Lina Senserini
Al San Rocco Festival di Marina di Grosseto

Teatro dalla prigione

Con "Cattivo", tratto dal libro di Maurizio Torchio, Tommaso Banfi costruisce un monologo duro, emozionante e claustrofobico sul mondo della reclusione

Il palco è vuoto, il pavimento è scuro, l’atmosfera cupa, appena illuminata da luci basse. Il protagonista, condannato all’ergastolo ostativo, entra strascicando i piedi, un maglione sformato e un paio di pantaloni di tessuto pesante. In mano uno sgabello e, sottobraccio, un telone di nailon ripiegato. La parlata lombarda inciampa nella mandibola, in avanti come in una bocca senza denti, e le parole escono quasi tremolanti.

Si apre così la piece Cattivo, riadattamento teatrale del libro “Cattivi” (Einaudi, 2015) di Maurizio Torchio, scritta e interpretata da Tommaso Banfi, con la regia di Giuliana Musso e la scenografia minimale di Francesco Fassone. Lo spettacolo (che appartiene al canone del teatro sociale) è andato in scena a Marina di Grosseto il 4 agosto, all’interno del San Rocco Festival, la rassegna di teatro e musica diretta da Giorgio Zorcù.

Un monologo duro, crudo, a tratti angosciante e claustrofobico, a momenti capace di una vena di ilarità, su un tema di cui si parla solo quando l’attualità lo riporta alla ribalta delle cronache: la condizione delle carceri, dei detenuti ma anche delle guardie, vista dagli occhi di un condannato all’ergastolo a vita, che racconta il suo “fine pena mai” in prima persona, rivolgendosi direttamente al pubblico, dalla cella d’isolamento dove vive recluso per un doppio crimine. Il secondo, l’omicidio di una guardia carceraria, commesso proprio durante la detenzione.

Dalla “prigione della prigione” come la definisce, le sue parole dipingono un doppio scenario, la vita dentro alle mura e nelle celle da una parte, la propria intima dimensione dall’altra. Una dimensione rappresentata da quel “io ho bisogno di parlare”, estrema sintesi della terribile condizione dell’isolamento. Non possono non venire in mente le immagini del detenuto Tornasole, nel film Fuga da Alcatraz, che addomestica un topolino per sentirsi meno solo.

Banfi si muove sul palco come se fosse dentro alla cella. I passi sono delimitati dal perimetro del telo di plastica steso sul pavimento, elemento scenografico ora piegato come un album di ricordi, ora trasformato nell’abbozzo di una figura femminile, “la principessa del caffé” di cui il protagonista è stato carceriere per 7 mesi, ora in un bozzolo in cui si rifugia dalla paura e dai sogni di libertà. Vittima e carnefice, ripiegato su sé stesso quando parla di sé, ma capace di un urlo feroce quando racconta il pestaggio di un detenuto. Non si può non provare simpatia per quest’uomo che ha tolto una vita, abdicando così alla sua, per il suo irresistibile bisogno di raccontarsi che l’appassionata interpretazione di Banfi trasforma a tratti in uno “show don’t tell” non certo facile in un monologo.

Gli occhi del pubblico sono incollati sul volto dell’uomo che infine si addolcisce e sembra ancora più fragile, nel sogno che chiude la piece: gli anni passati in carcere non sono vissuti, dice, dunque dovrò in qualche modo riaverli indietro. La sua è la speranza di una seconda possibilità prima della morte, un volo della fantasia unica libertà concessa nel “fine pena mai”. “Ho paura. Mi vergogno a dirlo. Non lo dicessi, però, mi vergognerei di più. Ho paura perché ho speranza. Perché, assurdamente, sento di avere ancora qualcosa da perdere”, dice.

Banfi offre un finale intimo, il tono commosso, la voce quasi melodica. Come si legge nella presentazione dello spettacolo, “la forza perturbante di questo monologo sta anche nella recitazione di Tommaso Banfi: sorprendentemente organica, umida, rotta, arresa, così tecnicamente sofisticata da far scomparire l’attore e dimenticare ogni teatralità”.

Facebooktwitterlinkedin