Michela Di Renzo
Una storia in corsia

Maura e Marco

«Era bruttina, con quel viso tondo, a luna, il naso a patata, e due gambe storte da farci passare un cane, non era brava all’Università, che motivi avrebbe avuto di tirarsela?»...

Ieri è venuta a trovarmi. Anzi dovrei dire, è tornata. Perché non è la prima volta che viene. Deve essere la quarta o la quinta, ho perso il conto, perché sono sempre più stordita, o forse perché in questa stanza di ospedale i giorni si susseguono tutti uguali. L’unica cosa che cambia è l’espressione di Marco, che si fa sempre più triste, nonostante ogni tanto se ne esca con qualche barzelletta stupida o con qualche aneddoto dell’ospedale: io a volte sorrido, ma non troppo, altrimenti inizio a tossire, e allora anche Marco sorride con me, ma non mi sfugge il suo sguardo da cane bastonato che contrasta con il resto del volto. Lo conosco troppo bene perché riesca a ingannarmi. E a proposito di cane, parliamo spesso di Gino, dei guai che sta combinando nella pensione in cui lo ha messo in questi giorni, per starmi accanto il più possibile. Secondo me sarebbe stato meno traumatizzante tenerlo in casa trovando una dog-sitter, ma sono ormai troppo debole per impormi. Spero che Gino non soffra troppo, sono passati solo da tre anni da quando lo abbiamo preso in un canile, quando nessuno di noi due si aspettava quello che è successo, e il suo carattere tremendo, perché sembra che tra i suoi geni ci siano quelli di un Cocker e i Cocker hanno un brutto carattere, Gino, dicevo, si era addolcito parecchio in casa nostra.

Ma torniamo a lei, a Maura, al fatto che ieri è venuta a trovarmi. La prima volta non mi sono meravigliata più di tanto, all’inizio qua c’era la processione dei colleghi e lei era una di loro. Tra l’altro eravamo nello stesso corso di Medicina, anche se non abbiamo mai studiato insieme, perché io ero in pari con gli esami, mentre lei, no, era rimasta indietro, anche se poi si è sistemata prima di tutti gli altri, per via del cognome che portava, ma a me non è mai rimasta antipatica, perché non se la tirava per niente. Del resto era bruttina, con quel viso tondo, a luna, il naso a patata, e due gambe storte da farci passare un cane, non era brava all’Università, che motivi avrebbe avuto di tirarsela? Le poche volte che l’ho incontrata a qualche cena, o da studenti o quando lavoravamo già in ospedale, non era nemmeno simpatica; di solito se ne stava zitta ad ascoltare quello che dicevano gli altri, soprattutto quando c’era Carlo, sì proprio lui, il chirurgo che mi ha operato un anno fa, un altro nostro compagno di corso. Nel nostro ambiente c’era la chiacchiera che Maura ne fosse innamorata, ma lui non ricambiava tanto, dopo non so quante fidanzate, si è sposato con una infermiera molto più giovane. Chissà se Maura torna a trovarmi nella speranza di incontrarlo, perché la corsia della Chirurgia è proprio qui accanto, e lui si affaccia spesso a farmi un saluto, anche se ormai a cinquant’anni suonati si dovrebbe essere rassegnata. Cinquant’anni già, non sono pochi da certi punti di vista, ma da quando so quello che mi aspetta, a me sembrano un niente.

Ieri Maura mi ha portato una fetta di crostata fatta da lei. Non sapevo che fosse una brava cuoca e il dolce aveva un bell’aspetto, con le strisce di pasta frolla disegnate sopra la marmellata di more, io non sono mai stata brava in cucina, ma la roba buona la riconosco, o meglio la riconoscevo, perché ora basta l’odore del cibo a farmi venire la nausea. E se non fosse per l’insistenza di Marco non butterei giù nemmeno quelle due cucchiaiate di semolino che mi costringe a mangiare. Anche se non sono quelle che mi tengono in vita, quanto piuttosto le flebo, che lui controlla dalla mattina alla sera. Insieme alla morfina, che tiene a bada il dolore. Comunque alla fine la fetta di crostata se l’è mangiata lui e ho visto bene come l’ha finita in pochi bocconi. Anche se quando gli ho chiesto com’era, ha risposto: “Niente di che”. Ma ormai tra noi due funziona così, che non ci diciamo più quello che pensiamo davvero. Peccato, perché la sincerità è sempre stata importante nel nostro rapporto, anche se ero sempre io quella che aveva il coraggio di incominciare. ‘’Se penso al mio matrimonio, provo una grande angoscia”, gli dissi un mese prima della cerimonia. Allora lavoravamo fianco a fianco da un paio di anni ed era chiaro che provavamo una certa attrazione, ma eravamo entrambi impegnati. “Se buttassi tutto all’aria te che faresti?”. Il nostro abbraccio fu più eloquente di mille parole e la sera stessa, quando tornai a casa, dissi ai miei che non mi volevo più sposare. Almeno non con il ragazzo che pensavano loro. Non mi parlarono per mesi, ed io e Marco andammo a vivere come due amanti clandestini in un residence, con la sua ex moglie che ogni tanto veniva a urlare sotto le finestre. “È solo una questione di tempo”, mi diceva quando mi mettevo a piangere.

Il tempo, già, quello che ora mi manca. Quello che ora, con questo male addosso, mi fa vedere la tragedia di allora come una farsa. Quello che ora mi fa provare invidia, un sentimento che non mi è mai appartenuto. Perché la rabbia, il dolore, la paura, quelli li avevo messi tutti in conto, se non altro per averli visti sulla faccia dei malati a cui facevo la mia stessa diagnosi. Ma l’invidia, quella no. Quando è tornata Maura, ieri, e si è messa seduta, come se fossimo amiche da sempre, e invece non lo siamo mai state, e ha iniziato a parlare della sua giornata lavorativa, ho provato proprio invidia a pensare che avrebbe lavorato tutta la mattina e nel pomeriggio sarebbe andata a farsi i capelli. A me il mio lavoro di medico piaceva parecchio e mi mancano i pazienti, mentre dal parrucchiere non ci sono andata mai volentieri. “Non avevi bisogno di farti carina te, lo eri di tuo” mi ha detto Marco, quando Maura se ne è andata. “Anzi lo sei ancora”, ha aggiunto. “Dici?” ho fatto aggiustandomi il foulard che porto sulla testa, perché l’ultima chemio mi ha reso completamente calva. Certo ho ancora gli occhi chiari e i lineamenti minuti, ma ora scompaiono tra le guance gonfie di cortisone, tanto che la mattina, allo specchio, stento a riconoscermi. E, gonfia così, sembro ancora più bassa accanto a lui, che è alto. “Nelle botti piccine ci sta il vino buono” mi dice da anni. “E poi rispetto a Maura sei una donna intelligente; lo sei anche rispetto a me” ha aggiunto Marco, accarezzandomi la mano. “Su questo hai ragione” ho risposto, facendo finta di credergli. Non lo so se sono intelligente, so che mi sono laureata bene, ma quando ancora speravamo di avere dei figli, fui io a scegliere di fare il medico di base, perché mi sembrava più facile da conciliare con la famiglia. E lui mi sostenne in pieno, perché è sempre stato geloso fradicio e in ospedale le occasioni non mancavano. Marco invece scelse di restare in ospedale, anche se non ha fatto una grande carriera. Secondo i colleghi, perché ha sempre anteposto noi due al lavoro. Un pochino è vero perché a volte era così appiccicoso che mi sentivo soffocare, ma non gliel’ho mai detto.

“Però Maura è migliorata parecchio col passare degli anni” ho aggiunto: ora è una donna piacevole, curata, che parla in modo rilassante. Deve essere l’invidia che me la fa vedere così, perché Marco mi ha subito smentito. “Brutta era e brutta è rimasta”. Ho sorriso, e subito dopo mi è preso un attacco di tosse, uno di quelli tremendi e ho iniziato a sputare sangue. Lui ha chiamato un collega perché quando faccio così si fa prendere subito dal panico, e dopo i soliti controlli hanno aumentato la morfina. Mi sono addormentata alla svelta e quando mi sono risvegliata, alle due di notte, mi sentivo meglio, quasi bene. Lui era lì accanto a me, con la luce accesa, sdraiato su una poltrona; russava forte, come al solito, a bocca aperta. Chissà come mai in quel momento mi è venuta in mente Maura. E ho capito perché viene così spesso a trovarmi. Viene per Marco, non per me.

Mi si è stretto il cuore al pensarci. E l’ho odiata. Con tutta me stessa. Ma poi, dimmi te, venire prima del tempo, come un avvoltoio. Certo così si prepara la strada, altrimenti come avrebbe fatto ad abbordarlo dopo. Avevano ragione quelli del nostro anno a detestarla. Maura è sempre stata una sfrontata, c’era da aspettarselo da una così, una che si presentava agli esami senza avere aperto un libro e che prendeva trenta. Solo perché suo padre aveva telefonato al professore due giorni prima e si era fatto dare le domande. Lo sapevano tutti che andava così. Ora che ci ripenso, all’esame di Farmacologia, quello più difficile in assoluto, perché il Testi era uno mezzo matto, che non gli andava mai bene quello che dicevi, Maura fece scena muta, ma prese lo stesso diciotto. “Salutami tanto tuo padre” gli disse il Testi dopo averle firmato il libretto, come a sottolineare che non l’aveva bocciata per il cognome che portava. Che stupida che sono stata in tutti questi anni a non odiarla, a non accorgermi che stronza che era. Mi sono girata verso il muro e dalla rabbia mi sono messa a piangere. Marco ha smesso di russare per un attimo. Quando l’ho guardato, ha ripreso a ronfare. Di colpo mi è sembrato tanto invecchiato, tutto ripiegato nella poltrona troppo corta per lui. Del resto, non dorme bene da mesi. La luce della lampada gli piomba proprio sulla testa e accentua le occhiaie che ha sotto gli occhi; ha anche un principio di doppio mento che contrasta con il suo viso allungato e i capelli, spettinati da sempre, si stanno diradando e stanno imbiancando sulle tempie. Chissà come sarà tra dieci anni, con Maura accanto, forse. Mica posso pretendere che non mi dimentichi mai. All’improvviso mi viene in mente quella serie che abbiamo visto insieme su Enrico VIII e sulle sue mogli, con un attore molto bello, di cui non ricordo il nome. Quando andai a rileggermi la storia, scoprii che da giovane Enrico VIII era stato proprio un discreto ragazzo, ma si era ammalato presto e l’unica donna che se lo era goduto nel pieno delle sue forze era stata la prima moglie. Quando io e Marco ci siamo messi insieme, più di vent’anni fa, lui non russava né si doveva alzare di notte per andare in bagno. Per non parlare di quanto tiene alta la televisione ultimamente. E guai a dirgli che è sordo. E poi si innervosisce facilmente, specie quando discutiamo. Con Maura questo non succederà, perché mi sembra una donna accomodante. È una magra consolazione, certo, ma è l’unica che mi resta in questo momento. Allungo la mano verso il deflussore e mentre metto al massimo la velocità di infusione della morfina ripenso alla prima volta che ci siamo baciati, nella stanza degli armadietti, dove ci cambiavano da specializzandi: io in punta di piedi con il cuore che mi batteva a mille e lui piegato verso di me, che mi sollevava verso di lui. Chiudo gli occhi nell’attesa che arrivi il sonno, quello eterno. All’improvviso sento la sua voce, si deve essere svegliato e pensa che io stia dormendo perché sta sussurrando disperato: “Anna, non mi lasciare solo, come farò ad andare avanti senza di te?” Sollevo appena le palpebre, quanto basta per vederlo a capo chino, con la fronte appoggiata al bordo del letto, sulle mani incrociate. Mi giro verso il muro e mi addormento. In qualche modo se la caverà, soprattutto se Maura tornerà a trovarmi.


Il disegno accanto al titolo è di Rossella Palmieri.

Facebooktwitterlinkedin