Arturo Belluardo
“Di cose, fatti e animali siciliani”

Le Sicilie di Mormorio

Il nuovo libro di Diego Mormorio è un catalogo di anime siciliane. Un caleidoscopio di emozioni che sembra un racconto per immagini. Sulla scia di Sciascia e di Consolo

“Formando una linea dritta e parallela a quella della spiaggia, avanzavamo a un paio di metri uno dall’altro, lentamente, per non sollevare la sabbia dal fondale che avrebbe nascosto al nostro sguardo le prede. Di fronte a noi, a non più di cinquecento metri, c’era la piccolissima isola di Santa Maria, e potevamo raggiungerla senza bagnarci oltre il ginocchio. Alla nostra sinistra (…), Mozia, separata da acque appena più profonde. Al di là di queste, una striscia di terra a forma di mezzaluna, che le poneva al riparo dal mare aperto: l’Isola Lunga, la cui disposizione crea un ampio Stagnone, allora popolato da molte specie di pesci e molluschi. Ignoravamo – noi ragazzi, come i nostri padri e zii e vicini – che un tempo quel luogo conobbe l’odore dei cedri, la misteriosa trasparenza del vetro. Che vide passare – provenienti dall’estremità occidentale del Mediterraneo e dalle terre del Libano, dalle città di Tiro, di Sidone e di Arado – navi cariche di argento, di fichi, datteri e vino, mandorle, noci e melegrane. Di cuscini, tappeti e stoffe ricamate; di tessuti tinti di porpora.

“Ignoravamo le navi fenicie che, senza bussola, seguendo le coste e l’Orsa Minore, giungevano a Mozia. Allo stesso modo, nessuno di noi sapeva chi avesse costruito la strada dei carretti, quell’istmo lastricato che corre sotto il pelo dell’acqua, congiungendo Mozia quasi al punto in cui lasciavamo le nostre biciclette. Sapevamo ch’erano stati gli antichi, ma non precisamente chi fossero. Muratori, contadini e di altri mestieri affini, i nostri padri e zii e vicini non volevano del resto neanche saperlo. Gli bastava dire “gli antichi” e guardare la calza che si riempiva di granchi e mùrici, prima che cominciasse a soffiare la brezza che dava alle acque un tremolio che stancava la vista e nascondeva il fondale.

“A ogni passo sentivamo l’acqua accarezzare il dorso del piede, un leggero fruscio. Ogni tanto giungeva un rumore o una voce dalle case poco lontane. Più raramente, qualcuno veniva pizzicato da un granchio, gettava un grido e, saltando, sollevava schizzi, mentre gli altri ridevano. Ma subito dopo, il silenzio tornava a scivolare sull’acqua, oltre la mezzaluna dell’Isola Lunga.”

Partiamo dalla fine del libro, lirica, suggestiva. Densa di memoria. Memoria breve e superficiale, ma grave e ponderosa appena si infrange il pelo dell’acqua. Così è quando si parla di Sicilia, e non manca a questa forca caudina neanche Diego Mormorio con il suo Di cose, fatti e animali siciliani uscito per Avagliano lo scorso marzo (€ 16, 200 pp). Avesse privilegiato questa chiave lo storico della fotografia Mormorio, avrebbe intriso il suo libro di una densità malinconica, di un’archeologia sentimentale, che spesso pervade le parole siciliane di chi l’isola lascia per il Continente, e che di essa non può fare a meno, mantenendo un piede a Cariddi e uno a Scilla, in un contrasto di attrazione-repulsione. Irrisolvibile. L’essere migranti nell’animo, lo spago che lega la valigia di cartone, da cui trasudano improbabili sottoli, l’acqua fetida dei bagni dei treni, l’arancina collosa dei traghetti, compagni di viaggio dai nomi improbabili come Liborio Verderame o Silvestro Ferrauto, miricani che hanno sposato grasse tedesche e i cui figli biascicano un siciliano che nessuno ormai riconosce più, lingua cambiata, lingua scomparsa, lingua da italoamericani del New Jersey, Tony Soprano e le sue goommah. Avesse scelto questa chiave, Mormorio, la stessa della Conversazione in Sicilia di Vittorini, ci avrebbe forse dato inquadrature diverse, fish-eye o zoomate, sul suo rapporto con l’Isola Madre.

Preferisce invece rovistare in una scatola di vecchie foto, seppiate dall’usura e dallo scirocco, e tentare di raggrupparle per categorie omogenee, elementali (venti, Etna, copricapi, animali, per citarne alcune), o in forma di aneddoti, da quelli di caccia e di pesca (emblematica la storia del professor T., che libera i pesci dopo averli pescati) alle storie d’amore impossibili. Non ci troviamo dalle parti di Nino De Vita, che fa diventare la sua contrada marsalese, Cutusìo, ombelico del mondo e della lingua e con cui pure Mormorio condivide giovinezza e riflessi viola di saline, bensì, forse, in zona Kermesse sciasciana, o nelle pietre pantalichesi di Consolo, collezionate al di là del faro. Non lo cita Mormorio, forse per la lingua scelta, descrittiva, entomologica, laddove quella di Consolo (quanto ci manca!) scolpisce volute barocche nel calcare degli iblei.

Colleziona Sicilie diverse, il fotografo marsalese, e le colloca nei vasi di ceramica della farmacia del dottor Pipitone, immaginario interlocutore del “miscugliatore” di questo libro: e questa miscellanea conserva una certa grazia, una levità da guscio viola di riccio che galleggia sulla superficie tirrenica di Mozia, inanella storie per assaggi, cucchiaini di gelato di gelsomino, delicato ed effimero, seminando spunti, suggerimenti di approfondimenti, tracce da seguire: e, utilizzando il suo “miscuglio” come indice, potremo, se ne avremo voglia, approfondire le storie del mago Aleister Crowley, del principe poeta Lucio Piccolo, dell’Etna di Lazzaro Spallanzani e di Horatio Bronte Nelson, che in Sicilia non mise mai piede, ma che si fregiò con orgoglio del suo nome da Ciclope.

Ne vale senz’altro la pena.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso

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