltava anche lui, la madre, Helena Hedlund, svedese, era una pallavolista ma anche una eptatleta. Il campione è nato in Louisiana, a Lafayette, a novembre farà 25 anni. Nazionalità statunitense e svedese, gare con la bandiera blu e la croce scandinava gialla. Si è già preso due Olimpiadi, due titoli e un argento mondiali, tre Europei, per non parlare delle vittorie al coperto.
Campioni e pop star. Duplantis pare lontano dal campione “perfettino” che fa arrabbiare Sara Simeoni. «Io non avevo il tempo – ha detto a Sportweek la grande campionessa – nemmeno di radermi le ascelle, adesso invece l’atletica sembra una sorta di sfilata di moda». Armand ha la faccia del ragazzo perbene, un po’ scapestrato. Animale da spettacolo. Così eccitava la folla con quel battere ritmato delle mani sopra la testa quasi dovesse svisare con una Fender, poi impugnava tra qualche smorfia la sua asta gialla e via a scavalcare quella sbarra di colore lilla che lo minacciava dall’alto. La terza volta, quella buona, correva con quella cosa in mano come un centometrista. Veloce verso l’iperuranio. Non poteva sbagliare. Infatti è passato al di là del muretto di casa mentre se ne cadeva lo stadio. Prima cosa, il bacio a Desiré, una modella.
Perché il concentrato del globo che è Parigi – mentre il resto del mondo è con il fiato sospeso – assume in certi momenti i connotati della familiarità, dei gesti di ogni giorno, dei sorrisi e delle gioie, dei drammi e delle lacrime. Alla portata di tutti. Le telecamere scrutano e svelano. Ma questi giovani sembrano veri, non filtrati, non influenzati dagli influencer, un po’ nostri figli, un po’ nostri nipoti. Che sono crudeli, a volte, si sa. Anche le Olimpiadi possono essere un immenso teatro della crudeltà, come ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio, e «partecipare non ha senso se non per salire sul podio. Tremendo… Il copione… è scritto e concepito per la glorificazione del momento assoluto, che è evasivo, si afferra ad un prezzo altissimo… basta una minima distrazione e anni e anni di lavoro, di rincorsa psicologica, di tensione fisica e morale, se ne vanno nel fiume malefico della sconfitta… Nel teatro della crudeltà non c’è un secondo atto, la prossima volta sarà tra quattro lunghi anni…».
Crudele e malvagia è stata quella trave per la Regina, Simone Biles. Benigna e umana, sempre la trave, per la gemella timida di Genova, Alice D’Amato, e per la più giovane della truppa azzurra, Manila Esposito, le cuffie che pompano Geolier. L’oro mai visto della ginnastica italiana al femminile. Donne, ragazze che nel nostro medagliere pesano: 5 volte in cima al podio, dalla trave alla spada al windsurf della Maggetti che ci ha commosso per aver ricordato Gigi Riva. Per me, allevato a pane e palloni, che non sono stati quasi mai quelli del calcio, è difficile capire qualcosa della ginnastica e di quegli sforzi che impongono fatica ed equilibrio. Quindi il volteggio alla Yurchenko con salto carpiato potrebbe essere anche un piatto della cucina russa. Ma ho letto della Regina, della donna che ha rivoluzionato uno sport, da gente che la segue da anni. E, certo, ho bene in mente quello che successe tre anni fa a Tokyo quando Simone disse basta, fatemi scendere, mi fermo qui. Doveva eseguire un esercizio molto complesso al volteggio (è tanto brava che ha dato il suo nome a diversi esercizi). Lo fece male. Parlò con i tecnici, pianse e più tardi disse: ho avuto un twisties, una specie di capogiro, meglio «una perdita momentanea del controllo del corpo mentre si è in aria». Abbandonò la squadra e per questo venne molto criticata. Polemiche feroci. Simone Biles, che oggi ha 27 anni ed è sposata ad un giocatore di football dal nome impegnativo ed olimpionico, Jonathan Owens, era la penultima di quattro fratelli. Una famiglia difficile con una madre tossicodipendente. I bambini furono tolti alla donna, lei e una sorella furono adottati dal nonno dopo qualche anno. Cominciò a frequentare le palestre da bambina, aveva sei anni. Prima di Parigi aveva come bottino 37 medaglie, 30 ai Mondiali e 7 alle Olimpiadi. «Ringrazio Iddio per quel volteggio» ha ripetuto varie volte. Perché dopo la depressione, la derisione per quell’esibizione andata male, dopo aver visto l’inferno della solitudine, Simone è riemersa. Anche dalle violenze che aveva subito. Fu lei, insieme ad altre ginnaste Usa, a denunciare di essere stata abusata dall’ex medico della nazionale Usa, Larry Nassar. «Per troppo tempo mi sono chiesta: era colpa mia? Sono stata ingenua? No, no, non è stata colpa mia…», ha scritto nella sua autobiografia.
Dopo il buio, la luce. Tornò ad allenarsi e ad aver voglia della vita. Perché la ginnastica non è solo dieta e disciplina, non è solo ragazzine che fanno vita da monache. E a volte pagano abusi e violenze anche nell’anima. «Se sono in questa condizione – ha detto di recente – è perché adesso ho una rigorosa attenzione alla salute mentale. Non salto mai gli incontri del giovedì con il mio terapista». La mente, innanzitutto. La serenità, avere attorno a sé gli affetti più cari (a Tokyo non c’era nessuno dei suoi familiari a causa della pandemia), ritornare a credere in sé stessa. L’Arena Bercy era gremita. Tom Cruise, Lady Gaga, Ariana Grande ed altre star erano lì per lei. E lei salta fino a toccare il cielo. E si gira in volo. E si capovolge. E il palazzo esplode come fosse un bel gol di Mbappè. No, come fosse Simone. Ha preso solo tre ori. Quel cadere dalla trave l’ha resa umana. Quinto posto, la giuria le ha fatto pagare anche il mancato saluto alla fine dell’esercizio. Sono un po’ sbirri questi della ginnastica. Ha perso anche nel corpo libero ma poi ha compiuto un altro gesto da vera Regina, inginocchiandosi con la sua compagna di squadra sul podio e rendendo omaggio alla vincitrice, la brasiliana Rebeca Andrade. «Sto diventando vecchia». A Los Angeles 2028 avrà 31 anni. «Mai dire mai…».
Leon Marchand invece di anni ne ha 22. Il “gamberetto di Tolone” ha risollevato persino Macron. Quattro ori nella piscina della Défense. Due nella stessa sera a poche ore di distanza: 200 farfalla e 200 rana. Anche qui, uno spettacolo mai visto. Perché poi la farfalla è una cosa, la rana è un’altra. «L’acqua era il mio rifugio da bambino» ha commentato con in giornalisti. Il francese è tra i grandi del nuoto. Alla pari di gente con Mark Spitz e Michael Phelps. E di quest’ultimo si è preso l’allenatore, Bob Bowman che parla di lui come del fenomeno di anni fa: «Ama visceralmente il nuoto». È un ragazzo come tanti, un fisico quasi normale ma una capacità di fendere l’acqua non comune. È stato uno dei protagonisti di questi Giochi che si concluderanno domenica.
Ma si può essere primi anche arrivando ultimi. Come Kimia, afgana, che ha corso i 100 metri ed è finita nelle retrovie. E al termine della gara ha mostrato un pettorale rovesciato su cui c’era scritto Education, Sport, Our rights. Educazione, sport, i nostri diritti. Kimia Yousufi aveva corso anche a Tokyo, tutta fasciata di nero. Nel suo Paese non poteva più rimanere, è scappata in Australia aiutata dal Cio che ha provveduto a dare una mano anche ad altri atleti del povero paese asiatico finito in mano ai talebani. E lei ha voluto lanciare ancora un messaggio: «Dico alle ragazze afgane, non arrendetevi, non lasciate che altri decidano per voi». È scappata dal Camerun anche Cindy Ngamba. Ha trovato rifugio a Londra. A Parigi fa parte della squadra dei rifugiati, è una pugile, è salita sul ring per combattere. È fuggita perché nel suo Paese l’omosessualità è un reato. È arrivata in semifinale. Un bronzo è sicuro: «Sarà la prima medaglia per i rifugiati. Ci sono milioni di rifugiati in tutto il mondo. Noi li rappresentiamo. Non vi arrendete».
Non sempre le Olimpiadi sono crudeli.