Diario di una spettatrice
Il cavallo e la torre
Il fim d'esordio di Francesco Frangipane, "Dall’alto di una fredda torre”, con Anna Bonaiuto e Vanessa Scalera, racconta una storia drammatica che mostra troppo chiaramente la sua derivazione teatrale
Non sempre ciò che funziona a teatro funziona anche al cinema, a meno che il regista non si chiami Elia Kazan o Roman Polanski. L’ho pensato vedendo l’esordio alla regia cinematografica di Francesco Frangipane, Dall’alto di una fredda torre, pellicola premiata alla Festa del Cinema di Roma come migliore opera prima italiana e che sembra avere tutti gli ingredienti per soddisfare lo spettatore: la sceneggiatura di Filippo Gili, lo stesso autore della pièce teatrale su cui il film si basa e con cui Frangipane collabora dal 2011; un cast di attori eccellenti a cominciare da Anna Bonaiuto e Vanessa Scalera; un regista che ha alle spalle un considerevole curriculum di esperienze e successi teatrali; infine il fatto che il film dura 90 minuti, la misura aurea di Woody Allen.
Ma questi atout (teatrali) non bastano a costruire un bel film: la pellicola resta sospesa nella nebbia della prima inquadratura in cima a una montagna, la storia, che pure è fortemente drammatica, non decolla per un eccesso di cerebralismo e di scrittura più che di regia e lo spettatore assiste al suo svolgersi, peraltro senza un esito chiaro, con distacco, come se tutto avvenisse proprio su un palcoscenico, nella finzione di un palcoscenico, in una bolla oltre il tempo, teatrale appunto, in cui non c’è posto per le emozioni.
La storia che il titolo evoca (è il gioco della torre, cioè il dilemma di chi buttare giù) travolge una famiglia di Gubbio: i genitori sono entrambi affetti da una sindrome rara e mortale e i due figli (gemelli eterozigoti) hanno la possibilità di salvarli attraverso un prelievo di midollo spinale. Purtroppo solo la figlia risulta compatibile e quindi il trapianto potrà salvare solo uno dei due.
Scordatevi La scelta di Sophie, il film non è niente del genere. Le scene si susseguono esattamente come avviene a teatro: il pranzo domenicale a casa dei genitori con le consuete schermaglie tra madre e figlia, i battibecchi tra fratelli nei quali lo spettatore intuisce una complicità morbosa, il confronto in ospedale con i medici che sollecitano una scelta impossibile. Uno svolgimento prevedibile in cui stona la recitazione spesso enfatica, necessaria a teatro ma fastidiosa al cinema. E stonata risulta anche la scelta degli attori che impersonano i gemelli: Vanessa Scalera sembra avere molti più anni di differenza dei due che realmente la separano da Edoardo Pesce.
Così alla fine mi sono chiesta se non era meglio vedere Dall’alto di una fredda torre direttamente a teatro, dove andò in scena nel gennaio 2015, secondo capitolo della Trilogia di Mezzanotte firmata da Gili.
Ultima stonatura: c’è un bellissimo cavallo bianco di proprietà dei fratelli che scappa dal box e sfreccia al galoppo attraversando buona parte del film. Qualunque sia la metafora che il regista ha certamente voluto suggerire con l’equino in fuga (il bisogno di sottrarsi a una situazione insostenibile e claustrofobica? bóh!), anche questa si risolve in un elemento di fastidio, almeno per chi ne sa di cavalli. Perché, se è plausibile che un cavallo scappi, è del tutto inverosimile che continui a galoppare in assenza di una minaccia. I cavalli risparmiano le energie e liberi pascolano con grande godimento, i cavalli addestrati ai concorsi poi (c’è un accenno da cui si capisce che era la figlia a montarlo) tornano subito a casa dopo la “rallegrata” della fuga. E questo lo so per esperienza diretta. Mi propongo quindi come consulente a Frangipane se vorrà ancora un cavallo nel cast.